PM&AL 2014;8(3)85-90.html

La legge sulla cosiddetta “violenza di genere”: cosa cambia per il medico sul piano pratico?

Fabio Cembrani 1

1 Direttore Unità Operativa di Medicina legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento

The law on so-called "gender violence": what are the changes for the physician in clinical practice?

Pratica Medica & Aspetti Legali 2014; 8(3): 85-90

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v8i3.941

Corresponding author

Fabio Cembrani

fabio.cembrani@apss.tn.it

Disclosure

L’autore dichiara che per questa pubblicazione non sussistono conflitti d’interesse

Premessa

Nell’ennesimo pacchetto sicurezza, approvato con legge 15 ottobre 2013, n. 93 («Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province») [1], sono contenute alcune norme di interesse pratico per il medico che, per l’ennesima volta, inaspriscono lo strumento penale e il nostro sistema sanzionatorio riguardo ad ipotesi di reato già duramente sanzionate.

Di questa legge, annunciata in termini roboanti come una vera e propria rivoluzione epocale della politica criminale italiana, gli interpreti del diritto hanno, con immediato zelo, saputo fin da subito denunciare:

  • la solita miscellanea visto che in essa sono, tra l’altro, contenute disposizioni riguardanti l’uniforme del personale e la bandiera del Dipartimento della Protezione civile, il commissariamento delle Province, interventi a favore della montagna e misure per la chiusura dell’emergenza nordafricana;
  • la demagogia delle dichiarazioni espresse in maniera altisonante, a rievocare scenari di “guerra santa” o di vecchio “far west” [2];
  • il loro affidamento, nell’immediatezza dell’approvazione del decreto-legge, al web con una tecnica sperimentata – non certamente casuale – tesa ad influenzare l’opinione pubblica riguardo ad una emergenza (la cosiddetta “violenza di genere”) che, nell’idea di qualcuno, rischierebbe di mettere in discussione la tenuta della stessa democrazia [3];
  • la tecnica di normazione non immune da difetti;
  • la circostanza che all’inasprimento delle sanzioni penali non si è, purtroppo, accompagnata nessuna misura finalizzata, in termini preventivi e socio-culturali, alla rimozione delle cause che impattano sulla violenza di genere;
  • non certo da ultimo, la circostanza che il provvedimento non è sintonico con le previsioni comunitarie1, rese esecutive nel nostro Paese con la legge n. 77 del 2013 («Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d›Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011») [4].

Con la conseguenza che la norma non solo è debole e di non facile applicazione in alcune sue parti ma che la donna diventa, con essa, altrettanto debole con una debolezza, per così dire, normativizzata, pur all’interno di un sistema sanzionatorio rigoroso e continuamente appesantito dal legislatore dell’urgenza che sembra individuarlo alla stregua di una prerogativa di uno Stato non già democratico ma autoritario che, alla fine, sfigura e delegittima lo stesso sistema penale.

Pur con queste critiche, la legge in esame contiene alcuni dettagli che impattano nell’attività di diagnosi e cura posta in capo al medico che si vogliono qui commentare per le loro (sia pur scarse) ricadute sul piano pratico.

Le modifiche apportate dalla nuova legge riguardo ai reati contro la persona (maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale)

La legge n. 93 del 2013 interviene, innanzitutto, modificando la legge penale riguardo a due distinte fattispecie criminose: il maltrattamento in famiglia e la violenza sessuale.

L’art. 1 della nuova legge (rubricato «Norme in materia di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori») ha modificato, infatti, gli artt. 61 («Circostanze aggravanti comuni») e 572 («Maltrattamenti contro familiari o conviventi») della legge penale.

La modifica introdotta all’art. 61 riguarda, in particolare, l’inserimento di una nuova aggravante del reato: nello specifico «l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza». Con la conseguente abrogazione di quella parte dell’art. 572 del Codice penale (del comma 2) che prevedeva un aumento di pena quando il fatto era stato commesso in danno di persona minore degli anni quattordici.

Le modifiche apportate dalla nuova legge ampliano, quindi, le fattispecie penalmente rilevanti dei reati contro la persona se si considera che l’aggravamento della pena viene ora irrogato non solo nel caso di maltrattamento contro i familiari e i conviventi ma anche in tutte le fattispecie criminose non colpose contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale qualora il fatto antigiuridico sia stato commesso nei riguardi di una persona minore degli anni diciotto o alla presenza di un minorenne. Ipotesi, quest’ultima, che integra l’ipotesi della cd. “violenza assistita” quando l’azione antigiuridica sia stata commessa non solo in danno ma anche alla presenza di una persona minore di anni 18 quando in precedenza il limite di età era stato fissato dalla legge penale a 14 anni. Con la conseguenza di aver attribuito specifico rilievo anche a questa particolare forma di violenza che occorre considerare, al di là delle definizioni che ad essa possono essere date, come il complesso delle ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, su minori costretti ad assistere ad episodi di violenza familiare [5].

Oltre al minore, la legge approvata dal legislatore dell’urgenza ha considerato anche le condotte delittuose commesse in danno di persona in stato di gravidanza; con un ulteriore inasprimento delle sanzioni nelle ipotesi di delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale quando il fatto antigiuridico sia stato commesso «contro una donna in stato di gravidanza».

Riguardo alla violenza sessuale, l’art. 1 della legge ha modificato l’art. 609-ter («Circostanze aggravanti») e l’art. 609-quater («Atti sessuali con minorenne») della legge penale, introducendo queste ulteriori circostanze aggravanti:

  • quando la violenza sessuale è stata commessa nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni 18, della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, il tutore (comma 1-ter);
  • quando la stessa sia avvenuta nei confronti di una donna in stato di gravidanza (comma 5 ter);
  • quando la violenza è avvenuta o nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da una relazione affettiva, indipendentemente dal vincolo della convivenza (comma 5-quater).

La conseguenza di questa intervenuta modifica è l’estensione delle categorie dei soggetti individuati dalla originale legge penale e la modifica del sistema delle circostanze aggravanti: aggravanti che sono state estese visto che la nuova legge considera l’ipotesi in cui la violenza sessuale sia stata commessa nei confronti di una donna in stato di gravidanza e l’ipotesi in cui la stessa sia stata realizzata dal coniuge (anche separato o divorziato) ovvero da una persona legato alla stessa vittima da una qualche relazione affettiva, attuale o passata, anche senza convivenza.

Di questa cd. “relazione affettiva” (attuale o passata che essa sia), che compare anche nella fattispecie degli atti persecutori, è stata naturalmente segnalata dagli interpreti del diritto la dubbia equivocità, che viola il principio di tassatività della legge. Essa resta, infatti, di incerta determinatezza e bene avrebbe fatto il legislatore dell’urgenza a meglio connotarla sul piano tassonomico anche per evitare che sia la discrezionalità del giudice a doverla riempire di contenuti per sussumere il caso concreto nella fattispecie incriminatrice astratta: meritando qui sottolineare che la fattispecie astratta si riferisce non solo a relazioni affettive in essere ma anche a relazioni tramontate, definitivamente disarcionate dall’ombrello protettivo di una qualche forma di convivenza e – dunque – da essa indipendenti.

Altra critica mossa alle modifiche operate dal legislatore dell’urgenza riguarda il regime discriminatorio che queste avrebbero indotto.

Mal si comprendono, infatti, quali sono le ragioni di politica criminale in base alle quali l’omicidio di una donna nubile e non legata affettivamente a chicchessia debba essere considerata un’ipotesi delittuosa meno grave sul piano della sanzione prevista rispetto a quella commessa in danno di una moglie o di una fidanzata o comunque di chi non mai avuto alcuna “relazione affettiva” con l’aggressore. Anche perché l’art. 61 della legge penale («Circostanze aggravanti comuni») già prevede alcune aggravanti (tra queste «la minorata difesa») che, sul piano dell’interpretazione giurisprudenziale, è stata indicata come la condizione utile a facilitare il compimento dell’azione [6] ) o nell’ipotesi in cui la difesa non sia stata del tutto possibile per condizioni di tempo o di luogo, ovvero perché si tratta di persona debole o incapace di difendersi per deficienze psichiche e fisiche [7] . Fuori dubbio essendo che la donna in stato di gravidanza si trovi in uno stato di particolare debolezza che la mette, in re ipsa, nelle condizioni di una minorata difesa.

Le modifiche introdotte riguardo agli atti persecutori

Il comma 3 dell’art. 1 della legge n. 93 del 2013 ha modificato l’art. 612-bis della legge penale («Atti persecutori»)così modificando il comma 2 del dispositivo: «La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto commesso attraverso strumenti informatici o telematici».

Questa, dunque, la nuova formulazione testuale della legge penale: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all›articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d›ufficio».

Sull’indeterminatezza della “relazione affettiva” già si è detto.

Qui basta solo evidenziare la scelta di politica criminale che ha portato ad attribuire alle ipotesi di minaccia o di molestia (o stalking) commesse utilizzando gli strumenti informatici o telematici un regime di particolare durezza rispetto alle forme di minaccia o di molestia esternate direttamente alla persona per via orale o per iscritto; con ragioni che non sono chiare ma che, ragionevolmente, possono essere riferite alla penetranza ed alla facilità di utilizzo di queste oramai diffusissime modalità comunicative.

Un’ultima questione riguarda la revoca della querela per questa particolare tipologia di reato contro la libertà morale: rispetto a quanto previsto dal decreto-legge, la legge di conversione ha, infatti, consentito la sua revoca processuale fatta salva la sua irrevocabilità nell’ipotesi di «minaccia reiterata». Con la conseguenza che dovrà essere il giudice a valutare, in sede processuale, volta per volta, la spontaneità della eventuale remissione dell’atto di querela anche se, purtroppo, è rimasta immodificata quella previsione dell’art. 340 del Codice di procedura penale («Remissione della querela») che consente la sua remissione con la sola dichiarazione fatta ad un ufficiale di polizia giudiziaria.

L’ammonimento del questore nell’ipotesi di violenza domestica

L’art. 3 della nuova legge sulla violenza di genere, rubricato «Misura di prevenzione per condotte di violenza domestica», ha indicato una nuova (e bizzarra) misura di prevenzione nell’ipotesi della cd. “violenza domestica”.

Violenza, questa, che la Convenzione di Istanbul ha individuato per designare «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima», diversamente da quanto ha fatto il nostro legislatore dell’urgenza che l’ha identificata in «uno o più atti, gravi ovvero non episodi di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia» (art. 3, comma 1). Con una ulteriore, preoccupante, indeterminatezza visto il riferimento alla «gravità» e alla «non episodicità» di tali atti di violenza, di arduo e problematico accertamento per quell’autorità (il questore) cui la nuova legge affida la misura – assai dubbia, in termini preventivi – del cd. “ammonimento”.

Questa misura preventiva risulta attuabile in una duplice ipotesi:

  1. quella delle “percosse” (ipotesi, questa, non indicata nel decreto-legge e inserita dal Parlamento in sede di conversione);
  2. quella delle “lesioni personali lievissime” dalle quali derivi una malattia di durata non superiore ai 20 giorni, anche nell’ipotesi in cui la parte lesa non abbia sporto la querela.

In queste distinte situazioni fattuali, quando il fatto sia segnalato alle Forze dell’Ordine in forma non anonima e nella sola ipotesi in cui il questore accerti la ricorrenza e l’abitualità della violenza, dopo aver assunto le informazioni necessarie dagli organi investigativi e sentite le persone informate riguardo ai fatti, il questore «adotta i provvedimenti in materia di armi o di munizioni» (art. 1, comma 4) e può procedere, per il tramite dell’autorità prefettizia, alla sospensione della patente di guida per un periodo variabile da uno a tre mesi (art. 3, comma 2).

La genericità, la pochezza e la scarsa penetranza di queste misure precauzionali sono di tutta evidenza e non è dato capire quale sia il nesso esistente tra la patente di guida e la violenza domestica evidenziando, a questo riguardo, la pochezza della misura accessoria in termini di durata sospensiva del permesso di circolare alla guida di veicoli a motore che risulta inferiore a quella prevista per il reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186 del Codice della Strada) nell’ipotesi in cui il tasso alcolemico rilevato sia compreso tra 0,5 e 0,8 grammi per litro (da un minimo di tre ad un massimo di sei mesi).

Le ricadute pratico-applicative della nuova legge sulla violenza di genere per il medico

Se guardiamo a quali sono le ricadute pratiche prodotte, per la nostra professione, dall’entrata in vigore di una norma annunciata con la roboanza mediatica di cui siamo stati testimoni è da evidenziare la loro francamente irrisoria pochezza.

Per dirla con altre parole, la legge n. 93 del 2013 nulla innova in termini di sensibilizzazione e di formazione dei professionisti della salute già a partire dai Corsi di formazione universitaria e poco modifica i doveri di informativa nell’ipotesi in cui questi professionisti abbiano prestato la loro “assistenza” o la loro “opera” in situazioni che configurano l’ipotesi di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio. Rientrando, naturalmente, tra queste specifiche ipotesi il reato di maltrattamento in famiglia e le ipotesi di violenza sessuale quando commesse in danno di una persona minorenne o quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore (anche adottivo) o il tutore.

In queste distinte ipotesi il medico è comunque tenuto ad informare, attraverso il referto, l’Autorità giudiziaria coerentemente con quanto previsto dall’art. 365 della legge penale («Obbligo di referto»). Quest’obbligo informativo resta confermato, dunque, sia per i casi previsti di violenza sessuale sia per tutti i casi di maltrattamento vista la loro perseguibilità d’ufficio: perseguibilità che impone al medico di informare, in ogni caso, l’Autorità Giudiziaria tenuto presente che le ipotesi criminose non riguardano il solo maltrattamento fisico e che quest’obbligo ricade, naturalmente, solo su quei professionisti sanitari intervenuti concretamente nella situazione specifica avendo prestato la loro “assistenza” (con carattere continuativo) o la loro “opera”.

Se vogliamo, tuttavia, cogliere, tra le righe del provvedimento, le poche novità che impattano sulla nostra professione a me pare di poterle individuare in due marginali dati di fatto.

Cambia, infatti, la prospettiva nell’ipotesi in cui, in presenza di un minore tout-court (non solo del minore infraquattordicenne), siano state realizzati in danno di terzi comportamenti dolosi violenti non rientranti nell’ipotesi del maltrattamento quando la conseguenza degli stessi sia una lesione personale cd. “lievissima” (malattia di durata inferiore ai 20 giorni). In questa fattispecie, pur trattandosi di delitto perseguibile a querela di parte, il referto all’Autorità Giudiziaria si renderà, infatti, comunque opportuno vista l’intervenuta modifica dell’art. 61 della legge penale; sempre che, naturalmente, non si tratti di un’ipotesi di maltrattamento visto e considerato che questa fattispecie criminosa configura, sempre e comunque, l’ipotesi di un delitto perseguibile d’ufficio che implica il dovere di informativa rivolta all’Autorità giudiziaria e, naturalmente, sempre che lo stesso non esponga la persona assistita a procedimento penale. Ipotesi, quest’ultima, che esclude la punibilità di chi non lo ha inoltrato alla competente Autorità visto quando indicato dal terzo comma dell’art. 365 della legge penale.

Qualcosa cambia anche in riferimento all’ammonimento del questore nell’ipotesi di percosse o di lesioni personali lievissime, naturalmente nell’ipotesi in cui le stesse siano segnalate a questa Autorità pubblica dagli organi inquirenti ed una volta accertata la loro non occasionalità. È pacifico, infatti, che in queste casi il questore debba avvalersi dell’intervento del medico per stabilire la durata della malattia con tutte le criticità che si possono immaginare in quest’ambito se si considera che la parte lesa, pur avendo scelto di non attivare alcun meccanismo repressivo, si troverebbe per così dire costretta ad essere sottoposta ad un accertamento tecnico contro la sua volontà.

Conclusioni

La legge sulla violenza di genere approvata di recente dal nostro Parlamento contiene in sé stessa un grande (e imperdonabile) peccato capitale: quello di aver considerato la violenza di genere una sola questione di ordine pubblico da affrontare con lo strumento dell’inasprimento della sanzione penale quando, invece, si tratta di un problema socio-culturale che richiedeva un approccio non già emergenziale ma bensì strutturale e a più lungo termine. Approccio che, purtroppo, non si coglie dal complesso del provvedimento che, come tanti altri, è il risultato di una scadente tecnica legislativa destinata a creare più problemi nella sua pratica applicazione che risultati concreti: anche perché le grandi emergenze sociali di questa nostra epoca post-secolare richiedono riforme strutturali e non i soliti interventi legislativi motivati dalla fretta, dal consenso elettorale e dal contenimento della spesa pubblica,

Con ciò tradendo le indicazioni contenute nella Convenzione di Istanbul che, a più largo raggio, ha indicato agli Stati membri la via maestra da seguire: quella di dar fiato ad una vasta gamma di azioni preventive che non possono essere dichiarate dentro l’oramai odioso schema delle «disposizioni urgenti». Con una tecnica legislativa davvero opinabile non solo nelle formalità espressive perché orfana di qualsivoglia riferimento indirizzato alla necessità di sensibilizzare i professionisti della salute, di formarli riguardo a competenze che richiedono, altre ad una forte sensibilità, una strutturata conoscenza anche riguardo alle delicatissime questioni medico-giuridiche e perché colpevolmente rinunciataria riguardo al tema della riservatezza: riservatezza che, in questo campo, deve essere necessariamente assicurata alla donna per non sottoporla a quel surplus gratuito di violenza di cui siamo stati spesso inermi o ipocriti spettatori nella celebrazione mediatica dei processi.

Bibliografia

  1. Legge 15 ottobre 2013, n. 93. «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province». Gazzetta Ufficiale n. 242 del 15 ottobre 2013
  2. Lo Monte E. Repetita (non) iuvant: una riflessione “a caldo” sulle disposizioni penali di cui al recente D.L. n. 93/13 con. in L. n. 119/13 in tema di femminicidio. Diritto Penale Contemporaneo, 12 dicembre 2013. Disponibile online su http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1386696023LOMONTE2013.pdf [ultimo accesso agosto 2014]
  3. Loporcaro M. Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani. Milano: Feltrinelli, 2005. p. 28 e ss.
  4. Legge 27 giugno 2013, n. 77. «Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011». Gazzetta Ufficiale n.152 del 1 luglio 2013
  5. Corte Suprema di Cassazione. Ufficio del Massimario e del ruolo. Rel. n. III/03/2013, 16 ottobre 2013. Disponibile online su: http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1382033946Relazione%20Massimario%20femminicidio.pdf [ultimo accesso agosto 2014]
  6. Cassazione penale, sez. V, n. 14995 del 2005
  7. Cassazione penale, sez. I, 18 febbraio 1991

1 Il riferimento è alla «Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti della donna» adottata ad Istanbul dal Consiglio d’Europa l’11 maggio del 2011 che, all’art.1, ha impegnato gli Stati membri: (1) a proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; (2) a contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne; (3) a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; (d) a promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; (e) a sostenere ed assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica.

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