PM&AL 2017;11(1)17-21.html

Danno da emotrasfusione: responsabilità e prescrizione

Jacopo Giammatteo 1, Francesco Paolo Cherra 2, Luigi Tonino Marsella 3

1 Dottore in Giurisprudenza, Roma

2 Avvocato, Roma

3 Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione, Università degli studi di Roma “Tor Vergata”

Abstract

A wide scientific and jurisprudential literature is available on the issue of medical liability for damage by blood transfusion. National laws and jurisprudential guidelines had transposed the scientific development in term of preventive diagnostic techniques designed to minimize the risk of post-transfusion infections.

For this reasons the Ministry of Health has issued several decrees to preserve patients from viral post-transfusion infections, avoiding compensation due to unpredictable transfusion damages. Particularly, by implementing all the methods provided by law, it is now possible to minimize the risk of infection, but it is impossible to cancel it.

On the other hand, in the “so-called windows period” for viral infections, potential infective donors can’t be identified, although the recent molecular technique (PRC: polymerase chain reaction) has been applied for HBV, HCV, and HIV. This technique has been introduced in the nineties but applied only since 2000. Consequently an unappropriated transfusion therapy for wrong indication or a careless collection, analysis, and storage of blood, according to laws since 2000, remain compensable. Post-transfusion infections, which are impossible to identify for the sensitivity limits of analytical methods, are not compensable.

Another important issue is the time-barred for the request of the damage: in this case, the prescription term doesn’t start since the time of infection, but since the time when the disease was perceived or it could be perceived as a post transfusion damage. The purpose of this review is to provide an overview on the responsibility and the time-barred of damage caused by blood transfusion.

Keywords: Blood transfusion; Medical liability; Statute of limitations

Damage caused by blood transfusion and medical liability

Pratica Medica & Aspetti Legali 2017; 11(1): 17-21

https://doi.org/10.7175/pmeal.v11i1.1297

Corresponding author

Jacopo Giammatteo

giammatteojacopo@gmail.com

Disclosure

Gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Introduzione: emotrasfusione ed emoderivato

È necessario distinguere – a livello clinico – il danno provocato da un’emotrasfusione da quello cagionato da un emoderivato. Nel primo caso (emotrasfusione), le sostanze trasfuse al paziente sono emocomponenti individuabili in: globuli rossi, piastrine, plasma e, solo raramente, globuli bianchi. Tali prodotti vengono direttamente raccolti in ambito ospedaliero mediante prelievi di sangue e separati successivamente da specifici centri trasfusionali. In questo caso, gli enti ospedalieri saranno garanti della qualità dell’emocomponente. Parte del plasma raccolto negli ospedali viene ceduto alle aziende farmaceutiche per ricavare dal pool globale i cosiddetti emoderivati (albumina, fibrinogeno, fattori della coagulazione e immunoglobuline), ottenuti attraverso il frazionamento industriale del plasma. Nel secondo caso, gli emoderivati – a differenza degli emocomponenti – sono considerati prodotti medicinali e sottoposti a normativa specifica [1] e ai protocolli di farmacovigilanza. In caso di contagio da emoderivato, il danneggiato potrà invocare la normativa sulla responsabilità del produttore per attività pericolosa.

La differenziazione tra emocomponenti ed emoderivati appare ancor più necessaria se si tiene conto di ulteriori fattori. Gli emocomponenti nascono da grandi pool di sieri ottenuti da migliaia di donatori diversi: ad esempio, in Italia, sino agli anni ’90, per soddisfare il fabbisogno nazionale si è dovuto importare sangue da paesi come l’Africa, l’America Latina e l’Asia, privi, di fatto, di specifici controlli sui donatori. Inoltre gli emocomponenti, a differenza degli emoderivati, possono essere sottoposti a procedimenti di inattivazione virale. Tali fondamentali metodiche, però, vennero implementate in Italia solo a partire dal 1985, con la circolare ministeriale n. 28 del 17 luglio 1985 [2], e successivamente ampliate dal 1988 [3,4]. Trovarono infine la loro completa attuazione con il D. Lgs. 219/2006 [1], attraverso il quale veniva recepita la normativa europea regolante la qualità e la sicurezza della raccolta, della lavorazione e della conservazione degli emocomponenti e degli emoderivati.

Danno da emotrasfusioni

La vexata quaestio dei risarcimenti per il danno da emotrasfusione trae origine dalle molteplici pronunce giurisprudenziali emesse a seguito delle diverse trasfusioni di sangue infetto, avvenute in un arco temporale che si estende per più di un decennio, dal 1979 sino al 1990. In quegli anni, in Italia, si è assistito al dilagare di epatiti virali e di infezioni da HIV derivanti da trattamenti trasfusionali; i soggetti maggiormente colpiti furono i pazienti cronici, bisognosi di trattamenti ematici a carattere ciclico. In tale periodo, il sangue veniva acquistato all’estero, spesso in paesi del terzo mondo, senza alcun preventivo, né tantomeno successivo, controllo. Tale fenomeno dava origine ad una imponente quantità di giudizi che, seguiti di pari passo da altrettante pronunce giurisprudenziali, spesso contrastanti, trovavano definitiva quiete solo a seguito della pubblicazione della nota sentenza n. 11609/2005 [5], con la quale la Suprema Corte fissava i criteri generali per la risarcibilità del danno da emotrasfusione. Già in precedenza, negli anni ’90, diversi pazienti contagiati da trasfusioni di sangue o da somministrazioni di emoderivati infetti iniziarono a incardinare i primi giudizi. L’inaspettata eco mediatica provocò inevitabilmente l’attenzione del legislatore che, per porre iniziale rimedio alla crescita esponenziale del contenzioso, emanava la Legge 210/1992 [6], che dedicava l’intero articolo 3° esclusivamente a tale forma di indennizzo. Il dettato normativo veniva quindi recepito anche dagli Ermellini, che rilevavano come: «la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell’art. 2043 cod. civ., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall’art. 32 della Costituzione in collegamento con l’art. 2, ove il danno non derivante da fatto illecito sia conseguenza dell’adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, ove ne sussistono i presupposti a norma degli artt. 38 e 2 della Costituzione, a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell’ambito dell’esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali. In quest’ultima ipotesi si inquadra la disciplina apprestata dalla legge n. 210 del 1992, che opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico. […] Ciò comporta che vada condiviso l’orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso tra il diritto all’equo indennizzo di ciò alla L. n. 210 del 1992 e il diritto al risarcimento del danno ex art.2043 c.c.» [5].

L’evento danno: il complesso regime della responsabilità

Prima dell’entrata in vigore della L. 210/1992 [6], gli enti ospedalieri non avevano autonomia giuridica, né autonomia patrimoniale, ma erano inseriti nelle Unità Sanitarie Locali e avevano al loro vertice il Ministero della Sanità a cui era attribuito il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica. Quindi, tutti gli enti ospedalieri a carattere nazionale, che svolgevano esclusivamente o prevalentemente compiti di assistenza sanitaria, erano sottoposti alla vigilanza e alla tutela del Ministero della Sanità, in conformità alle leggi all’epoca vigenti. In tal senso infatti, volgeva il dettato normativo [7] che prevedeva l’assoggettamento dei centri trasfusionali al controllo e al potere direttivo del Ministero della Sanità. In seguito, con la Legge n. 883/1978, che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, [8] veniva sancita la competenza dello Stato per le funzioni amministrative riguardanti: «la produzione, la registrazione, la ricerca, la sperimentazione, il commercio e l’informazione concernenti i prodotti chimici usati in medicina, i preparati farmaceutici, i preparati galenici, le specialità medicinali, i vaccini, gli immunomodulatori cellulari e virali, i sieri, le anatossine e i prodotti assimilati, gli emoderivati, i presidi sanitari e medico-chirurgici ed i prodotti assimilati anche per uso veterinario» e la «raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione del sangue umano». In particolare, nella Legge n. 883/1978 si precisavache queste funzioni venivano esercitate emanando direttive concernenti le attività delegate alle Regioni. La successiva normativa [9,10] confermava le dette competenze al Ministero della Sanità che pertanto – in virtù del rapporto organico che lo legava alle Aziende Sanitarie Locali – avrebbe dovuto rispondere dei danni derivanti da trattamenti trasfusionali causati all’utente dal Servizio Sanitario Nazionale, nonché – giusta la previsione contenuta nell’art. 28 della Costituzione – dei fatti dolosi e colposi commessi dalle strutture ad esso collegate.

La catena della responsabilità, delineata dalle norme citate, è stata, ed è ancora, al centro di un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Secondo un orientamento minoritario [11], il Ministero della Sanità risponde sia della propria condotta, commissiva od omissiva, sia della condotta dei propri ausiliari a norma dell’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera del terzo, ancorché non alle sue dirette dipendenze, risponde dei fatti dolosi e colposi dei medesimi, che abbiano causato danni al paziente sottoposto al trattamento. Tale elaborazione sulla responsabilità contrattuale dello Stato (che si articola in Ministeri) sarebbe avallata, mutatis mutandis, dalle Sezioni Unite [12] che hanno individuato come “contrattuale” – richiamando la teoria del “contatto sociale” – la responsabilità del Ministero della Pubblica Istruzione nei confronti dell’alunno che, durante la fruizione della prestazione scolastica, abbia subito un danno. Il parallelismo parrebbe evidente per il paziente che fruisce della prestazione sanitaria. Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto questa impostazione nei confronti dell’amministrazione della Sanità: «sotto il duplice profilo della responsabilità contrattuale, conseguente all’inadempimento del SSN rispetto alla prestazione sanitaria corretta dovuta al cittadino in virtù della L. 23.12.78 e della responsabilità aquiliana, in violazione di un principio generale di neminem laedere. Sul punto deve chiarirsi che la suddetta “binarietà” è pienamente ammissibile, per giurisprudenza costante, tutte le volte in cui un medesimo fatto violi contemporaneamente sia i diritti spettanti alla persona, indipendentemente da un rapporto giuridico preesistente, che quelli derivanti da un contratto” [13]. La rilevanza di tale impostazione non è di poco conto: infatti, l’individuazione della responsabilità contrattuale per la fattispecie in esame determinerebbe importanti conseguenze in ordine all’onere probatorio e alla prescrizione [11].

Al contrario, l’orientamento maggioritario inquadra la responsabilità del Ministero in tema di patologie derivanti da infezioni con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratte a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto nell’ambito della responsabilità aquiliana (o extracontrattuale). In particolare, a venire in rilievo è la violazione della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., non potendosi ricondurre la fattispecie alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose di cui all’art. 2050 c.c. [14]. Infatti, solamente l’attività dei soggetti coinvolti in modo diretto nella produzione e commercializzazione dei prodotti può connotarsi come elemento della pericolosità di un’attività, così come prevista ai sensi dell’art. 2050 c.c. [15].

In sintesi, si può affermare che la responsabilità del Ministero della Salute per contagio da emotrasfusioni necessita di tre elementi:

  • il primo, consistente nel riscontro di un’omissione dell’attività di controllo, di direttiva e/o di vigilanza;
  • il secondo, nell’esistenza di una patologia e della contemporanea assenza di altri fattori causali alternativi del danno;
  • il terzo, nell’accertamento, attestata l’attenzione al momento della produzione del preparato, della conoscenza oggettiva (a livello scientifico) della possibile trasmissione di un virus attraverso sangue infetto, così da ritenere che il contegno omesso sarebbe stato necessario in quanto l’unico in grado di impedire l’evento danno, considerando inoltre che quest’ultimo fosse ipoteticamente prevedibile e in grado di evitare la lesione [16].

Diversa risulta essere, al contrario, la responsabilità nascente in capo alle strutture sanitarie che, sarà senza alcun dubbio di tipo contrattuale [17,18]. Con riferimento ai rapporti che legano il paziente e la struttura sanitaria, è noto come si sia negli ultimi tempi venuto a consolidare un indirizzo interpretativo, affermatosi dapprima nella giurisprudenza di merito e poi condiviso da quella di legittimità, il quale, muovendo dalla natura complessa della prestazione resa dalla struttura sanitaria, ha operato una ricostruzione del rapporto tra ente e paziente su basi negoziali, riconducendolo nell’ambito di un contratto atipico genericamente definito di assistenza sanitaria [19-23]. Alla luce delle pronunce giurisprudenziali attuali, il rapporto tra struttura e paziente è disciplinato da un contratto atipico, sinallagmatico, innominato, a forma libera, normalmente oneroso a prestazioni corrispettive, con prestazione (in capo alla struttura) a contenuto complesso, eventualmente di durata, al quale la giurisprudenza di merito, poi seguita dalla Cassazione, ha dato il nomen iuris di contratto atipico (o misto) di “spedalità”. L’accettazione del paziente all’interno della struttura ai fini del ricovero, ovvero di una visita ambulatoriale, determinerebbe quindi la conclusione di un contratto, in un meccanismo che non sempre rispetta il tradizionale schema volitivo-consensuale, e al quale si applicano le regole ordinarie in tema di adempimento di cui all’art. 1218 c.c. Tale impostazione è stata condivisa dalla giurisprudenza di legittimità con la nota decisione delle Sezioni Unite [24-26], con la quale la Suprema Corte ha completato quello che è stato definito un vero e proprio processo di contrattualizzazione a tappe forzate.

Dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 1218 ss. c.c. al rapporto malato-struttura, conseguono i seguenti “corollari”: il paziente è tenuto a fornire la prova dell’esistenza e conclusione del rapporto contrattuale; a dedurre e allegare l’inadempimento dell’ente o dei medici in esso operanti, o da esso dipendenti; nonché, giusta la previsione dell’art. 2697 c.c., a dimostrare l’esistenza del nesso eziologico tra l’evento lesivo del quale richiede il ristoro e la condotta ascritta al medico o alla struttura convenuti dai quali pretende di essere risarcito [27]. Sulla struttura e sui medici convenuti, debitori della prestazione di cura e assistenza sanitaria, incombe invece l’onere di dimostrare che inadempimento non vi è stato o che lo stesso è dipeso da un fatto a loro non imputabile ovvero imprevedibile [28].

Tuttavia, tale complesso meccanismo giuridico non trova applicazione nel danno da emotrasfusione. Nella fattispecie, infatti, l’inadempimento non è riconducibile alla singola struttura ospedaliera che abbia utilizzato sacche di sangue provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale dell’ASL, in quanto «non può ritenersi che tra la diligenza richiesta nello svolgimento dell’attività rientri il dovere di conoscere, e di attuare, le misure di prevenzione attestate dalla più alta scienza medica a livello mondiale per scongiurare la trasmissione di virus, almeno quando non provveda direttamente con un autonomo centro trasfusionale» [29]. Un dovere sì fatto «comporterebbe complesse scelte gestionali, anche di notevole impatto economico, sempre autonomamente possibili, ma non certamente esigibili come contenuto della diligenza qualificata dalla peculiarità della attività svolta. Invece, proporzionate all’attività svolta e, quindi, necessariamente implicanti l’inadempimento nel caso di mancato rispetto, sono le regole che l’ordinamento predispone per prevenire il rischio di trasmissione di virus: dall’utilizzo dei centri preposti alla fornitura, alla tracciabilità, al controllo dell’effettuazione, da parte del fornitore, dei test prescritti» [29].

Particolare trattazione merita, infine, la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, sia esso medico, tecnico di laboratorio, ecc. Sotto tale profilo, appare palesemente infondata la teoria che ne vede possibile la chiamata in giudizio, in quanto gli operatori medici sono responsabili solo di specifici atti quali:

  • l’accertamento dell’indicazione alla trasfusione;
  • la valutazione per l’autotrasfusione;
  • l’ottenimento del consenso informato;
  • la richiesta alla trasfusione con verifica e sottoscrizione della corretta compilazione dei dati anagrafici del paziente;
  • la valutazione di idoneità del paziente a ricevere la trasfusione;
  • l’accertamento della compatibilità teorica tra il gruppo ABO e tipo Rh del paziente e quello del componente da trasfondere;
  • l’ispezione dell’unità prima della trasfusione, al fine di rilevare elementi di possibile alterazione;
  • la sorveglianza del paziente durante la trasfusione;
  • la valutazione dell’efficacia della trasfusione.

Tuttalpiù, potrà essere configurata una responsabilità a carico dei medici di un centro trasfusionale che forniscano sangue proveniente da donatori rimasti ignoti e sui quali non sia consentito effettuare alcuna verifica.

I termini prescrizionali: l’individuazione del «dies a quo»

La valutazione circa la decorrenza del termine di prescrizione è aspetto assai controverso. Al riguardo, la giurisprudenza, giusta la previsione contenuta nell’articolo 2935 c.c., è arrivata a enunciare un principio di carattere generale secondo cui il dies a quo si identifica con il giorno in cui la malattia infettiva viene percepita quale danno ingiusto conseguente all’altrui condotta dolosa o colposa; ovvero dal giorno in cui la stessa può essere percepita come tale, tenendo conto dell’ordinaria diligenza del soggetto leso e delle diffuse conoscenze scientifiche al tempo del contagio [30]. Tuttavia, in alcuni casi è possibile rinvenire il momento del verificarsi dell’evento in un tempo anteriore alla richiesta di indennizzo. Valorizzando infatti le informazioni in possesso del danneggiato e la diffusione delle conoscenze scientifiche, è possibile che il giudice di merito, chiamato a stabilire il decorso del termine, accerti che la lesione sia stata percepibile anteriormente alla domanda. Ex multis, in tal senso una pronuncia della suprema Corte [31] con la quale gli Ermellini cassano una sentenza che aveva indicato quale momento iniziale della prescrizione la data di presentazione della domanda indennizzo, nel 1997, senza considerare che il danneggiato era stato costretto a trasfusioni mensili sin dall’anno 1984 e che la diagnosi della malattia risaliva al 1994, ossia in un momento in cui la conoscenza del problema doveva ritenersi già nota, essendo già in vigore la citata legge del 1992 [32]. Qualora la richiesta di risarcimento danni, infatti, sia consequenziale al decesso causato dalla patologia virale, il dies a quo decorre necessariamente dal momento in cui il danneggiato ne ha avuto contezza.

In conclusione, ferma l’individuazione del dies a quo, secondo i principi sopra enunciati, la responsabilità contrattuale o extracontrattuale applicabile alla singola fattispecie sarà dirimente per determinare la relativa prescrizione. Nel caso in cui operi la responsabilità contrattuale, di cui all’art. 1228 c.c., la relativa prescrizione sarà decennale; al contrario, nel caso in cui a rilevare sia la responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), di cui all’art. 2043 c.c., la prescrizione sarà quinquennale.

Bibliografia

  1. Decreto Legislativo 24 aprile 2006, n. 219. «Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE». Gazzetta Ufficiale del 21 giugno 2006, n. 142.
  2. Circolare Ministero della Sanità del 17 luglio 1985, n. 28. «Infezioni da LAV/HIV. Misure di sorveglianza e profilassi». Non pubblicata in Gazzetta Ufficiale
  3. Decreto Legislativo 9 maggio 1991, n. 178 «Recepimento delle direttive della Comunità economica europea in materia di specialità medicinali». Gazzetta Ufficiale del 15 giugno 1991, n.139
  4. Ministero della Sanità. Decreto 12 giugno 1991. Disposizioni sull’importazione ed esportazione del sangue umano e dei suoi derivati, per uso terapeutico, profilattico e diagnostico. Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 1991, n.148
  5. Cassazione Civile, sez. III, 31 maggio 2005, sentenza n. 11609
  6. Legge 25 Febbraio 1992, n. 210. «Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni». Gazzetta Ufficiale del 6 marzo 1992, n. 55
  7. Legge 14 luglio 1967, n. 592. «Raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano». Gazzetta Ufficiale del 31 luglio 1967, n.191
  8. Legge 23 dicembre 1978, n. 833. «Istituzione del servizio sanitario nazionale». Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 1978, n. 360
  9. Decreto Legge del 30 ottobre 1987, n. 443. Gazzetta Ufficiale del 31 ottobre 1987, n. 255
  10. Legge 4 maggio 1990, n. 107. «Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati». Gazzetta Ufficiale del 11 maggio 1990, n. 108
  11. Dragone M. Responsabilità medica danni da trasfusione e da contagio. Giuffrè: Milano. 2007
  12. Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 9346/2002
  13. Tribunale Napoli 22 giugno 2001, RCDL, 2001, 1123
  14. Cassazione Civile, sentenza n. 1136/2015
  15. Cassazione Civile, sentenza n. 116097/2005
  16. Palmieri A. Trasfusioni di sangue infetto: regimi di responsabilità e di prescrizione. Disponibile online su http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2016/06/16/trasfusioni-di-sangue-infetto-regimi-di-responsabilita-e-di-prescrizione (ultimo accesso marzo 2017)
  17. Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 9315/2010
  18. Cassazione Civile, sentenza n. 25277/2009
  19. Cassazione Civile, sentenza n. 6707/87
  20. Tribunale di Verona, 15.10.1990
  21. Tribunale di Udine, 13.05.1991
  22. Tribunale di Lucca, 18.01.1992
  23. Tribunale di Milano, 09.01.1997
  24. Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 9556/02
  25. Cassazione Civile n. 8826/07
  26. Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 577/08
  27. Cassazione Civile, sentenza n. 9085/06
  28. Cassazione Civile, sentenza n. 13066/04
  29. Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 3261/2016
  30. Cassazione Civile, sentenza n. 581/2008
  31. Cassazione Civile, sentenza n. 23635/2015
  32. Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 28464/2013

Refback

  • Non ci sono refbacks, per ora.


Copyright (c) 2017