PM&AL 2017;11(2)43-56.html

Alcuni primi rilievi di interesse medico legale in merito alla Legge n. 24 del 2017 sulla responsabilità sanitaria

Paolo Girolami 1

1 Docente di Medicina legale e di Bioetica, Facoltà di Medicina, Università del Piemonte Orientale

Abstract

In this paper, the author describes the new Italian law (law n. 24/2017) about health care security and health professionals liability. This law states that the rule of heath professionals is strictly regulated by evidence-based clinical practice guidelines or similar recommendations. Nevertheless, the new law tends to impose to the hospital and health and social care structures (public and private) a strict liability for the health professionals fault. Health professionals liability insurance coverage is assured by health and social care structures. Reducing litigation costs through alternative and mandatory dispute resolution process is the most important target of this law.

Keywords: Law n. 24/2017; Health professionals; Liability; Insurance

Some early reliefs of legal medical interest regarding Law no. 24 of 2017 on healthcare liability

Pratica Medica & Aspetti Legali 2017; 11(2): 43-56

https://doi.org/10.7175/pmeal.v11i2.1316

Corresponding author

Paolo Girolami

paolo.girolami@unito.it

Disclosure

L'autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Sicurezza delle cure

La legge n. 24 del 2017, intitolata «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», stabilisce innanzitutto che la sicurezza delle cure e della persona assistita è parte costitutiva del diritto alla salute. Essendo la sicurezza legata indissolubilmente al controllo dei fattori di rischio, al controllo di questi ultimi sono chiamati tutti i professionisti della salute, ivi compresi i liberi professionisti convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale. È importante qui ricordare che la sicurezza delle cure e della persona assistita si esplica attraverso la messa a disposizione degli utenti di trattamenti di sicura efficacia secondo specifiche evidenze scientifiche o quantomeno di prestazioni il cui beneficio sia maggiore del rischio di produrre un danno, sempre tenendo conto dei dati scientifici disponibili.

Il diritto alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, si arricchisce pertanto di una nuova specificazione, che rende ancora più concreta la posizione di vantaggio assegnata al cittadino in materia di tutela della salute dal dettato costituzionale, ampliando la portata dello stesso nella sua definizione di diritto fondamentale e assoluto, primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, secondo la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 1979 [1]. D’ora in avanti tale diritto dovrà essere interpretato anche come diritto del cittadino a trattamenti sanitari di comprovata sicurezza o quantomeno a prestazioni sanitarie i cui rischi siano inferiori ai benefici attesi sia sul fronte della tutela della salute sia di quello della incolumità personale.

A ben vedere la Corte di Cassazione, da vecchia data, pronunciandosi in tema di consenso al trattamento sanitario, aveva già intrapreso tale strada sottolineando che l’informazione non poteva limitarsi alle caratteristiche della prestazione, alla modalità di esecuzione, alla capacità del prestatore d’opera, ma doveva estendersi alle caratteristiche e ai requisiti di sicurezza dell’ambiente in cui essa sarebbe stata realizzata [2,3].

Tenuto conto che la sicurezza costituisce il principale denominatore del titolo della presente legge, soffermiamoci brevemente su tale concetto ripercorrendo per brevi cenni la sua archeologia.

Ci sarà di aiuto l’illustre filosofo francese Paul Ricœur che nel secondo libro della Philosophie de la volonté, intitolato “Finitude et culpabilité”, dedica un importante capitolo al tema della «souillure» [4], che in italiano può tradursi con il termine «sporcizia» nel senso di rendere o rendersi sporchi, insudiciare o insudiciarsi. Ricœur riconosce nell’atavica paura di insozzarsi, di infettarsi, in quanto frutto di contaminazione, di contatto con lo sporco, l’antitesi di un bene valoriale ed oggettivo, sia sul fronte della salute fisica che spirituale dell’uomo: la purezza. Ecco che il tema dell’impuro entra nella preoccupazione dell’uomo, che prende coscienza di tale situazione, che lo mette in pericolo nei rapporti soprattutto con gli altri, assumendo la purezza un’aura di rispettabilità e di prestigio nelle relazioni interpersonali. Da qui tutta una serie di norme volte sia a prevenire qualsiasi impurità, in quanto frutto di contaminazione, infezione, contatto, con esseri o oggetti potenzialmente pericolosi in quanto considerati impuri, sia a redimere il soggetto divenuto impuro a seguito di tali contaminazioni. Gli esempi che troviamo negli antichi scritti sono numerosi: si pensi alla Bibbia. I riti di purificazione possono essere inseriti sia nell’ordine concettuale della prevenzione (le abluzioni purificatrici, le formule di invocazione, ecc.), sia in quello della sanzione al pari di quelli di espiazione, che si richiamano all’idea di giusta retribuzione. L’impurità in quanto espressione del male invoca una forza vendicatrice portatrice di sofferenza, in grado di ripristinare l’ordine ferito dall’atto impuro. Il divieto peraltro è già portatore della sofferenza che la violazione implica e l’anticipa con forza dissuasiva. Secondo Ricœur, è attraverso l’intermediario della retribuzione che tutto l’ordine fisico dell’impurità è assunto nell’ordine etico della colpa. Come antidoto alla colpa, in quanto presa di coscienza di una mancanza riprovevole, ecco quindi la comparsa di tutta una serie di regole, che potremmo definire norme di sicurezza, e che vanno a confondersi nei termini lessicali, quali oggi si riscontrano normalmente in campo medico, di “linee guida, raccomandazioni, regole di buona pratica”.

Come rileva Ricœur, tali norme, o regole che dir si voglia, sono norme di sicurezza: esse sono il frutto della paura e anticipano nel loro contenuto un pericolo.

Ecco quindi la conclusione alla quale possiamo pervenire grazie a questi brevi cenni al pensiero del grande filosofo francese, che peraltro, ahimé, nella loro sinteticità non gli rendono il dovuto merito: la responsabilità medica si fonda ancora sull’idea della colpa (giudizio di riprovazione per una mancanza prevedibile ed evitabile da parte del professionista), ma la sua evoluzione verso l’idea di pericolo è ormai tracciata, facendo così presagire (grazie all’idea di sicurezza, ormai a pieno titolo inquadrata nel diritto alla salute) che l’attività medica sarà nel futuro sempre più inquadrata tra le attività pericolose con tutte le conseguenze, sul piano legale, che tale definizione comporta. Al professionista della salute verrà pertanto assegnato un obbligo di garanzia e come specificato dall’art. 2050 del Codice civile «chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno».

D’altra parte, se sorge sul professionista un obbligo di sicurezza, grazie al rispetto di specifiche norme di comportamento che presiedono all’attività di costui, e se tale sicurezza assurge al rango di diritto fondamentale, poco importa la responsabilità del singolo operatore, divenendo risarcibile e dunque degno di tutela ogni attentato a tale obbligo, al di là del giudizio di maggiore o minore colpevolezza dell’agente.

Sulla base di quanto finora detto, sembra lecito dunque presumere che la disciplina introdotta con la presente legge non è altro che il punto di partenza della collocazione dell’attività sanitaria nell’alveo delle attività pericolose (in quanto potenzialmente pregiudizievoli di tale sicurezza), per cui sarà posto in capo all’agente il dovere di dimostrare di aver adottato ogni misura (attenendosi alle norme comportamentali vigenti (come linee guida et similia), onde scongiurare il pericolo a cui l’attività stessa esponeva il fruitore della prestazione [5,6]. Già scriveva il Calabresi a questo riguardo: «La responsabilità oggettiva funziona bene proprio in quei campi tecnici in cui colui che ha il controllo della tecnologia è quello che compie le scelte. Ed è per questo che taluni hanno suggerito di introdurre il criterio della responsabilità oggettiva per gli enti pubblici, in caso di sinistri causati dai medici: la “filosofia” di questa proposta consiste nel dire a questi enti: “qualsiasi scelta facciate, se il risultato è nocivo, badate che dovete pagare, quindi scegliete bene”» [7].

Garante della sicurezza delle cure

La legge in questione attribuisce al Difensore civico la funzione di garantire il diritto alla salute di ciascun cittadino, il quale può segnalare direttamente, o tramite un proprio delegato, e gratuitamente, al Difensore civico stesso eventuali disfunzioni del sistema sanitario e socio-assistenziale. Una volta che al Difensore civico sia pervenuta una segnalazione, questi interviene, anche acquisendo per via digitale tutti i dati inerenti al caso oggetto della denunzia, per verificare la fondatezza della segnalazione e tutelare i diritti della persona lesa secondo le modalità stabilite da una specifica norma regionale (ogni Regione dovrà provvedere al riguardo). L’unica Regione che al momento si è attivata in tal senso è la Regione Toscana, che ha stabilito, già con Legge n. 36 del 1983 e successivamente con la Legge n. 19 del 2009 [8], che il Difensore civico potesse verificare la fondatezza della segnalazione/denuncia di maltrattamento o malfunzionamento del Servizio Sanitario Regionale anche avvalendosi delle strutture medico legali delle ASL o ASO, a spese della Regione. È importante notare, secondo l’esperienza toscana, che il Difensore civico ha agito negli anni come vero e proprio arbitro neutrale rispetto alle parti, e anche laddove non siano emerse ipotesi di responsabilità a carico dei professionisti e/o delle strutture sanitarie, egli si è fatto portavoce di malfunzionamento/disorganizzazione delle stesse suggerendo i necessari interventi correttivi. Peraltro, il Difensore non ha mancato di segnalare agli Ordini e ai Collegi professionali comportamenti scorretti sotto il profilo deontologico da parte dei singoli professionisti. La Regione Toscana ha peraltro il vantaggio di usufruire di un sistema di gestione diretta dei sinistri che si fonda su un sistema di auto-assicurazione nei confronti dei sinistri stessi e che affonda le proprie radici in un Centro regionale di gestione del rischio clinico. La Regione Toscana, assumendo la gestione diretta dei sinistri, ha riconosciuto nel Difensore civico l’autorità deputata a sovraintendere alla correttezza di ciascuna procedura di tutela dei diritti dei cittadini che si considerano lesi nei loro diritti, facendosi portavoce delle parti in conflitto e favorendone l’accordo attraverso lo strumento della conciliazione.

Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente

Sull’esempio dell’esperienza toscana, il Legislatore ha previsto la creazione, in ciascuna Regione, di un Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, avvalendosi delle risorse di personale ed economiche già disponibili, quindi senza alcun aggravio di spesa. Ogni Centro è preposto alla ricezione e raccolta di ogni informazione relativo al rischio e al verificarsi di eventi avversi proveniente dalle strutture sanitarie pubbliche e private. Sarà poi compito del Centro in questione trasmettere annualmente, per via digitale, tutti i dati in proprio possesso al costituendo Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità. È evidente che tale Centro opera grazie all’obbligo che grava su ciascuna struttura di registrare e comunicare ogni evento avverso. Infatti ciascuna struttura sanitaria non solo è obbligata a mettere in pratica tutti i meccanismi di gestione del rischio e di segnalazione dei sinistri che si sono verificati al suo interno ma anche di comunicarli a detto Centro, indicandone la natura, la causa e le iniziative messe in atto per risolvere i problemi. Nell’ottica della massima trasparenza voluta dal Legislatore, tali dati dovranno essere pubblicati annualmente sul sito internet della struttura sanitaria stessa.

È evidente che tutta questa organizzazione dovrà costituire oggetto di specifica valutazione e ricezione da parte degli organi regionali preposti, in modo che possa trovare in un apposito ordinamento piena realizzazione. Allo stato, assistiamo ad una pura indicazione progettuale da parte del Legislatore: in altri termini, le Regioni dovranno legiferare al riguardo.

Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità

L’art. 3 della Legge 24 tratta in particolare della futura costituzione dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, specificandone ruolo e funzione. Si trattata di una norma di programma in quanto rinvia all’emanazione di un successivo decreto del Ministero della salute. Tale Osservatorio sarà istituito presso l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali). Compete all’Osservatorio l’acquisizione di tutti i dati inerenti ai rischi e agli eventi avversi, alle cause che li hanno prodotti, alla loro entità e frequenza, all’onere finanziario che hanno comportato, (per regione e per struttura). Di tutti questi dati il Ministro della salute riferisce annualmente al Parlamento. Preme qui ricordare che già dal 2012 erano state istituite unità di risk management presso tutte le strutture sanitarie pubbliche e private, affidate a personale medico con specializzazione in igiene e medicina preventiva o ad essa equipollente. Ora il Legislatore (art. 16, comma 2 della presente Legge) estende tali compiti agli Specialisti in Medicina Legale, come pure al personale dipendente con comprovata esperienza almeno triennale nel settore.

Trasparenza dei dati e documentazione sanitaria

Particolarmente importante è l’art. 4 della Legge in esame, laddove si prevede che le prestazioni sanitarie erogate da strutture sanitarie pubbliche e private sono soggette all’obbligo di trasparenza, fatte salve le norme sulla tutela della privacy. In tale ottica, il Legislatore ha posto un onere particolarmente gravoso sulle direzioni delle strutture sanitarie stesse. Esse infatti dovranno fornire, su istanza dell’avente diritto, la documentazione sanitaria relativa al paziente entro sette giorni dalla presentazione della richiesta, preferibilmente in formato elettronico. Affinché tale obbligo sia realizzabile, il Legislatore ha poi stabilito che «entro novanta giorni» dall’entrata in vigore della legge le strutture sanitarie adeguino i regolamenti interni alla nuova disciplina. A titolo di breve commento, si potrebbe affermare che il paziente (utente) può verificare in tempo reale la realizzazione della prestazione dovuta. Sempre nell’ottica della trasparenza citata nelle righe precedenti il Legislatore ha inoltre stabilito che le strutture sanitarie pubbliche e private «pubblicizzino sul proprio sito internet i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio» (dopo verifica di tali dati da parte di ciascuna unità di risk management). Ancora a titolo di breve commento, si spera che tale iniziativa non venga interpretata dall’utenza come un incentivo al contenzioso.

Il riscontro diagnostico concordato con i familiari

Ancora nell’ottica della massima trasparenza del trattamento erogato e dei rapporti con il paziente va letta la norma di cui all’art. 4 della presente legge, in virtù della quale i familiari o gli altri aventi diritto del deceduto hanno la facoltà di concordare1 con il direttore della struttura sanitaria o socio-assistenziale ove è deceduto l’assistito l’esecuzione del riscontro diagnostico, e possono disporre la presenza di un medico di fiducia durante l’esecuzione dello stesso [9]. In precedenza invece il Regolamento di Polizia Mortuaria non riconosceva tale facoltà veniva ai familiari (art. 37) [10], essendo esclusiva prerogativa del Direttore sanitario o del Responsabile della struttura ove il paziente era deceduto. Resta da capire cosa intenda il Legislatore per familiari, essendo tale termine indicativo sia del coniuge, sia di genitori, di fratelli, di figli (parenti di I grado), come pure, in assenza di essi, di altri soggetti legati con vari gradi di parentela con il defunto (che cosa fare in caso di dissidio tra essi pur nel medesimo grado?). La citata disposizione vale comunque anche nel caso di paziente deceduto a domicilio in regime di assistenza domiciliare integrata o più semplicemente affidato alle cure del medico di famiglia. Resta insoluta la questione circa l’addebito dei costi del riscontro diagnostico e di tutti gli accertamenti complementari (talora molto onerosi), in tale evenienza.

Bisogna infine segnalare, anche sulla base dell’ormai lunga esperienza di chi scrive, la cronica opposizione dei familiari alla proposta del medico di famiglia, o di chi per esso, all’esecuzione del riscontro diagnostico, in caso di dubbi circa le cause del decesso del paziente e la contestuale difficoltà dell’applicazione dell’art. 37 del Regolamento di Polizia Mortuaria in caso di decesso occorso in ambito extra-ospedaliero, laddove non esista un protocollo operativo concordato dalla ASL con la Procura della Repubblica, come nella Regione Piemonte, in base al quale il tempestivo intervento del medico necroscopo sul luogo del decesso, la necessità di stabilire le cause del decesso in assenza di notizie certe e il trasporto della salma presso il locale obitorio comunale rendono efficace tale disposizione. In altre Regioni italiane, il rispetto verso il corpo del defunto, tutelato dal Codice penale al Capo II, del Libro II, sotto il titolo «Dei delitti contro la pietà dei defunti» (artt. 407-413 c.p.), fa sì che non esista altra ipotesi di accertamento autoptico se non quello ordinato dal Magistrato (autopsia giudiziaria). D’altra parte, l’idea del massimo rispetto verso il corpo del defunto è ancora riconoscibile nel citato art. 37 del Regolamento di Polizia mortuaria, dove si legge, al comma 3: «[gli incaricati, NdA] devono evitare mutilazioni o dissezioni non necessarie a raggiungere l’accertamento della causa di morte».

Sic stantibus rebus, v’è da sospettare che il dettato di cui all’art. 4 della Legge in oggetto, relativamente al riscontro diagnostico, resti lettera morta.

Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida

Con l’art. 5 si torna al cuore della legge stessa, sintetizzabile nel binomio: sicurezza delle cure – responsabilità professionale. L’argomento è ostico, tenuto conto della vasta letteratura scientifica che orienta l’operato del professionista. Si giustifica così la complessa formulazione della disposizione in esame che prevede che gli esercenti la professione sanitaria (in qualsiasi ambito essi operino, dalla prevenzione alla diagnostica… alla medicina legale) debbono attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida (con gli eventuali aggiornamenti e integrazioni) elaborate da enti, istituzioni, società scientifiche, iscritte in un apposito elenco istituito e regolamentato con apposito Decreto dal Ministero della salute e inserite nel costituendo Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), anch’esso disciplinato con Decreto del Ministero della salute.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una norma di programma che prevede come passaggi obbligati l’emanazione sia di un decreto che indichi gli organismi autorizzati a elaborare linee guida con relative raccomandazioni, sia di un decreto, concordato con la Conferenza Stato-Regioni, che recepisca tutto il materiale (raccomandazioni e linee guida) nel Sistema nazionale delle linee guida.

Un ruolo chiave è poi assegnato all’Istituto superiore di sanità, deputato a pubblicare sul proprio sito internet le linee guida e i relativi aggiornamenti come individuati dal SNLG. Tale pubblicazione è subordinata alla verifica da parte dell’Istituto superiore della validità sotto il profilo scientifico delle linee guida stesse, tenuto conto della loro aderenza alle evidenze scientifiche.

Questo complesso, per non dire farraginoso, costrutto mette in rilievo l’importanza assegnata all’Istituto superiore di sanità che sarà chiamato a svolgere un lavoro estremamente impegnativo: la validazione scientifica di tutte le linee guida e relative raccomandazioni con i relativi aggiornamenti a cadenze prefissate. È lecito chiedersi se tale Istituto sarà in grado di far fronte a tele imponente e nuova mole di lavoro con le risorse a sua disposizione.

Che però l’operato del professionista non si esaurisca nell’ambito dei confini segnati dalle linee guida con relative raccomandazioni (esplicite o implicite), è dimostrato dall’espressione, messa per inciso, nel primo comma dell’art. 5, laddove si legge che i professionisti si attengono alle linee guida e alle relative raccomandazioni «salve le specificità del caso concreto». Un’altra scappatoia prevista dal Legislatore all’art. 5, comma 1, è rappresentata dalla seguente disposizione: «In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». In tale formula sembra di poter leggere tra le righe il richiamo all’obbligo deontologico di “operare secondo scienza e coscienza” di ippocratica memoria.

Si deve infine aggiungere, per dovere di completezza, che per questo imponente sistema organizzativo il Legislatore ha esplicitamente escluso ogni aggravio di spesa, dovendosi reperire le risorse tra quelle già disponibili. In questo caso l’utilizzo del termine “ottimismo” pare troppo blando per qualificare l’intento del legislatore.

Nuovi profili di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria in sede penale

Con l’art. 6 il Legislatore giunge ad affrontare il problema della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria nel suo aspetto più controverso, ovvero quello penalistico.

Il fatto che la legge non mostri, almeno ad una prima lettura, una intrinseca organicità, è del tutto evidente. Volendo entrare nella mente del Legislatore e cercare di comprenderne la ratio, si potrebbe ipotizzare che nella prima parte della Legge egli si è proposto di accrescere i diritti degli utenti/pazienti nei confronti dei professionisti e delle strutture sanitarie grazie ad una maggiore trasparenza. Quindi ha voluto regolamentarne l’operato ancorandolo a dei precetti prestabiliti (le linee guida) per esercitare un controllo preventivo sugli effetti. Si tratta di un processo di standardizzazione dell’operato il cui paradigma è rappresentato dalla omologazione, cioè dall’equiparazione della prestazione ad un prodotto le cui qualità e costi sono prestabiliti (e comunque tendenzialmente conformi ai cosiddetti LEA – Livelli essenziali di assistenza – garantiti dal Servizio sanitario nazionale). Infine, il Legislatore è giunto alla questione della responsabilità penale degli esercenti la professione sanitaria alla luce delle ipotesi, previste dal Codice penale, dell’omicidio colposo e delle lesioni personali colpose, creando una vera e propria nuova fattispecie di reato: «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». In questo articolo, infatti, dopo aver confermato un principio giuridico immutabile, ovvero che la legge è uguale per tutti, stabilendo invero che in caso di morte o lesioni personali avvenute per colpa del professionista, lo statuto di quest’ultimo in nulla modifica la portata della norma penale (artt. 589 e 590 c.p.), cioè il professionista risponde rispettivamente di omicidio colposo e di lesioni personali colpose, introduce un’esimente che trova i propri fondamenti giustificativi nell’imperizia del professionista e nel contemporaneo rispetto, da parte di quest’ultimo, delle linee guida o, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali. Infatti, si legge nel secondo capoverso del primo comma: «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».

Si tratta di una disposizione che riprende, nel probabile intento di superarne le critiche emerse in sede giurisprudenziale, l’art. 3 comma 1 del cosiddetto decreto Balduzzi, ovverosia il Decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito con modificazioni nella Legge 8 nov. 2012, n. 189 [11] che, sotto il titolo «Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie» recita: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». In tale disposizione il riferimento alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica appariva del tutto generico, non esistendo un repertorio ufficiale valido per tutto e per tutti (e non avendo esse nessun altro scopo se non quello di orientare il comportamento del professionista – non certo quello di obbligarlo), ma soprattutto si riconosceva una esplicita contraddizione del Legislatore laddove si ipotizza la colpa del professionista nonostante il rispetto delle linee guida [12].

Tralasciando un’approfondita esegesi giuridica della nuova norma ora in esame, che necessiterebbe la consultazione dei lavori preparatori e che oltrepassa i confini del presente lavoro, possiamo limitarci a constatare in quale misura tale disposizione, nonostante il tanto vantato carattere innovativo, si accosti, per contenuti, all’art. 2236 del Codice civile («Se la prestazione implica problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave»), che si dice fosse stato introdotto esplicitamente a tutela della classe medica dal Legislatore del 1942 (vedi la Relazione del Ministro Guardasigilli Grandi al Codice Civile del 1942 [13]) e che per lungo tempo la giurisprudenza penalistica ha invocato per giustificare l’operato dannoso dell’esercente la professione sanitaria [14]. In campo medico, tale norma infatti esclude la responsabilità, se non per colpa grave (il dolo infatti costituirebbe un’evenienza eccezionale), nel caso in cui il professionista abbia dovuto affrontare un caso di speciale difficoltà producendo “involontariamente” un danno al proprio assistito. Sostiene al riguardo l’Orsi: «A mio modo di vedere , il giudizio di responsabilità ex art. 2236 c.c. non va riferito alla diligenza comune del prestatore […], perché risulta difficilmente accettabile che dinanzi a problemi tecnici di speciale difficoltà il legislatore abbia previsto un metro di giudizio più benevolo e si contenti di un grado di diligenza che, relativamente al problema da affrontare, risulta minore di quella ordinariamente richiesta. Ciò che viene valutato con minor rigore, nel caso in esame, non è la negligenza ma soltanto l’imperizia […]. La diversa disciplina, così come ricavata dal codice civile, ha un indubbio fondamento logico. La diligenza, in senso proprio, è la tensione, lo sforzo della volontà debitoria: essendo tale dote comune a tutti i soggetti, è sempre rigorosamente dovuta nella misura ordinaria richiesta. La perizia, invece, è qualità spesso sganciata dalla volontà dell’agente e collegata dalla padronanza di un elemento, la conoscenza tecnica, ch’è in costante evoluzione ed ha un ulteriore elemento d’incertezza e d’imprevedibilità nella sperimentalità della sua evoluzione» [15].

La giustificazione allora addotta dal Legislatore per tale disposizione consisteva nella costatazione che di fronte a casi di speciale difficoltà, cioè laddove la perizia poteva essere inadeguata alle necessità del caso, il professionista poteva essere tentato, nella previsione di dover rispondere per danno ingiusto, di astenersi dall’intervenire, quindi dall’omissione delle cure necessarie. Da qui la norma di parziale de-responsabilizzazione [16].

Anche di fronte alla nuova norma penalistica, or ora citata, sembra doversi richiamare il caso del medico che, armato di tutta la prudenza necessaria e con la dovuta diligenza, affronti un caso di speciale difficoltà, attenendosi alle linee guida disponibili o in mancanza di esse alle regole di buona pratica clinica (con tutto il corteggio di raccomandazioni e di regole di buona pratica clinica disponibili), ma proprio in virtù della complessità del caso la perizia faccia difetto, e ciò nonostante non ometta di prestare la propria opera o assistenza, producendo così, per colpa, la morte o una lesione grave del paziente.

Sebbene per molti appaia legittima l’interpretazione di tale disposizione come di una de-responsabilizzazione penalistica dell’esercente la professione sanitaria, ad avviso di chi scrive essa non potrà che operare, salvo diversa futura interpretazione della giurisprudenza, entro spazi estremamente limitati. Più volte la Suprema Corte ha infatti ammonito, in relazione all’art. 2236 del Codice civile, che più complicato è il caso che si presenta all’esercente la professione sanitaria, tanto maggiori debbono essere la prudenza e la diligenza dispiegate da quest’ultimo nel sopperire al deficit di perizia, cosicché i casi di speciale difficoltà, tenuto anche conto dell’ampio progresso della scienza medica, debbono essere ascritti ad un numero estremamente limitato di evenienze [17], ovvero a quelle situazioni in cui la medicina sia ancora aperta alla discussione circa varie metodiche di trattamento tra loro incompatibili o comunque non univoche.

A questo riguardo l’Orsi precisava già nel 1982: «Invero non può dirsi, genericamente, che l’attività professionale sia sempre libera o insindacabile; ciò perché il professionista è tenuto a fornire una prestazione che sia espressione della diligenza e perizia ordinariamente richieste. Il momento della discrezionalità si rinviene piuttosto nella valutazione delle più difficili prestazioni, laddove si manifestino i limiti della scienza umana e si considera il prestatore responsabile non per il difetto di quella teorica, elevatissima capacità che il problema da risolvere richiede, ma solo per il difetto di quella capacità che il professionista deve possedere perché ormai acquisita alla scienza e alla pratica. In sostanza, la discrezionalità, che pure è in ogni caso piuttosto rilevante nell’attività professionale, acquista una dimensione di spiccata rilevanza nel caso di prestazioni difficili, proprio laddove il regime della responsabilità deroga alla regola di diritto comune e, con riferimento all’imperizia, risulta più benevolo» [15].

La nuova responsabilità civile sanitaria

Il settore dove si può riconoscere un’effettiva innovazione dei principi di responsabilità, grazie alla legge in esame, è quello civilistico. È pertanto necessario soffermarci più a lungo su questo argomento.

Per comprendere il significato dell’innovazione conviene partire da alcuni semplici principi. Sappiamo che in sede civile si opera normalmente la distinzione tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. In quest’ultimo caso, la responsabilità, anche detta aquiliana, deriva dal fatto di aver arrecato a terzi un danno ingiusto. Nel caso della responsabilità contrattuale, essa sorge dal mancato adempimento di un obbligo discendente da un accordo (o contratto o patto, che dir si voglia) che due soggetti (in estrema semplificazione) hanno liberamente stretto circa i tempi, le modalità, i costi, ecc. della prestazione stessa. Uno dei soggetti sarà pertanto definito creditore, in quanto si trova nella posizione di vantaggio, rispetto alla controparte, nell’esigere la perfetta esecuzione della prestazione concordata; l’altro sarà invece definito debitore, poiché assume la veste di colui che deve adempiere, cioè deve eseguire, in posizione subordinata, quindi di svantaggio, la prestazione secondo le modalità e tempi concordati con la controparte, allo scopo di sciogliersi dal vincolo che lo unisce con essa e riacquistare pertanto la propria libertà d’azione. È qui evidente che l’istituto contrattuale, sebbene si fondi sulla libertà e sul consenso delle parti, che mutualmente si cercano (principio dell’intuitus personae) e si accordano, costituisce un vincolo, un legame, che limita la libertà d’azione delle parti stesse, con un evidente maggior aggravio a carico di quella debitrice.

In campo sanitario, una lunga tradizione, che per convenzione non si è esitato a definire “paternalistica”, ha per molto tempo offuscato la realtà giuridica del rapporto tra l’esercente la professione sanitaria e il paziente-utente, indicando nel primo, in virtù di competenze a cui l’utente non era in grado di accedere e che non poteva controllare, il dominus della relazione, con un’evidente, benché surrettizia, posizione di supremazia del professionista. In effetti, a ben vedere, il professionista, una volta stretto l’accordo con il paziente per lo svolgimento di una determinata prestazione, assume la veste di debitore e pertanto assume una posizione di sudditanza rispetto al proprio assistito. Il fatto che sul professionista incomba l’onere di richiedere il consenso (il famoso consenso informato) ad operare al proprio assistito conferma la sua condizione di sottomissione, pur essendo egli l’artefice dell’azione di cura, quindi l’autentico regista del trattamento a cui il paziente si sottopone.

Circa il rapporto contrattuale tra professionista della salute e paziente-utente in dottrina si erano registrate alcune perplessità, trattandosi di una semplificazione, tanto che il contratto medico-paziente è da sempre definito come “contratto sui generis”. Al riguardo merita un richiamo il pensiero di Pietro Rescigno che in detta semplificazione riconosceva due contraddizioni. Egli sosteneva infatti: «La prima contraddizione del sistema risiede, sulla base di un pregiudizio che rispondeva al modo tradizionale di intendere l’attività dei professionisti, nell’averla collocata nell’area del contratto, e di averla agganciata, anzi di averne fatto un sottotipo del contratto d’opera, il contratto che tipicamente mira a conseguire un risultato. Si chiama con quel nome proprio perché l’opus è oggetto del consenso e dei fini cui mirano le parti. La ragione della sede legislativa prescelta è che il contratto del professionista, nella visione ancora condivisa dal legislatore del nostro codice civile, è il contratto che si svolge in condizioni di piena libertà ed autonomia, e si contrappone al lavoro subordinato. È un pregiudizio già largamente contraddetto dall’esercizio sempre più largo delle professioni in forma subordinata; ma contrastato anche da un’altra circostanza, l’essere il contratto del professionista, contratto in cui, a differenza di ciò che avviene nel tipico contratto d’opera, tutta l’attrezzatura (ove sia necessaria un’attrezzatura materiale) e l’attività intellettiva che la utilizza sono fornite dal prestatore d’opera e non già dal committente. Lo schema adottato contraddice dunque, e completamente, la natura dell’attività del professionista, e accade allora che per un contratto come il nostro qualificato come locatio operis, venga poi escogitata la contrapposizione tra obbligazione di diligenza, o di mezzi, ed obbligazione di risultato, per restituire al professionista una libertà d’azione, e quindi un’esenzione o un’attenuazione di responsabilità che invece dalla definizione di contratto in termini di contratto d’opera discenderebbe in misura assai pesante. L’altra contraddizione […] è quella che sottrae il professionista, nel valutare l’adempimento alla regola della diligenza del buon padre di famiglia [art. 1176 c.c., NdA]. Collocato in un’area di più severa valutazione, l’impegno a cui il debitore è tenuto conosce poi una sostanziale attenuazione per un’ampia ed aperta serie di casi, in virtù della clausola generale relativa ai problemi di particolare difficoltà, una formula che la giurisprudenza adattandola all’ambiente e al tempo, piega ad eccezioni generalmente larghe» [18]. Circa l’asserita derivazione del contratto in campo medico dal “contatto” fiduciario tra professionista e paziente mi permetto di rinviare al mio scritto sulla responsabilità da contatto del medico dipendente [19].

Un’ulteriore difficoltà nel mettere a fuoco la reale natura giuridica del rapporto tra il professionista e l’utente della relativa prestazione sanitaria è anche riconoscibile nella tendenza a ridurre il rapporto tra professionista e il paziente ad una relazione tra due soli soggetti. Questa semplificazione ha una sua giustificazione storica, la cui radice è riconoscibile nel concetto stesso di professione. Dal latino profiteor, professare, proclamare apertamente, il termine professione rimanda innanzitutto all’idea che esistono dei valori e dei principi che presiedono allo svolgimento di una determinata opera, e che tali valori e tali principi sono tali che l’opera che essi condizionano dal profondo è il frutto di speciali competenze sia intellettuali sia prassiche. Il possesso di tali competenze contraddistingue l’operatore da tutti gli altri, i quali, in quanto profani, sono costretti ad avvalersi dell’opera di costui per ottenere un determinato beneficio. La professione quindi non è altro che l’opera svolta da particolari specialisti in un settore, quale, per esempio, la medicina, le cui conoscenze sono appannaggio di un ristretto gruppo di persone. Si tratta di conoscenze, sia di natura morale, le norme deontologiche, che guidano, in base a determinati principi, l’operato dello specialista nei suoi rapporti con gli altri, e in particolare con il beneficiario della prestazione, sia di natura tecnica, in quanto corrispondenti a procedure operative (diremo oggi, linee guida, raccomandazioni, ecc.), fondate su specifiche conoscenze scientifiche. Che in detto rapporto si potessero distinguere due soggetti di cui uno, nel ruolo di beneficiario, e uno, nel ruolo di dispensatore di cure, era cosa ovvia, ma con il progressivo aumento della complessità delle prestazioni sanitarie, con una pletora di specialisti nel ruolo di dispensatori di prestazioni, tale raffigurazione è ormai superata in quanto legata ad uno stereotipo arcaico non più riproponibile neppure su base teorica/didattica.

Da queste poche righe si ricava inoltre che la medicina intesa nel senso generico di attività di cura risponde alla definizione sia di arte sia di scienza. Che tra questi due concetti via sia una stretta parentela è dimostrato dall’etimologia del termine “arte”, la cui la radice linguistica indo-europea “*ar” (è in uso presso i linguisti far precedere l’asterisco alla radice della forma linguistica), rimanda a significati quali aggiustare, adattare, armonizzare [20]. In detta forma linguistica si ritrovano condensati i concetti di conoscenza e creatività (pensiamo ai termini: artefice, artista), di forza (arma; in inglese: arm, braccio), di invenzione e illusione (artificio), di misurazione e calcolo (aritmetica). Non a caso la medicina è stata classificata per secoli come arte e in particolare come arte “liberale” [21], essendo questo aggettivo un rafforzativo dei concetti ora citati. In altri termini, l’artista/artefice non può che agire liberamente in quanto la sua opera è il frutto, oltre che di specifiche conoscenze, anche dell’ingegno del singolo, requisito questo che prescinde da regole prestabilite. In particolare, in campo medico, si pensi alla speciale capacità diagnostica di un certo medico, dotato di eccezionale intuito nello scorgere segni e sintomi di una certa malattia, o alle capacità tecniche del bravo chirurgo, pronto ad inventarsi nuovi approcci terapeutici nelle più disparate e impreviste evenienze.

Questa libertà d’azione che caratterizza colui che pratica l’arte/scienza medica ha indotto per lungo tempo a ritenere che l’esercente la professione sanitaria non potesse operare che in condizioni di totale autonomia e svincolato da qualsivoglia vincolo gerarchico, come si realizza invece nel caso del rapporto di lavoro dipendente o, più in generale, del salariato. A tale convinzione era giunto anche il Redattore del Codice civile del 1942 che aveva distinto le prestazioni d’opera in due categorie, ovverosia nella prestazione d’opera manuale e nella prestazione d’opera intellettuale, aveva poi inquadrato gli esercenti le professioni tra i prestatori d’opera intellettuale e stabilito che il compenso di queste ultime prestazioni dovesse essere commisurato non al loro costo commerciale corrente (come nel caso delle prestazioni d’opera manuale), ma al valore dell’opera e al prestigio del professionista (art. 2233 c.c). Si spiega così il pagamento della prestazione professionale in termini di onorario, cioè un qualcosa che va all’onore della professione di colui che l’esercita e non rappresenta certo il corrispettivo in denaro del prezzo della prestazione stessa (per intenderci, quale prezzo ha una vita salvata? Una guarigione?).

Per tornare alle semplificazioni da cui siamo partiti, è evidente che esse non hanno più diritto d’asilo nell’attuale sistema sanitario di un Paese ad elevato sviluppo tecnologico come il nostro, nel quale, fatta eccezione per una piccola nicchia di libero professionisti “puri”, tutti gli esercenti la professione sanitaria operano, in tutto o in parte, alle dipendenze di un datore di lavoro (sia nel settore pubblico sia nel settore privato) o in regime di convenzione.

Di fronte a questo nuovo assetto organizzativo, tenuto conto delle disposizioni del Codice civile in materia di responsabilità contrattuale, sono riconoscibili le seguenti situazioni. Il professionista che opera in regime di libera professione instaura un rapporto contrattuale con il paziente-cliente avente ad oggetto una prestazione d’opera intellettuale. Di conseguenza, in caso di inadempimento, la responsabilità dovrà essere classificata come contrattuale. Al contrario, il professionista che opera in regime di dipendenza o convenzione in una struttura sanitaria o socio-assistenziale pubblica o privata non instaura un rapporto contrattuale con il paziente-cliente, quindi risponderà di un eventuale danno arrecato a quest’ultimo a titolo di responsabilità extracontrattuale. In effetti, in tal caso, il paziente instaura un rapporto contrattuale con la struttura pubblica o privata in cui opera, a vario titolo, l’esercente la professione sanitaria. Detta struttura, accogliendo il paziente- cliente, si impegna infatti a mettere a disposizione di quest’ultimo, oltre al professionista, tutta un’altra serie di benefici sotto forma di ricezione alberghiera, strumentazioni, medicamenti, ecc. (tutto ciò va sotto il termine di obbligazione). In caso di inadempimento dell’obbligazione sarà quindi la struttura, e non il professionista, a dover rispondere a titolo di responsabilità contrattuale.

Perché è così importante inquadrare con precisione la responsabilità nelle forme della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale? Il motivo fondamentale non consiste tanto nei differenti termini di prescrizione della pretesa risarcitoria (cinque anni in caso di responsabilità extracontrattuale, dieci anni nell’altro caso), quanto piuttosto nel differente onere della prova che incombe sul danneggiato allo scopo di ottenere il ristoro dei danni patiti.

In caso di responsabilità contrattuale è sufficiente infatti che colui che lamenta un inadempimento, cioè il creditore, dimostri che la prestazione oggetto dell’obbligazione non è stata compiuta così come pattuito. Spetta allora al debitore dimostrare che l’inadempimento o il ritardo non è ascrivibile alla sua condotta ma a fattori indipendenti dalla sua volontà (caso fortuito/forza maggiore).

In caso di responsabilità extracontrattuale incombe invece sul danneggiato l’onere di dimostrare il danno patito, la condotta dolosa o colposa dell’autore del danno e il nesso di causalità tra la condotta dell’autore e il danno patito. È evidente che in tal caso l’onere probatorio si fa assai più complicato e il traguardo del risarcimento più incerto e lontano.

Allo scopo di eliminare ogni dubbio riguardo al tipo di responsabilità che opera in campo sanitario interviene ora il Legislatore che, all’art. 7 della Legge 24, stabilisce appunto che la struttura sanitaria pubblica o privata che si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente, risponde a titolo di responsabilità contrattuale delle loro condotte colpose o dolose. Tale genere di responsabilità opera anche nel caso di esercenti la professione sanitaria che operano in regime di libera professione intramuraria, o che svolgono attività di ricerca scientifica anche compiendo sperimentazioni, o che posseggano lo statuto di convenzionati con il Servizio sanitario nazionale o, infine, che esercitino attraverso la telemedicina. Il professionista risponde invece del proprio operato nei confronti del paziente solo a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Nell’intento di ridurre ulteriormente il peso della responsabilità civile che grava sul professionista, il Legislatore ha poi stabilito che nella valutazione della condotta del professionista il giudice dovrà tener conto sia del rispetto delle linee guida e relative raccomandazioni nonché delle regole di buona pratica clinica, sia della norma penalistica prevista dall’art. 6 della Legge, con la quale, come si è detto, opera la de-responsabilizzazione del professionista nel caso in cui il danno sia conseguenza di imperizia e il professionista stesso si sia attenuto alle regole di condotta stabilite dalle linee guida o documenti ad esse assimilabili.

Nella Legge ora in esame non si fa cenno espressamente all’art. 2236 del Codice civile, in base al quale, come già sottolineato, già si sgravava il professionista da responsabilità qualora il caso fosse riconosciuto di speciale difficoltà e la condotta del medesimo non fosse caratterizzata da colpa grave, ma se ne conferma la portata. In altri termini, ad avviso di chi scrive, ora l’art. 2236 c.c. si dovrà leggere nei seguenti termini: nei casi di speciale difficoltà, cioè in quelli in cui più facilmente la mancanza della necessaria perizia è dimostrabile, il fatto che il professionista si sia attenuto alle linee guida o documenti ad esse assimilabili, esclude l’ipotesi della colpa grave, dimostrando invece di aver operato con la doverosa diligenza e prudenza, e quindi il professionista stesso sarà esente da ogni responsabilità, non potendosi addebitargli un danno ingiusto.

In conclusione, salvo future differenti interpretazioni giurisprudenziali, sembra lecito ipotizzare che l’omologazione delle prestazioni, grazie ad una stringente standardizzazione delle norme di condotta, condurrà ad una pressoché totale immunità dell’esercente la professione sanitaria sul fronte civilistico e ad una notevole riduzione della sua responsabilità penale, limitatamente alle fattispecie dell’omicidio colposo e delle lesioni personali colpose, gravando, per converso, dell’onere risarcitorio le strutture sanitarie pubbliche e private.

Pare inutile, a questo punto, dilungarci oltre sull’articolo in esame, tenuto conto che lo scopo di questo scritto esula da un approfondimento delle tecniche di valutazione medico legale del danno alla persona. Sembra invece più opportuno introdurre il tema fondamentale del tentativo obbligatorio di conciliazione che grava sulle parti in causa nella ipotesi di trattamento dannoso.

La conciliazione

Riguardo all’onere risarcitorio, il Legislatore si è premurato di fissare tutta una serie di norme procedurali che debbono guidare chi intende esercitare un’azione giudiziaria volta ad ottenere il ristoro di un danno patito in ambito sanitario e socio-assistenziale. L’art. 8 della Legge, non a caso, è intitolato «Tentativo obbligatorio di conciliazione». Secondo tale disposizione, chiunque intende esercitare innanzi al giudice civile un’azione volta ad ottenere un risarcimento per un danno da responsabilità sanitaria è tenuto a proporre ricorso dinanzi al giudice competente ai sensi dell’art. 696 bis del Codice di procedura civile. Tale articolo prevede che il giudice ordini l’espletamento di una consulenza tecnica preventiva volta ad accertare sia l’esistenza del danno sia il suo ammontare. Il consulente, prima di depositare la relazione tenta, ove possibile, una conciliazione tra le parti. La presentazione del ricorso in oggetto costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. In altri termini, in assenza del ricorso al giudice volto ad esperire una consulenza tecnica, il danneggiato non potrà ottenere alcun risarcimento. In alternativa all’espletamento di tale consulenza, può essere esperito il procedimento di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili di cui all’art. 5 comma 1 bis del Decreto Legislativo 4 marzo 2010 n. 28 [22] , in base al quale chi intende esercitare un’azione relativa ad una controversia in materia di risarcimento derivante da responsabilità medica e sanitaria, è tenuto, con l’assistenza di un avvocato, ad esperire il procedimento di mediazione presso un organismo di mediazione iscritto nel registro tenuto presso il Ministero della giustizia (tutti gli avvocati iscritti nel Registro assumono funzioni di organismo di mediazione, oltre ad altre figure specificatamente autorizzate ad iscriversi). In base a tale norma, il tentativo di conciliazione preventiva sia tramite il consulente tecnico nominato dal Giudice, sia tramite l’apposito organismo di mediazione, è obbligatorio.

Ora, è evidente che il tentativo preventivo di conciliazione obbligatorio ha una duplice finalità: eliminare ogni tentazione rivendicativa da parte del paziente che si sente vittima di un maltrattamento sanitario e decongestionare il settore civilistico dell’amministrazione giudiziaria dall’imponente mole di lavoro, con i noti effetti della lunghezza eccessiva dei processi, che possono raggiungere anche i dieci anni di durata, con il rischio che il paziente che giustamente lamenta un danno riceva il risarcimento dopo un lasso di tempo inenarrabile e con costi eccessivi.

Affinché il tentativo di conciliazione venga regolarmente esperito, il Legislatore ha disposto che tutte le parti in causa vi debbono prendere parte, ivi comprese le compagnie di assicurazione. La parte che omette di partecipare si vedrà sanzionata successivamente dal giudice.

Naturalmente, non ogni tentativo di conciliazione permette di conseguire l’auspicato accordo tra le parti. Fatto salvo il principio costituzionale che nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, ovverosia che ogni cittadino ha il diritto di ricorrere per via giudiziaria per far valere un proprio diritto, tutelare un proprio interesse o riparare una situazione di ingiusto svantaggio, l’art. 7 prevede che (tra le altre ipotesi, quella che sembra più probabile) qualora la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dalla data del deposito del ricorso, entra il gioco il giudice il quale fissa l’udienza e convoca le parti per la trattazione del caso. In altre parole, se prima era il soggetto deputato a gestire il tentativo di conciliazione (qui definibile come organo conciliatore o di mediazione), ora è il giudice che assume per proprio conto il compito di decidere chi ha ragione e chi ha torto e così chiudere la vertenza decidendo nel merito.

L’azione di rivalsa

Con l’art. 9 della Legge, lo stato di vantaggio dell’esercente la professione sanitaria rispetto ad ogni gravame giudiziario per responsabilità civile è confermato, dal momento che l’azione di rivalsa esercitata dalla struttura sanitaria che si avvale dell’opera dell’esercente la professione sanitaria è attivata solo nel caso in cui la condotta di quest’ultimo venga sanzionata in quanto classificata come dolosa (in altri termini svolta con volontà di nuocere) o caratterizzata da colpa grave (nel nostro caso, il mancato rispetto delle linee guida o regole ad esse assimilate per legge), fatte salve le eccezioni imposte del caso concreto. Un ulteriore vantaggio riconosciuto all’esercente la professione sanitaria, in merito al dovere di risarcire, nel caso della colpa grave, è rappresentato dalla somma che quest’ultimo deve versare alla struttura di appartenenza in caso di rivalsa: non più del triplo della retribuzione annua lorda. Quindi uno svincolo totale di tale rimborso rispetto all’ammontare del risarcimento spettante al danneggiato. Altre clausole vantaggiose per l’esercente la professione sanitaria sono rappresentate dal fatto che l’azione di rivalsa può essere esercitata contro il professionista solo dopo che il giudizio stragiudiziale o giudiziale è divenuto definitivo ed entro un anno dalla relativa pronuncia, salvo che il danneggiato non abbia chiamato in causa anche l’esercente la professione sanitaria; inoltre, la decisione pronunciata nel giudizio contro la struttura di appartenenza dell’esercente la professione sanitaria non fa stato, quindi non vale, nel giudizio di rivalsa, nel caso in cui quest’ultimo non sia stato parte del giudizio; in nessun caso la transazione può essere fatta valere contro il professionista a titolo di rivalsa (cioè non si può chiedere al professionista di rimborsare immediatamente la somma risarcita all’utente danneggiato in seguito a transazione); infine, per far valere la rivalsa, la struttura di appartenenza deve adire la via giudiziaria, quindi dovrà essere il giudice a pronunciarsi in un apposito giudizio, verificando se la condotta del professionista sia stata viziata da dolo o colpa grave. In tale giudizio, il professionista potrà far valere, a suo discarico, tutte le possibili argomentazioni volte a giustificare la sua condotta. Inoltre, è esclusa la giurisdizione della Corte dei Conti in aggiunta alla giurisdizione ordinaria. In altri termini, non potrà aversi una condanna con addebito a carico del professionista da parte della giustizia contabile della Corte dei Conti dopo la eventuale condanna del giudice ordinario.

Come è facile comprendere da quanto detto, il professionista verrà a trovarsi, per tali norme, in uno stato di assoluto privilegio rispetto all’obbligo di risarcire l’ente di appartenenza, in caso di condotta colpevole, essendo prevedibile che la dimostrazione della colpa grave e del dolo in sede giudiziaria costituiscano eventi del tutto eccezionali.

Consapevole di tali vantaggi, il Legislatore ha introdotto una sola norma penalizzante il professionista colpevole, che va ad incidere sul piano della progressione della carriera. Infatti si legge all’art. 9, comma 5: «Per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di rivalsa, l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti né può partecipare a pubblici concorsi per incarichi superiori».

Obbligo di assicurazione

In base all’art. 10 della Legge, ciascuna struttura pubblica o privata che eroga prestazioni sanitarie deve essere provvista di idonea copertura assicurativa sia per responsabilità civile verso terzi, sia per responsabilità civile nei confronti dei rispettivi prestatori d’opera (in altri termini debbono essere assicurate contro i danni cagionati agli utenti e contro i danni cagionati al personale dipendente o convenzionato). Tale assicurazione vale anche per i professionisti che svolgono attività libero-professionale in intramoenia e per quelli che operano attraverso la telemedicina. Allo scopo di rendere trasparente questo obbligo, ciascuna struttura dovrà a pubblicare sul proprio sito internet tutte le clausole relative alla polizza stipulata con la compagnia assicuratrice. In tal modo ciascun utente e ciascun esercente la professione sanitaria potrà rendersi conto, anche in via comparativa, del grado di tutela assicurativa, per eventuali danni, offerto da ciascuna struttura.

È interessante notare che nel primo comma di tale articolo si fa riferimento alle strutture sanitarie mentre non vengono citate le strutture socio-assistenziali, citate invece dal Legislatore in altri contesti (in particolare all’art. 7). Viene peraltro precisato nel secondo comma che tutti gli esercenti la professione sanitaria che esercitano al di fuori delle strutture sanitarie, sia in regime di dipendenza sia di convenzione, sono obbligati a stipulare idonea copertura assicurativa nei confronti di terzi per la copertura dei danni derivanti da responsabilità professionale. Quanto all’azione di rivalsa proponibile dalla struttura sanitaria nei confronti del professionista, al fine di garantirne l’efficacia, il Legislatore ha previsto poi l’obbligo di costui di stipulare un’apposita assicurazione che copra eventuali possibili addebiti.

Infine, con apposito decreto che verrà emanato di concerto tra il Ministero dell’economia e delle finanze e quello della salute verranno stabiliti, sentiti tutta una serie di organismi che operano in ambito assicurativo e sanitario, i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività di dette polizze assicurative.

Estensione della garanzia assicurativa

Allo scopo di meglio tutelare i beneficiari della polizza assicurativa, il Legislatore, all’art. 11, ha stabilito che la tutela assicurative non si esaurisce allo scadere della polizza, ma continua ad operare nel quinquennio successivo alla scadenza del contratto assicurativo. Per coloro che cessano dall’attività professionale, l’operatività della polizza è estesa al decennio successivo all’operativa della polizza, in conformità ai termini di prescrizione della responsabilità civile contrattuale. Questa “ultra-attività” è estesa anche a beneficio degli eredi e non è assoggettabile alla clausola della disdetta.

Azione diretta del soggetto danneggiato

In accordo con il precedente articolo, che vede nelle compagnie assicurative o negli enti (come la Regione Toscana) che hanno adottato il sistema di auto-assicurazione l’effettivo ente pagatore del danno in campo sanitario, assumendosene preventivamente i rischi, fatto salvo il principio stabilito dall’art. 8, che, come sappiamo, ha introdotto l’obbligo del tentativo di conciliazione preventiva, il Legislatore introduce un’interessante novità con le disposizioni di cui all’art. 12. È riconosciuto infatti al soggetto danneggiato (per essere chiari, è bene ribadire preliminarmente che dovrà essere stata già esperita una consulenza tecnica che dimostri la responsabilità civile sanitaria perché si possa parlare di soggetto danneggiato), il diritto di agire direttamente contro la compagnia assicuratrice, o chi per essa, alla quale, nel corso del processo, verrà affiancata la struttura sanitaria assicurata che ha provveduto alla prestazione sanitaria o il professionista assicurato che operi in libera professione oppure al di fuori di una struttura sanitaria. Tali associati vengono definiti in termini giuridici come “liticonsorti necessari”, cioè obbligati a concorrere nella chiamata in causa. Peraltro, a titolo di sgravio, alla compagnia Assicuratrice è consentito di rivalersi sui propri assicurati per le quote risarcite relative ai danni prodotti da prestazioni che non erano contemplate nella polizza assicurativa, quindi per rischi non previsti. Da qui la necessità che, al momento della stipula della polizza, i soggetti assicurandi stabiliscano con precisione la tipologia delle prestazioni che diverranno oggetto di obbligazione nei confronti degli utenti con tutte le linee guide, relative raccomandazioni e regole di buona pratica adottate dagli assicurandi stessi.

Questa strada è stata indicata dal Legislatore per ridurre i tempi di attesa del risarcimento, in quanto la compagnia assicuratrice dovrà provvedere tempestivamente al risarcimento del danno, tenuto conto dell’ingiunzione del giudice, senza dilungarsi in estenuanti trattative con il soggetto assicurato. I termini di prescrizione rimangono peraltro inalterati rispetto a quelli precedentemente indicati. Tali norme non risultano di immediata applicazione in quanto dovranno essere preventivamente stabiliti i requisiti minimi delle polizze assicurative, come già previsto dall’art. 10 citato.

Obbligo di comunicazione all’esercente la professione sanitaria del giudizio basato sulla sua responsabilità

Fa da corollario al precedente articolo, il dispositivo di cui all’art. 13 della Legge, in base al quale le compagnie assicurative chiamate in causa (o gli enti che hanno adottato il sistema di auto-assicurazione) comunicano, entro dieci giorni dalla notifica, all’esercente la professione sanitaria presunto responsabile del danno l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato. In tal modo, l’esercente in questione potrà fornire alla compagnia assicuratrice (o chi per essa) ogni ulteriore delucidazione necessaria alla difesa e altresì seguire tutte le fasi processuali.

Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria

Per ovviare al problema che alcune compagnie assicurative in campo sanitario siano fallite subissate dai debiti o che i massimali delle quote di risarcimento previsto dalla polizze fossero inferiori all’ammontare del quantum dovuto al danneggiato, il Legislatore ha provveduto costituendo un Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria. Tale fondo è alimentato dalle stesse compagnie assicuratrici, con particolari meccanismi stabiliti dalla Legge, e copre solo i sinistri verificatisi dopo l’entrata in vigore della Legge.

Nomina dei consulenti tecnici d’ufficio, dei consulenti di parte e dei periti nei giudizi di responsabilità sanitaria

È fuor di dubbio, e quanto finora scritto lo conferma, che ogni giudizio di responsabilità in campo sanitario si basa su un giudizio circa il corretto espletamento della prestazione e il nesso causale di un eventuale danno trattamentale occorso alla persona assistita con la condotta del professionista prestatore d’opera. È evidente che tale giudizio non può che essere affidato a professionisti esperti, la cui imparzialità sia al di sopra di ogni sospetto. Si è detto all’inizio che la sicurezza delle cure, per cui la presente Legge opera, è parte costitutiva del diritto alla salute costituzionalmente garantito nel nostro ordinamento. È pertanto evidente che l’esperto, sia che assuma la veste di consulente tecnico (e in sede di conciliazioni preventiva e in sede giudiziaria civilistica), sia di perito (sede penalistica), non può che avere, come unico scopo, il pieno esercizio da parte di ogni cittadino del diritto alla salute, nella sua declinazione più importante: l’attento controllo del rischio connesso all’esecuzione della prestazione. Così, il Legislatore ha stabilito, all’art. 15, che l’autorità giudiziaria, nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale «e» a uno o più specialisti esperti nella materia oggetto del contendere o, secondo le parole del Legislatore, «che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento». In tale disposizione si percepisce l’eco dell’art. 62 del Codice di Deontologia Medica del 2014 che, al terzo comma, prevede che «il medico, nei casi di responsabilità medica, si avvale di un collega specialista di comprovata competenza nella disciplina interessata; in analoghe circostanze, il medico clinico si avvale di un medico legale» [23].

Nel testo provvisorio licenziato dal Parlamento il 28 gennaio 2016 tale ipotesi era prevista solo per i casi implicanti la valutazione di “problemi tecnici complessi”. Questa specifica previsione, eliminata poi dal testo approvato dal Senato l’11 gennaio 2017, lasciava molti dubbi interpretativi, poiché, se è vero che il giudice mantiene l’atavico titolo di “peritus peritorum”, è altrettanto vero che la complessità del caso può disvelarsi solo grazie all’attento esame dello stesso, sia sotto il profilo medico legale sia sotto il profilo clinico. Nel campo della responsabilità sanitaria, se si prescinde dall’entità della somma da risarcire, parametro questo che certo non è indice della complessità del caso, non esistono casi semplici o casi complessi, proprio perché è sempre in gioco il diritto alla salute del cittadino, che, di per sé, è un diritto fondamentale “complesso”.

Senza addentrarci nei dettagli delle successive norme che regolano l’iscrizione, la tenuta e la revisione degli albi dei consulenti tecnici e dei periti presso ciascuna sede giudiziaria di Corte d’Appello, ci limitiamo qui ad insistere sulle due qualità che tali professionisti devono comprovare: la probità e la competenza. Essi dovranno sempre dichiarare la propria incompatibilità con l’incarico di consulente o di perito in ragione di rapporti di amicizia, di collaborazione scientifica, della comune appartenenza a società scientifiche, a scuole di formazione, a enti, con gli esercenti la professione sanitaria chiamati in causa.

Conclusioni

Nonostante possa apparire come una norma straordinariamente innovativa, la Legge in oggetto non fa altro che riprendere (fatte salve alcune eccezioni) alcune disposizioni già in essere, aventi lo scopo di salvaguardare l’esercente la professione sanitaria da ingiuste ritorsioni da parte della persona assistita specie laddove la difficoltà della prestazione era di tutta evidenza (si pensi all’art. 2236 del Codice civile). In questi ultimi anni si è assistito ad un’inflazione dei procedimenti penali contro esercenti la professione sanitaria, in virtù del fatto che la strada penale (vigendo in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale in quanto norma di rango costituzionale) era per l’utente deluso la meno ardua e la meno costosa per trovare un giusto ristoro al (supposto) danno patito in conseguenza di un trattamento sanitario.

Il carattere obbligatorio del tentativo di conciliazione preventiva all’azione giudiziaria basato su una consulenza tecnica volta ad eliminare ogni incertezza circa la fondatezza dell’istanza, la pressoché totale eliminazione della responsabilità civile in capo all’esercente la professione sanitaria, a scapito della struttura presso la quale egli opera, a sua volta coperta da idonea tutela assicurativa, la parziale de-responsabilizzazione penale del medesimo esercente grazie all’introduzione dell’art. 590 ter nel Codice penale (norma che peraltro la giurisprudenza penalistica aveva in passato ampiamente applicato avvalendosi del dettato del citato art. 2236 c.c., dichiarato rilevante anche in sede penale), permettono di ritenere che il problema della responsabilità professionale sanitaria sposti il proprio baricentro dalla tanto tartassata categoria dei professionisti sanitari all’insieme delle strutture sanitarie e socio-assistenziali.

Peraltro, la gestione di tutto il contenzioso sarà per la gran parte in mano alle compagnie di assicurazione, con l’eccezione di quelle Regioni che, come la Toscana, si auto-assicurano.

L’omologazione delle prestazioni, unitamente all’elenco sempre in evoluzione dei Livelli essenziali di assistenza, restringerà peraltro la libertà operativa dei singoli professionisti, sempre più inquadrati nel ruolo di “impiegati” e sempre meno in quello di “esercenti una professione liberale” col suo glorioso retaggio storico.

Inoltre, l’introduzione del concetto di sicurezza delle cure nell’alveo del diritto fondamentale alla salute fa presagire, come detto in precedenza, che la disciplina ora delineata costituisca il primo passo verso la definitiva collocazione dell’attività sanitaria nel campo delle prestazioni pericolose e, con esso, il definitivo superamento della colpa come elemento di imputazione (anche morale) del fatto all’agente. Nondimeno è possibile ipotizzare che il neo-sancito diritto alla sicurezza delle cure in capo ad ogni singolo cittadino faccia trasmigrare definitivamente la responsabilità sanitaria nel campo della responsabilità oggettiva, con eventuali possibili correttivi sanzionatori in campo al professionista che non ha preso le necessarie precauzioni, attenendosi alle norme comportamentali prestabilite per ridurre il pericolo a cui era esposto il fruitore della prestazione sanitaria.

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1 Si deve far presente a questo proposito che il verbo “concordare”, qui usato, è una forma lessicale debole, nel senso che implica un comune consenso delle parti, che hanno pari poteri decisionali, non certo quindi una potestà impositiva dell’una rispetto all’altra.

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