Reviews in Health Care 2011; 2(1): 53-80
Diseases
Narrative review
Terapie intensive perioperatorie in pazienti con tumori cerebrali
Perioperative intensive care in patients with brain tumours
Mariana A. Aquafredda1, Gustavo R. Piñero2, Luis R. Moscote Salazar3, Carolina Polo Torres3, Sandra M. Castella Leones3, Daniel Godoy4
1 Terapia Intensiva Ospedale “Felipe Glasman”; Bahia Blanca, Argentina
2 Terapia Intensiva Ospedale Municipale “Leónidas Lucero”; Bahia Blanca, Argentina
3 Università Nazionale di Cartagena; Colombia
4 Unità di Terapia Neurointensiva; Sanatorio Pasteur, Catamarca, Argentina
Abstract
The surgery of brain tumours is not free from complications, above all taking into account that today the patients operated are even older and with multiple comorbidities associated. The multidisciplinary preoperative evaluation aims at minimising the risks; nevertheless this evaluation has not yet been defined and is not based on a strong evidence. The detailed clinical history, the physical examination including functional status and the neuroimaging are the fundamental pillars.
The more critical complications occur in the immediate postoperative period: cerebral œdema, postoperative haemorrhage, intracranial hypertension and convulsions; other complications, such as pulmonary thromboembolism or infections, develop lately but are not less severe. Every surgical approach has its own complications in addition to the ones common to the whole neurosurgery.
Keywords
Brain tumour; Cerebral œdema; Perioperative evaluation; Neurosurgery; Complications; Postoperative period; Intensive care
Disclosure
Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse in merito agli argomenti e ai farmaci citati nel presente articolo
Introduzione
Si stima che nel mondo l’incidenza annua di tumori al cervello sia di 4,5 ogni 100.000 abitanti, con punte di presentazione in diverse fasce di età: un primo picco tra 0 e 4 anni, un ulteriore incremento tra i giovani adulti a partire dai 24 anni per poi aumentare gradualmente l’incidenza fino a raggiungere un appianamento tra i 65 e i 79 anni. I gliomi rappresentano circa il 50% dei tumori primitivi del sistema nervoso centrale (SNC) negli adulti, con una predominanza di quelli di origine astrocitaria, oligodendrogliale ed ependimale, che insieme rappresentano il 70% del totale [1,2]. Per quanto riguarda la localizzazione anatomica, i tumori della fossa posteriore e delle aree parasellari sono più comuni nei bambini e nei giovani adulti, mentre negli adulti sono predominanti i tumori sopratentoriali. Indipendentemente dall’etnia, i tumori cerebrali sono più frequenti nel sesso maschile, ad eccezione di meningiomi e neurinomi.
Ogni tumore al cervello ha una propria biologia, prognosi e trattamento; ciò si deve al fatto che questi si sviluppano a partire da una crescita anormale di uno specifico tipo di cellule, mentre altri tumori hanno origine in cellule che non appartengono al parenchima cerebrale, come meningiomi o linfomi. Nonostante queste differenze, i più diffusi tumori intracranici hanno in comune il quadro clinico e l’approccio diagnostico e terapeutico perioperatorio [3]. Generalmente, il trattamento da selezionare per ciascun tumore cerebrale dipenderà dalle sue dimensioni, dalla sede tumorale, dal tipo di tumore, dal tasso di crescita e dalle condizioni di salute generali del paziente. Le opzioni di trattamento comprendono la chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia, specifici agenti biologici o una combinazione degli stessi. Tuttavia la resezione chirurgica (dopo aver valutato il rischio perioperatorio) è di solito la prima raccomandazione di trattamento per ridurre rapidamente la pressione intracranica.
Sebbene la letteratura sia limitata e la medicina basata sulle evidenze non fornisca raccomandazioni al riguardo, dopo molti anni di esperienza crediamo che subito dopo l’evacuazione di una massa tumorale sia consigliabile almeno inizialmente il controllo e il monitoraggio stretto del paziente nell’Unità di Terapia Intensiva (UTI). La durata della permanenza nella UTI è molto variabile, in funzione tra le altre cose dello stato precedente della patologia, dei tempi chirurgici, di incidenti in anestesia e di complicanze durante l’intervento chirurgico (es. ipotensione arteriosa, sanguinamento, aritmie, ipertensione intracranica, necessità di neuromonitoraggio). Da quanto sopra, la terapia intensiva è in gran parte giustificata dal fatto che le complicanze che minacciano la vita spesso si verificano nel periodo immediatamente postoperatorio. Dato che l’obiettivo primario è recuperare quanto prima l’omeostasi neurologica e sistemica, l’UTI appare senza dubbio l’ambiente naturale in cui sono fornite tutte le condizioni per un intervento rapido [4].
I problemi che più frequentemente si verificano nei pazienti con tumori cerebrali includono: convulsioni, edema peritumorale, sanguinamento postoperatorio, pneumocefalo, ipertensione arteriosa, disturbi del metabolismo di sodio e acqua, effetti collaterali dovuti a farmaci ricevuti e predisposizione accentuata al tromboembolismo venoso. La percentuale di complicanze dopo un intervento chirurgico in caso di tumore al cervello è relativamente bassa. In una review su 1.771 tumori sopratentoriali operati, la mortalità perioperatoria è stata del 2,1% e la morbilità associata del 10% [5]. Nonostante le iniziative istituzionali volte a garantire la qualità delle cure, ottimizzare l’uso delle risorse mediche e il controllo dei costi e, a differenza di altre patologie chirurgiche che riguardano la terapia intensiva, poca attenzione è stata rivolta a valutare l’influenza della terapia intensiva nel periodo perioperatorio [6]. Incoraggiati da questo e dalla mancanza di linee guida cliniche per affrontare la questione, abbiamo deciso di fare la seguente review.
Fase preanestetica
La valutazione preoperatoria è un’attività fondamentale dell’équipe medica. Tutti i pazienti in attesa di sottoporsi a un intervento chirurgico devono ricevere una valutazione preanestetica, che non dovrebbe essere limitata a una valutazione rapida e superficiale del paziente. L’obiettivo è: costruzione dell’anamnesi, esame fisico completo e analisi approfondita degli esami complementari. Nella storia clinica si devono acquisire tutti i dati inerenti la malattia attuale, la ragione dell’intervento, così come la storia clinica, le allergie e le terapie farmacologiche in corso. Devono essere esaminati i precedenti interventi chirurgici e le eventuali difficoltà o complicanze durante gli stessi. Uno dei più utilizzati e diffusi metodi per valutare la condizione generale è l’uso della scala ASA (American Society of Anesthesiology) [7] (Tabella I), ma ciò è stato oggetto di critiche pesanti per la sua soggettività, e la sua incapacità di predire la mortalità [8].
ASA I |
Individuo sano < 70 anni |
ASA II |
Paziente con infermità sistemica lieve o sano > 70 anni |
ASA III |
Paziente con infermità sistemica grave non disabilitante |
ASA IV |
Paziente con infermità sistemica grave disabilitante |
ASA V |
Paziente moribondo. Aspettativa di vita < 24 ore senza intervento chirurgico |
Tabella I. Classificazione ASA [7]
Per quanto riguarda l’esame fisico è molto importante valutare:
- habitus del corpo: grado di obesità, alterazioni muscolo scheletriche;
- sistema cardiovascolare: valutazione della pressione arteriosa, frequenza cardiaca, soffi cardiaci, aritmie, cianosi o dispnea. Si deve eseguire un elettrocardiogramma (ECG), cercando di focalizzare l’attenzione sull’identificazione di disturbi cardiaci potenzialmente gravi come malattie coronariche, precedente infarto miocardico, aritmie sintomatiche, presenza di pacemaker o cardiodefibrillatore implantabile. È importante identificare insufficienza cardiaca e anemia, dato che i pazienti cardiopatici costituiscono una sottopopolazione speciale ad elevato rischio perioperatorio. L’American Heart Association (AHA) ritiene che la storia clinica e l’esame fisico siano sufficienti per determinare il profilo di rischio. Se questo profilo non è chiaro o solleva dubbi è conveniente ricorrere ad un esame non invasivo dello stress cardiaco, che dovrebbe essere eseguito anche in pazienti individuati come ad alto rischio [9]. Anche se non ci sono raccomandazioni a tal riguardo, in questo gruppo di pazienti con malattie cardiache si dovrebbe prendere in considerazione un ecocardiogramma, dal momento che questo esame ci consente di valutare la reale funzione ventricolare e ci guida nella scelta dei farmaci anestetici e nella gestione emodinamica perioperatoria. Le complicanze cardiache dopo chirurgia non cardiovascolare non dipendono solo da fattori di rischio specifici, ma anche dal tipo di intervento chirurgico e dalle condizioni in cui esso avviene [8-10]. I fattori chirurgici che influenzano il rischio cardiaco sono connessi all’urgenza, all’estensione, al tipo e alla durata della procedura, e inoltre alle variazioni di temperatura corporea, perdita di sangue e alterazioni del milieu interno e dei compartimenti liquidi corporei [10]. Negli ultimi 30 anni si sono realizzati diversi indici di rischio sulla base dell’analisi multivariata dei dati osservazionali che rappresentano la relazione tra caratteristiche cliniche e morbimortalità cardiaca perioperatoria. L’indice elaborato da Lee [11] è considerato uno dei più completi e predittivi per la valutazione del rischio cardiaco nella chirurgia non cardiaca [8-14];
- interventi di chirurgia ad alto rischio
- storia di ictus/TIA (TIA = attacco ischemico transitorio)
- cardiopatia ischemica (non rivascolarizzata)
- insulina preoperatoria
- storia di insufficienza cardiaca
- creatinina > 2 mg/dl
- 0 punti = 0,4% (0,05-1,5)
- 1 punto = 0,9% (0,3-2,1)
- 2 punti = 6,6% (3,9-10,3)
- 3 o più punti = 11,0% (5,8-18,4)
- Infarto miocardico acuto (IMA), edema polmonare, blocco AV completo, fibrillazione ventricolare o arresto cardiaco
- sistema respiratorio: è imprescindibile determinare il grado di apertura della bocca, la presenza di ostruzioni, infezioni acute o croniche, così come rilevare i potenziali problemi durante l’intubazione, lo stato dei denti e la semeiotica del volto. Uno dei fattori di rischio modificabili è il fumo; si raccomanda di smettere di fumare 8 settimane prima dell’intervento, al fine di consentire il recupero dei meccanismi di trasporto mucociliare, ridurre le secrezioni e diminuire i livelli di monossido di carbonio [14]. La radiografia del torace e la spirometria o altri test di funzionalità polmonare sono indicati solo nei casi considerati ad alto rischio in cui i risultati ottenuti potenzialmente potrebbero alterare la procedura chirurgica, la gestione anestesiologica o l’assistenza postoperatoria [14-17];
Indice di rischio cardiaco di Lee rivisto [11]
Criteri – Fattori di rischio (1 punto per ciascuno)
Risultati – Tasso di eventi cardiovascolari (IC 95%)
Complicanze predette dallo score
100 |
Normale, non lamenta nessun sintomo, nessuna evidenza di malattia |
90 |
Normali attività, ma lievi segni e sintomi di malattia |
80 |
Attività normale con sforzo, con alcuni segni e sintomi di malattia |
70 |
Capace di prendersi cura di sé, ma incapace di svolgere le normali attività o di lavoro attivo |
60 |
Richiede attenzione occasionale, ma può prendersi cura di sé |
50 |
Richiede grande attenzione, anche di tipo medico. Costretto a letto per meno del 50% della giornata |
40 |
Invalido, disabile, ha bisogno di cure e attenzioni speciali. Costretto a letto per più del 50% della giornata |
30 |
Invalido grave, disabile grave, trattamento attivo di supporto |
20 |
Completamente allettato, paziente molto grave, richiede ospedalizzazione e trattamento attivo |
10 |
Morente |
0 |
Morto |
Tabella II. Scala di Karnofsky
- valutazione neurologica: è di vitale importanza valutare il grado di coinvolgimento neurologico, così come lo stato funzionale del paziente. La scala di Karnofsky (Tabella II) è un buono strumento per determinare la prognosi [18,19]. Con l’utilizzo di questa scala, Lansen e colleghi hanno valutato 186 pazienti con tumori cerebrali, dei quali 172 sono stati operati. I fattori più importanti associati alla sopravvivenza sono stati: ripetuti interventi chirurgici, punteggi della scala Karnofsky, estensione della resezione chirurgica ed età del paziente. In base alla scala, il 68% dei pazienti era autonomo prima dell’intervento, il 13% parzialmente autonomo e il 9% non autonomo. Dopo l’intervento chirurgico, l’81% era autonomo, il 12% parzialmente autonomo e il 7% totalmente non autonomo. La scala Karnofsky al momento del ricovero predice la sopravvivenza, confermando che un punteggio ≥ 80 è associato a una buona prognosi [18]. Attualmente la scala mantiene la propria validità nel valutare lo stato neurologico e la qualità della vita prima e dopo l’intervento chirurgico [17,18];
- esami complementari: devono essere richiesti con criterio valutando il tipo di procedura, la complessità della stessa e le comorbilità associate [19,20]. Le perdite di sangue sono generalmente frequenti: per questa ragione è conveniente tipizzare il gruppo sanguigno e l’Rh per eventuali trasfusioni. Nei pazienti neurochirurgici un ematocrito tra il 30-33% garantisce ipoteticamente un giusto equilibrio tra la disponibilità di O2 e la viscosità del sangue [21-22]. Un normale esame preventivo della coagulazione non predice la possibilità che vi possano essere disordini della stessa nella fase intraoperatoria o nell’immediato periodo postoperatorio [20]. Gli esami neuroradiologici – la tomografia assiale computerizzata (TAC), la risonanza magnetica nucleare (RMN) e/o l’angiografia – permettono di valutare le dimensioni della lesione, la vascolarizzazione, la localizzazione, la presenza di edema cerebrale, l’ipertensione endocranica, l’idrocefalo, ecc. [19-23].
Considerazioni sull’anestesia
Tumori sopratentoriali
I tumori più frequentemente asportati sono meningiomi, gliomi, cisti colloidi del terzo ventricolo o epidermoidi delle cisterne basali e metastasi uniche. I meningiomi per la loro vascolarizzazione sono più propensi a sanguinare a differenza dei gliomi che di solito presentano un edema maggiore e spostamenti strutturali. È importante che l’anestesista analizzi, con il neuroimaging, le caratteristiche del tumore (ubicazione, dimensioni, vascolarizzazione, prossimità ai seni venosi, presenza di ipertensione endocranica), al fine di visualizzare e rilevare eventuali complicanze che possano insorgere durante l’intervento chirurgico.
Vanno valutati lo stato di idratazione e la volemia soprattutto in chirurgia di emergenza, in cui può essere necessario usare mannitolo o diuretici che possono aggravare ulteriormente uno stato di ipovolemia o di disidratazione preesistenti. Al tempo stesso si devono indagare eventuali disturbi del metabolismo del sodio come la sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH), la Cerebral Salt Wasting Syndrome (CSWS) e/o il diabete insipido. Il bilancio idrico intraoperatorio, la diuresi e l’uso di agenti osmoticamente attivi devono essere documentati efficacemente e adeguatamente.
La medicazione preanestesia deve essere effettuata con la massima cautela, a causa del rischio di depressione respiratoria, ipoventilazione e ipercapnia che possono agire come lesioni secondarie in grado di aggravare la lesione cerebrale [24].
Tumori della fossa posteriore
I pazienti affetti da questa patologia tumorale possono presentare disfagia, perdita del riflesso tussigeno, disfunzione laringea, compromissione variabile dei nervi cranici inferiori e deterioramento dello stato di coscienza. Tutti questi fattori determinano la possibilità di compromettere la difesa e la permeabilità delle vie respiratorie; è quindi indispensabile identificare gli effetti in modo da prevenire e pianificare azioni da compiere nel periodo immediatamente postoperatorio [19,20,25,26].
La posizione in cui si trova il paziente durante l’intervento chirurgico può portare a complicanze specifiche. Ad esempio, la posizione seduta porta con sé rischi di tetraplegia, paraplegia, edema facciale, macroglossia ed embolia gassosa, presente nel 40% dei casi [25]. Per questa ragione è importante determinare se il paziente ha un foro ovale permeabile o shunt intracardiaco o polmonare, in quanto la loro presenza è controindicata nella chirurgia in posizione seduta, così come in presenza di malattie coronariche, instabilità emodinamica o stenosi grave del canale cervicale [26,27].
Tumori ipofisari
I tumori ipofisari costituiscono un gruppo eterogeneo, che richiede da parte dell’anestesista la conoscenza della fisiologia e patologia del complesso sistema endocrino [24,28-30]. Questi tumori sono stati classificati in base alla loro dimensione e funzionalità – microadenomi (< 1 cm) e macroadenomi (> 1 cm) – che a loro volta possono essere funzionanti o non funzionanti.
I segni e sintomi del tumore ipofisario sono in relazione con la dimensione e il tipo di ormone secreto. I tumori non funzionanti sono generalmente macroadenomi e si manifestano con segni di compressione quali cefalee e disturbi visivi [24].
La valutazione preanestetica dovrebbe concentrarsi sull’ottenimento dei dati rilevanti per la gestione dell’anestetico. Ad esempio, gli acromegalici possono presentare complicanze inerenti la propria anatomia come vie respiratorie difficili o impedimento per ottenere la corretta posizione chirurgica [27-29], mentre i pazienti con Morbo di Cushing hanno una vasta gamma di patologie concomitanti, tra cui ipertensione arteriosa, intolleranza al glucosio, miopatie, neuropatie, osteoporosi e obesità [28-33].
Di fatto, è indispensabile il controllo delle disfunzioni ormonali, della volemia e del milieu interno per la possibile insorgenza di diabete insipido o della sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH). Non deve essere sospesa la somministrazione di farmaci correlata a disfunzioni endocrine. Nel periodo perioperatorio, i pazienti con ipopituitarismo dovrebbero ricevere corticosteroidi e seguire la terapia ormonale sostitutiva in vigore. L’assistenza di un endocrinologo è preziosa nell’indirizzare l’applicazione pratica dello studio e la definizione di una terapia mirata [28-33].
Chirurgia del tumore cerebrale con il paziente cosciente
Le prime esperienze di craniectomia con pazienti svegli in anestesia locale è datata 1886. Da allora a oggi, i progressi in campo anestesistico hanno permesso che questa tecnica si perfezionasse e diventasse una soluzione nel trattamento di alcuni tipi di tumori cerebrali.
Le indicazioni per la craniectomia a paziente sveglio si possono classificare in:
- anatomiche;
- fisiologiche;
- farmacologiche.
Nella prima categoria sono incluse quelle lesioni localizzate nel parenchima cerebrale in regioni funzionalmente importanti o eloquenti (responsabili del discorso), come per esempio quelle che risiedono nel lobo parietale sinistro (linguaggio). L’indicazione fisiologica si verifica in pazienti in cui è necessaria la stimolazione profonda congiuntamente con il monitoraggio neurofisiologico, come nel caso di tumori che coinvolgono i gangli basali, mentre l’indicazione farmacologica è limitata a quei pazienti sottoposti a chirurgia per il controllo dei focolai epilettogeni.
Le tecniche anestetiche per questo tipo di chirurgia si sono evolute nel tempo e si possono riassumere in due forme fondamentali:
- anestesia locale associata a sedazione cosciente (Ramsay ≤ 3);
- anestesia generale con lo stato di veglia intraoperatoria (comunemente indicato come paziente asleep-awake-asleep).
Quest’ultima tecnica offre vantaggi addizionali dato che il paziente evita la spiacevole esperienza del fissaggio cranico e la realizzazione della craniectomia.
In entrambe le modalità, l’anestesia locale e il blocco regionale sono complementari e di uso continuo.
Attualmente l’uso del propofol associato a oppioidi come remifentanil costituisce lo schema più comune per l’induzione dell’anestesia. Terminata l’apertura della dura madre, si diminuisce la dose sedoanalgesica iniziando l’intervento con il paziente cosciente.
Completata la valutazione intraoperatoria, si torna a “far dormire” il paziente fino alla fine dell’intervento chirurgico [34,35].
Terapia intensiva
Le cure generali postoperatorie sono comuni a tutte le patologie neurocritiche. È importante agire secondo i protocolli al fine di evitare lesioni secondarie sistemiche che mettano in pericolo il recupero neurologico. L. J. Vincent ha ideato un acronimo che riassume e aiuta a memorizzare i punti chiave nella cura quotidiana dei pazienti critici: il cosiddetto FAST HUG (“abbraccio rapido”), che rappresenta gli aspetti base e gli elementi generali che influiscono direttamente nell’evoluzione dei pazienti critici [36] (Tabella III).
F |
Feeding (alimentazione) Promuovere l’alimentazione precoce e incoraggiare l’uso della via enterale |
A |
Analgesia La gestione del dolore è di fondamentale importanza, poiché il dolore può innescare aumenti della pressione intracranica (PIC). Prestare particolare attenzione, nei pazienti sedati, ai sintomi autonomici come manifestazione del dolore |
S |
Sedation (sedazione) Sia la scarsa sia l’eccessiva sedazione possono essere dannose per il paziente. Una scarsa sedazione può causare agitazione, il disaccoppiamento del’AVM (assistenza ventilatoria meccanica) con aumenti ingiustificati della PIC. Una sedazione eccessivamente profonda può causare ipotensione arteriosa e depressione respiratoria |
T |
Thromboembolic prophylaxis (tromboprofilassi) I pazienti con tumori cerebrali hanno un aumentato rischio di malattia tromboembolica. Valutare il momento e il tipo più adeguato di profilassi (farmacologica, meccanica) |
H |
Head of bed (posizione della testiera) La posizione della testa influenza il rischio di micro-aspirazione e di polmoniti intraospedaliere. Nei pazienti neurocritici l’elevazione della testa a 30 gradi permette un migliore drenaggio venoso che abbassa la PIC |
U |
Ulcer prophylaxis (profilassi ulcere gastroduodenali dovute a stress) La migliore profilassi per le ulcere da stress è l’alimentazione enterale precoce. L’incidenza può essere aumentata nei pazienti che ricevono alte dosi di corticosteroidi. Altri fattori di rischio sono: la ventilazione meccanica, l’ipossiemia grave, la sepsi, lo shock, il danno renale acuto e una precedente storia di ulcera gastroduodenale |
G |
Glycemic control (controllo della glicemia) L’iperglicemia è stata associata a prognosi non favorevole nei pazienti critici in generale e neurologici in particolare. Devono essere eseguiti stretti controlli della glicemia e deve essere individualizzata la terapia insulinica. Correggere rapidamente episodi di ipoglicemia perché la loro presenza è molto più deleteria per il tessuto cerebrale [37] |
Tabella III. FAST HUG, i punti chiave per la cura quotidiana dei pazienti critici
Altre misure di carattere generale sono orientate a prevenire o limitare lesioni cerebrali secondarie. Tra queste possiamo citare la prevenzione e il trattamento di ipossiemia, ipotensione arteriosa, e le fluttuazioni nei livelli di biossido di carbonio. L’ipertermia deve essere trattata in modo aggressivo [36,38-40].
Le complicanze con maggior incidenza nel periodo postoperatorio possono essere classificate come disturbi neurologici: edema cerebrale, ipertensione endocranica, emorragia intracerebrale, pneumocefalo, condizioni che compromettono la circolazione del liquido cerebrospinale e convulsioni. Tra le complicanze non neurologiche si trovano: ipertensione arteriosa, malattia tromboembolica e disturbi del milieu interno, principalmente del sodio [38-41].
Gestione perioperatoria dell’edema cerebrale
L’edema associato a tumori cerebrali è soprattutto di tipo vasogenico [42-46] (Figura 1). L’alterazione principale risiede da un lato nei vasi di neoformazione, che da mancano di giunzioni endoteliali occludenti, e dall’altro sostanze rilasciate dal tumore, come il fattore di crescita endoteliale, contribuiscono ad aumentare la permeabilità degli stessi [47-53]. I meccanismi che aumentano la permeabilità capillare variano a seconda del tipo di tumore; per esempio, nei gliomi di alto grado le cellule endoteliali della parete vascolare vengono sostituite da cellule tumorali che non hanno la barriera ematoencefalica (BEE) [47-53]. Qualcosa di simile accade con i meningiomi e alcune metastasi che provengono da strutture ectodermiche e che mancano di BEE. Questi tumori extra-assiali generano maggiormente edemi, e si contraddistinguono inoltre perché una volta resecati possono esacerbare o aggravare l’edema, cosa che può essere fatale. Tale situazione è chiamata “edema cerebrale maligno post-resezione” [47-53].
Figura 1. Edema cerebrale vasogenico peritumorale
Fisiologicamente, il cervello tende a espellere il liquido in eccesso attraverso di un “effetto canale di scolo” proporzionato alla circolazione del liquor attraverso il sistema ventricolare e lo spazio subaracnoideo. Ciò consente la circolazione costante dei liquidi e il rinnovamento dello spazio extracellulare. Se questo meccanismo di compensazione è superato, il liquido si accumula lentamente nello spazio extracellulare [42-53].
L’edema causa la reazione della massa, aumenta la pressione intracranica (PIC), favorisce lo spostamento delle strutture cerebrali con la possibile insorgenza di sindromi da ernia cerebrale e ischemia favorite dalla compressione delle strutture vascolari e dalla riduzione della pressione di perfusione cerebrale (PPC) [42-53].
Da decenni la terapia comprende l’uso di corticosteroidi. Tuttavia, i suoi effetti benefici non sono ancora stati chiariti con certezza. Tra i possibili meccanismi di neuroprotezione elenchiamo [51-54]:
- riduzione della permeabilità della barriera ematoencefalica;
- riduzione della permeabilità dei vasi di nuova formazione;
- riduzione della produzione del liquido cerebrospinale;
- aumento del trasporto di liquidi dall’interstizio;
- inibizione diretta della crescita tumorale e dell’apoptosi;
- inibizione di perossidazione e idrolisi lipidica;
- mantenimento del flusso di sangue tissutale;
- mantenimento del metabolismo aerobico;
- riduzione del calcio intracellulare;
- riduzione della degradazione dei neurofilamenti;
- aumento dell’eccitabilità neuronale;
- miglioramento della trasmissione sinaptica;
- stabilizzazione delle membrane.
I corticosteroidi sono indicati in pazienti con edema peritumorale sintomatico. Desametasone è la terapia farmacologica d’elezione, in primo luogo grazie alla sua bassa attività mineralcorticoide e al minor rischio di immunosoppressione e deterioramento cognitivo rispetto ad altri steroidi [51-53]. La dose iniziale abituale è di 10 mg, seguita da 16 mg/die in due/quattro dosi, anche se vi è evidenza che dosaggi più bassi possono essere altrettanto efficaci. La dose può essere aumentata fino a 100 mg/die, se necessario [36,51-53]. Uno studio prospettico randomizzato ha valutato gli effetti terapeutici e gli eventi avversi di 3 dosi giornaliere di desametasone in 96 pazienti con metastasi cerebrali. I pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi che hanno ricevuto 4, 8 o 16 mg/die rispettivamente. Tutti i dosaggi hanno dimostrato di essere efficaci nel migliorare la sintomatologia neurologica. Tuttavia, la comparsa di effetti collaterali ha mostrato una dose-dipendenza. Nessun paziente trattato con 4 mg/die per quattro settimane ha sviluppato miopatia, mentre il 25% dei pazienti trattati con 16 mg/die ha sviluppato miopatia prossimale. L’emergere di fasce cushingoidi è stato rispettivamente del 32% e 65% nei pazienti trattati con 4 e 16 mg. Nei pazienti con deficit neurologico o sintomi di ipertensione endocranica si consiglia l’uso di 10 mg ev in bolo, seguiti da quattro dosi giornaliere pari a 4 mg/die [55].
Dopo aver iniziato il trattamento con desametasone il suo massimo effetto si osserva tra le 24 e le 72 ore. Superati i sintomi dopo 2 o 3 settimane, si raccomanda di sospenderne la somministrazione. La sospensione deve essere graduale scendendo del 50% della dose somministrata ogni 4 giorni in pazienti con una buona evoluzione clinica. Un gruppo speciale è costituito da individui che presentano un edema cerebrale consistente o scarso controllo dei sintomi a causa del rischio di peggioramento clinico dopo l’interruzione della terapia: in questo caso si raccomanda la diminuzione del 35% della dose ogni 8 giorni. Una minoranza di pazienti può richiedere il trattamento cronico con 1 o 2 mg/die con una qualità di vita accettabile [51-53,55,56].
Sebbene la terapia con corticosteroidi abbia facilitato il trattamento dell’edema peritumorale, questi farmaci sono associati a un gran numero di effetti collaterali che possono verificarsi nel breve o lungo termine. I corticosteroidi possono indurre intolleranza al glucosio che persiste anche dopo la sospensione della terapia. Questa intolleranza è stata osservata nel 50% circa dei pazienti che hanno ricevuto terapia con corticosteroidi per più di un mese [57]. Un altro effetto indesiderato è la miopatia steroidea che si osserva nel 20% circa di coloro che ricevono più di 8 mg di desametasone o dosi equivalenti di altri corticosteroidi per più di due settimane. L’incidenza di disturbi neuropsichiatrici non è ben conosciuta, ma si sa che la sua comparsa è dose-dipendente [58]. È inoltre noto che circa il 2% dei pazienti in trattamento con corticosteroidi può presentare infezioni respiratorie a causa di Pneumocystis carinii. Sebbene questo tipo di infezione sia più comune nei pazienti con HIV con conta CD4 bassa, la profilassi è attualmente raccomandata nei pazienti trattati con corticosteroidi per oltre un mese [59,60].
Un altro effetto indesiderato associato all’uso di corticosteroidi è l’ulcera peptica, anche se è stato dimostrato che il rischio è basso, più basso perfino del trattamento con FANS. Pertanto, l’uso di H2-antagonisti o inibitori della pompa è limitata al periodo postoperatorio immediato in pazienti trattati con dosi elevate o con storia di ulcera peptica [61]. Infine, uno degli effetti tardivi osservati è il rischio di iponatriemia che può aggravare l’edema cerebrale.
Le ricerche attuali hanno permesso di migliorare le conoscenze fisiopatologiche, basate principalmente sulla scoperta del ruolo degli astrociti e della famiglia di proteine canale genericamente denominate “acquaporine”, che sono attivamente coinvolte nel metabolismo dell’acqua cerebrale. Con ciò si apre un vasto campo di ricerca destinato allo sviluppo di nuove alternative terapeutiche [51-53,62-64].
È importante qui ricordare che gli anticonvulsivanti comunemente usati, quali fenitoina e fenobarbitale diminuiscono la concentrazione sierica di desametasone o di prednisone. Queste interazioni possono anche accadere in senso contrario: ciò significa che può essere osservato il declino dei livelli sierici di fenitoina utilizzando contemporaneamente desametasone ad alte dosi. Queste interazioni devono essere tenute in considerazione, dato che alla sospensione di desametasone si eleverebbero le concentrazioni sieriche di fenitoina a livelli potenzialmente tossici [51-53].
Ipertensione intracranica
Non esistono praticamente dati di prevalenza per la misurazione della pressione intracranica nel periodo postoperatorio dei tumori cerebrali. In uno studio del nostro gruppo (non pubblicato), al 54% dei pazienti è stata misurata la PIC. Non c’è stato un criterio uniforme nel monitorarla: è stata indicata più frequentemente nei casi di edema peritumorale con grande effetto massa o con deterioramento clinico associato a sanguinamento postoperatorio [65,66]. In assenza di dati su questa particolare patologia, è importante estrapolare le conoscenze acquisite in altre situazioni di lesioni neurologiche.
La gestione dell’aumento della PIC è una delle sfide intellettuali più appassionanti per l’intensivista. È necessario avere familiarità con le cause extraneurologiche che influenzano direttamente il suo aumento [67]. Prima di prendere misure è consigliabile un’analisi approfondita e rigorosa delle possibili cause, dato che tutte le misure farmacologiche tese a ridurre la PIC non sono prive di effetti collaterali che possono aggravare la lesione primaria [38,67].
Di seguito elenchiamo le cause sistemiche che possono portare a un aumento della PIC [38,67]:
- ipotensione;
- ipossia;
- ipercapnia/ipocapnia;
- ipertermia;
- iperglicemia/ipoglicemia;
- iponatriemia;
- ipoproteinemia;
- blocco del drenaggio venoso (posizione della testa, morsetto del tubo tracheale);
- trasmissione di altre pressioni corporee: PEEP (Positive End-Expiratory Pressure)/pressione intra-addominale.
Un metodo semplice da memorizzare per la valutazione di un paziente con PIC elevata è la cosiddetta regola “PENSAR”, dove:
- P: Precedente stato del paziente;
- E: Evoluzione;
- N: Note (anestesia, infermeria);
- S: Situazione in cui si verifica l’aumento della PIC;
- A: Azioni e trattamenti precedenti;
- R: Risposta ai trattamenti precedenti.
Precedente stato del nostro paziente
è necessario fare riferimento alla gravità clinica al momento del ricovero, alla localizzazione e al tipo di tumore, ai risultati del neuroimaging e alle pratiche chirurgiche effettuate: chirurgia programmata o d’emergenza? Segni di ernia cerebrale? Precedente idrocefalia? Complicanze intraoperatorie?
Evoluzione
Va valutata l’evoluzione clinica e tomografica durante la permanenza nell’Unità di Terapia Intensiva, la presenza di comorbilità associate e di complicanze durante la degenza. Va inoltre stimato il deterioramento neurologico, respiratorio o emodinamico.
Note
Le registrazioni dell’infermeria hanno un ruolo vitale nella presente valutazione. Va analizzata l’evoluzione delle registrazioni di PIC, pressione arteriosa media, pressione positiva continua, stato pupillare, pattern respiratorio e stato del drenaggio, se presente. Occorre inoltre valutare altri parametri importanti quali: PVC (pressione venosa centrale), bilancio idrico, temperatura corporea, frequenza cardiaca e pulsossimetria.
Situazione in cui si verifica l’aumento della PIC
Si deve considerare se ci sia stato qualche evento scatenante che possa interessare l’aumento della PIC (come ad esempio igiene, rotazioni posturali, cambio del morsetto del tubo tracheale, aspirazione, disconnessione della ventilazione meccanica, ostruzione del tubo endotracheale, cambiamento della modalità ventilatoria). Vanno inoltre controllati lo stato emodinamico (ipotensione arteriosa, shock, necessità di farmaci inotropi o vasopressori) e la profondità della sedoanalgesia (scala di Ramsay o altro) senza dimenticare che questa terapia è uno dei primi passi e pilastro fondamentale nella gestione dell’aumento della pressione intracranica.
Azioni e trattamenti precedenti
Questo controllo è mirato a valutare il livello di intensità del trattamento terapeutico a cui è sottoposto il paziente. L’aumento della PIC non risulta uguale in un paziente che va verso parametri normali senza trattamenti specifici per la gestione del PIC rispetto a un altro paziente con PIC normale che sta però ricevendo mannitolo, ipertonici, iperventilazione, ecc.
Risposta a trattamenti precedenti
Questo step è finalizzato a valutare la risposta a diverse opzioni terapeutiche, per stabilire se vi sia refrattarietà al trattamento che si sta utilizzando.
Allo stato attuale, il monitoraggio continuo della pressione intracranica è indispensabile nella gestione dei pazienti con TEC (trauma cranio-encefalico) grave e altre patologie neurocritiche, rappresenta uno strumento diagnostico in grado di guidare la terapia in maniera oggettiva ed evolutiva, aiutandoci inoltre a definire la prognosi. Tra le misure di carattere generale per evitare inutili aumenti di pressione intracranica possiamo includere i seguenti fattori [38,67]:
- testa e collo allineati sollevati a 30 gradi rispetto alla linea orizzontale, posizione neutra, volti a favorire il drenaggio venoso attraverso le vene giugulari, evitando un aumento del volume ematico cerebrale (VEC);
- sedoanalgesia adeguata: destinata a eliminare il dolore, favorire l’interazione paziente-ventilatore. Il punteggio ideale da raggiungere è un valore di 5 o 6 nella scala Ramsay;
- assistenza nella ventilazione meccanica;
- riduzione della pressione intratoracica al minimo:
- evitare o ridurre al minimo la stimolazione tracheale;
- lidocaina iv o transtracheale prima dell’aspirazione delle secrezioni;
- valutare il modo più appropriato per la ventilazione meccanica;
- adeguare i livelli di PEEP;
- uso di miorilassanti, se necessario;
- neuroprotezione fisiologica: consiste nell’adozione di misure generali dirette a realizzare l’equilibrio fisiologico sistemico, fondamentale per proteggere il cervello danneggiato. Sono progettate per prevenire lesioni secondarie, che possono scatenare, aggravare e/o perpetuare il danno primario.
Una tecnica mnemonica per ricordare quanto sopra riportato è la cosiddetta “Regola delle 6 N o 6 normalità” (Figura 2) [38,67].
Figura 2. Regola delle 6 N
La febbre deve essere trattata in maniera perentoria e aggressiva dato che ha noti effetti deleteri sui neuroni e sulla BEE nello stimolare la produzione di radicali liberi di ossigeno e aumentare i livelli di aminoacidi eccitatori; aumenta inoltre le richieste metaboliche cerebrali di ossigeno e diminuisce la soglia convulsiva. Per questa ragione in molte malattie neurocritiche ha dimostrato di essere un fattore indipendente di prognosi infausta [38,68-71]. Si consiglia inoltre di mantenere livelli di emoglobina che assicurino un corretto trasporto di O2 al cervello. Il livello ottimale non è ancora fissato, ma, in generale, è auspicabile che sia di 8-10 g/dl [72-75]. Studi di coorte hanno dimostrato che la mortalità di questo gruppo di pazienti si riduce nel caso di ricovero in un’Unità di Terapia Intensiva dedicata espressamente all’assistenza di pazienti neurocritici, probabilmente per un particolare interesse per la patologia, per una maggiore aderenza ai diversi protocolli di trattamento, per il rapido passaggio a strutture di riabilitazione, ecc. [6,38].
Per quanto riguarda gli obiettivi terapeutici specifici, i valori di PIC devono essere mantenuti al di sotto di 20-25 mmHg, conseguendo allo stesso tempo una PPC > 50 mmHg. Per raggiungere questi obiettivi si usa un protocollo a scaglioni e sequenziale [76]. In ogni momento si deve considerare l’evacuazione delle lesioni occupanti spazio (LOS), soprattutto nel periodo postoperatorio: nuovi sanguinamenti, pneumocefalo o edema maligno come si verifica di tanto in tanto dopo la rimozione di grandi meningiomi situati nella regione frontale. Sebbene le misure per controllare i livelli aumentati di PIC non abbiano avuto un forte sostegno basato sulle evidenze [77], «l’assenza di evidenza non equivale a evidenza di assenza». Dette misure terapeutiche per decenni sono state e sono utilizzate in tutte le Unità del mondo che trattano pazienti vittime di lesioni cerebrali: sono disponibili molteplici revisioni di buona qualità [78-80]. Le opzioni di trattamento a seconda della loro complessità e dei potenziali effetti avversi sono divise in misure di primo e secondo livello di trattamento.
Tra le misure di primo livello abbiamo:
- drenaggio del liquor cefalorachidiano (LCR), che si può effettuare attraverso ventricolostomia o drenaggio lombare (tumori della fossa posteriore) sia in modo continuo a una velocità non superiore a 20 ml/h sia in modo intermittente secondo i valori della PIC [76];
- osmoterapia, utilizzando mannitolo o soluzioni saline ipertoniche [81-87]. Recentemente Ching-Tang Wu e collaboratori [88] hanno condotto uno studio prospettico randomizzato su 238 pazienti sottoposti a chirurgia programmata dei tumori cerebrali. Essi sono stati randomizzati a ricevere mannitolo o soluzione salina ipertonica al 3% in dosi equimolari. L’obiettivo primario è stato valutare gli effetti sulla riduzione del volume cerebrale intraoperatorio, mentre gli obiettivi secondari sono stati valutare la permanenza in terapia intensiva e in ospedale. Gli Autori hanno osservato differenze significative a favore della soluzione salina al 3% nella riduzione cerebrale intraoperatoria, non trovando alcuna differenza significativa in degenza in terapia intensiva né in quella ospedaliera [88];
- iperventilazione, che si deve usare per brevi periodi e solo di fronte ad aumenti della pressione intracranica, non in profilassi. Ha effetti deleteri a livello cerebrale e sistemico, per esempio la vasocostrizione coronarica che può portare a ischemia miocardica in pazienti predisposti [89,90];
- indometacina: agente antinfiammatorio non steroideo con proprietà vasoattive a livello del sistema vascolare cerebrale. Abbassa notevolmente e rapidamente i livelli di PIC. Diminuisce il flusso ematico cerebrale che si mantiene accoppiato al metabolismo e al consumo di ossigeno. L’ischemia cerebrale non è stata chiaramente dimostrata. Ha inoltre proprietà neuroprotettive [91-96].
La mancata risposta alle suddette misure definisce la refrattarietà dell’ipertensione endocranica. Una situazione del genere è presente nel 10-20% dei casi, casi in cui si ricorre alle suddette misure di secondo livello tra cui si incontrano: l’induzione del coma barbiturico, l’ipotermia o la craniectomia decompressiva, che in questi casi è associata a risultati deludenti [97].
Sanguinamento postoperatorio
Il sanguinamento postoperatorio è una complicanza potenzialmente grave con una prevalenza stimata del 2-10% (Figura 3). Tra i principali fattori di rischio possiamo includere: l’emostasi inadeguata, l’ipertensione arteriosa, l’improvvisa decompressione del sistema ventricolare, la lesione vascolare diretta, le difficoltà tecniche di dissezione del tumore, la retrazione del parenchima [32,98-105]. Anche la trombocitopenia è stata associata a questa complicanza. La più alta incidenza di sanguinamento, tra 20 e 30%, è stata osservata nei tumori di origine gliale come gli oligodendrogliomi-astrocitomi e i glioblastomi multiformi seguiti dai meningiomi. La metastasi del melanoma è associata a un tasso di sanguinamento del 50% circa. Altre metastasi sanguinanti sono quelle di origine carcinomatosa (polmonari, renali, colorettali), quelle da mixomi atriali o coriocarcinomi. Gli adenomi ipofisari possono sanguinare nella sella turcica o nella regione soprasellare, dando origine alla sindrome di Sheehan o a un’apoplessia pituitaria [32,106].
Figura 3. Sanguinamento intratumorale postoperatorio
Seguono temporaneamente una curva bimodale con un picco iniziale entro le prime sei ore dopo l’intervento e un secondo picco dopo le prime 24 ore, associato alla comparsa di un edema perilesionale [101-105]. Gli ematomi postoperatori si manifestano abitualmente con un improvviso deterioramento dello stato di coscienza, l’insorgenza di un nuovo focolaio neurologico o l’aggravamento di quello esistente, spesso non distinguibile da altre situazioni come l’edema cerebrale.
La diagnosi deve essere effettuata precocemente, guadagnando rilevanza lo stretto controllo clinico unitamente al monitoraggio della pressione intracranica e della TAC.
La morbimortalità del sanguinamento postoperatorio è alta, soprattutto in ematomi superiori a 3 cm di diametro nel caso di emorragia soprasellare, o in quelli che presentano svuotamento ventricolare o si trovano nella fossa cranica posteriore [24,100].
Anche se meno frequentemente, l’emorragia si può verificare come complicanza di procedure mini-invasive come la biopsia stereotassica. In gran parte di queste, essa compare nelle prime 12 ore, eccezionalmente dopo la prima giornata. Field e collaboratori hanno analizzato un gruppo di 500 pazienti sottoposti a biopsia stereotassica per diverse patologie intracraniche e studiato i fattori di rischio di emorragia dopo la procedura.
Dopo una dettagliata analisi delle diverse circostanze che possono influenzare lo sviluppo di sanguinamento, gli Autori hanno notato come fattori di rischio i tumori localizzati nella regione pineale e la presenza di una conta piastrinica inferiore a 150.000/mm [105].
Idrocefalia e fistole liquorali
L’idrocefalia come causa di improvviso peggioramento dello stato neurologico è più comune nei tumori del terzo ventricolo o infratentoriali. Si può presentare in qualsiasi momento durante il corso dell’evoluzione della patologia. Clinicamente si manifestano come sindrome da ipertensione endocranica o sono parte del processo sintomatico causato dal tumore. I tumori causano idrocefalia per compressione o ostruzione della circolazione dell’LCR a causa del tumore stesso o per le sue complicanze (edema, sanguinamento) (idrocefalia ostruttiva) o per l’aumento della concentrazione di proteine nell’LCR, alterando il riassorbimento dello stesso (idrocefalia comunicante ) [32,106,107].
Il trattamento dell’idrocefalia è controverso. Alcuni Autori hanno proposto di collocare il drenaggio ventricolare esterno preoperatorio, rivendicando i seguenti benefici: miglioramento dello stato clinico-neurologico, prevenzione del peggioramento clinico, possibilità di monitorare la PIC (cosa che consente l’ottimizzazione della gestione dell’edema cerebrale), miglioramento delle condizioni chirurgiche e diminuito bisogno di shunt definitivo [106,108].
Chi si oppone a questo comportamento basa le proprie conclusioni sulla possibilità di riduzione improvvisa della pressione intracranica con lo sviluppo di ematoma epidurale, la possibilità di ernia ascendente nei tumori infratentoriali, le lesioni dirette parenchimali, il rischio di sanginamenti e infezioni [106].
Nel tentativo di trovare le variabili che possono essere associate con la presenza di complicanze liquorali in pazienti con tumori della fossa posteriore, Santamarta e collaboratori hanno scoperto che l’unica variabile indipendente è la dimensione del tumore. In questo studio gli Autori hanno osservato che i pazienti che hanno ricevuto ventricolostomia avevano un tasso di complicanze più elevato rispetto ad altri metodi di trattamento (serbatoio sottocutaneo, drenaggio ventricolo-peritoneale o neuroendoscopia) [109].
Uno studio condotto in pazienti pediatrici affetti da tumori della fossa posteriore ha concluso che i pazienti a cui era stata collocata una derivazione ventricolare preoperatoria avevano un tasso di complicanze inferiore [108].
Inoltre, è stato osservato che l’insorgenza di fistola del liquido cerebrospinale non è correlata al grado di idrocefalia precedente, alla collocazione del drenaggio ventricolare o al tipo di chiusura durale [108].
La struttura della dura madre nella fossa cranica posteriore è più lassa rispetto alla dura madre sopratentoriale e la sua ricostruzione è più difficile: ciò predispone all’insorgenza di fistole postoperatorie. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di fistole del LCR si incontrano:
- approccio transfenoidale;
- approccio translabirintico;
- chiusura incompleta o cattiva della dura madre;
- apertura delle celle mastoidee;
- meningiomi frontali.
Va osservato che per azione della gravità è più facile l’uscita del LCR dalla base del cranio alla fossa cranica posteriore causando la formazione di raccolte epidurali del LCR, chiamate pseudomeningoceli [107].
Il trattamento della fistola del LCR può essere medico o chirurgico: riposo, posizionamento della testiera a 30 gradi, vasocostrittori nasali in gocce, uso di lassativi per evitare manovre di Valsalva, diuretici come acetazolamide nella quantità di 250-500 mg/die, che diminuisce la produzione di LCR, ma richiede diversi giorni per iniziare la propria azione. Se con queste misure la fistola persiste, si raccomanda di procedere con punture lombari ripetute o drenaggio lombare continuo. Se le misure precedenti non avessero buon esito, procedere alla riparazione chirurgica [109].
Profilassi anticonvulsivante e gestione delle convulsioni
Le crisi comiziali in pazienti con tumore al cervello sono strettamente legate alla localizzazione dello stesso. Il tempo e le forme in cui si presenta variano a seconda del tipo di crisi che includono: semplice, complessa, con o senza generalizzazione.
La prevalenza è del 30-40% circa [46,53].
I pazienti che presentano convulsioni come parte dello spettro clinico tumorale (4%) si possono dividere in due gruppi:
- individui in cui le convulsioni sono l’unico sintomo, spesso bambini e adolescenti;
- individui in cui le convulsioni sono parte di una più ampia e variegata sintomatologia, più diffusa negli adulti e anziani [110].
Tipo di tumore |
Frequenza (%) |
Tumore disembrioblastico neuroepiteliale |
100 |
Ganglioglioma |
90 |
Astrocitoma di basso grado |
75 |
Meningioma |
29-60 |
Glioblastoma multiforme |
30-50 |
Metastasi |
20-35 |
Tumori leptomeningei |
10-15 |
Linfoma primario del SNC |
10 |
Tabella IV. Frequenza delle convulsioni per tipo di tumore cerebrale
Tra i fattori predisponenti delle convulsioni possiamo elencare: il tipo di tumore, la localizzazione cortico-subcorticale, le variazioni peritumorali (sanguinamenti) e la genetica di ogni individuo.
I portatori dei gliomi di basso grado sono più inclini a crisi epilettiche, probabilmente correlate a una sopravvivenza più prolungata [111,112]. La Tabella IV mostra la frequenza delle crisi per tipo di tumore.
Come già accennato, la posizione del tumore colpisce il potenziale epilettogeno, evidenziando quelli corticali. In relazione alla localizzazione anatomica, i tumori frontali, temporali e parietali presentano convulsioni più frequentemente, essendo poco comuni nei tumori in posizione occipitale. È molto raro che i tumori sellari o infratentoriali causino convulsioni, ciò nonostante se si estendono sopra il tentorio questa eventualità potrebbe verificarsi.
Le difficoltà di trattamento sono correlate con le proteine tumorali che inducono resistenza ai farmaci antiepilettici e interazioni con altri farmaci, in special modo chemioterapici.
Nella gestione di questi casi è importante stabilire parametri di consenso, come indicato dalla American Academy of Neurology [113]:
- è giustificato l’avvio alla somministrazione di farmaci antiepilettici in pazienti che hanno presentato episodi di convulsione;
- gli antiepilettici non sono raccomandati di routine, come profilassi. Una meta-analisi di quattro studi clinici randomizzati con più di 300 pazienti ha mostrato che la profilassi anticonvulsivante è inefficace nella prevenzione delle convulsioni. In aggiunta a queste informazioni otto studi non randomizzati per un totale di 1.100 pazienti hanno mostrato che tra i soggetti che avevano ricevuto la profilassi anticonvulsivante, il 25% aveva presentato effetti collaterali e ciò aveva portato alla sospensione del farmaco;
- si raccomanda di interrompere la somministrazione di farmaci antiepilettici dopo un periodo di una settimana dall’intervento se il paziente non ha avuto episodi convulsivi;
- ad oggi non ci sono evidenze che giustifichino di raccomandare un particolare agente anticonvulsivante.
Wick e collaboratori suggeriscono che in pazienti con tumori cerebrali l’acido valproico diminuisce il tasso di ricorrenza: solo il 44% dei pazienti trattati con questo farmaco ha sviluppato recidive, rispetto al 70% di carbamazepina o al 51% di fenitoina [114].
Un problema che non dobbiamo dimenticare è che questo gruppo di pazienti ha manifestato effetti avversi più frequentemente. Inoltre, a causa della terapia multifarmacologica aumentano le possibilità di interazioni tra farmaci che talvolta non raggiungono livelli sierici adeguati o dall’altro lato aumentano a livelli tossici.
In Tabella V elenchiamo i principali farmaci, dosi ed effetti collaterali. A tutt’oggi non esistono studi randomizzati che abbiano confrontato l’efficacia dei farmaci antiepilettici “vecchi” e “nuovi” in pazienti con tumori cerebrali, anche se circa il 60% dei trattamenti convenzionali di prima linea fallisce nel controllo delle convulsioni [115].
Hilderbrand e collaboratori hanno riportato il controllo completo delle convulsioni solo nel 12,6% dei pazienti trattati con valproato, carbamazepina, gabapentin, lamotrigina o clobazam in associazione con la chemioterapia. Tuttavia, la combinazione di terapia anticonvulsivante e del trattamento antitumorale specifico ha ridotto significativamente il grado di generalizzazione delle convulsioni [115].
Nell’ultimo decennio lo sviluppo di nuovi farmaci antiepilettici ha aumentato enormemente e in maniera promettente le aspettative e l’“arsenale” terapeutico disponibile per il controllo delle convulsioni. Le risposte positive ai nuovi farmaci antiepilettici sono superiori al 50% e la percentuale di pazienti liberi da convulsioni varia tra il 20 e il 91% in base ai diversi studi [115].
Farmaci |
Dosi |
Livelli sierici |
Raccomandazioni |
Effetti collaterali |
Carbamazepina |
600-1.200 mg/die, suddiviso in 2-3 assunzioni |
4-12 μg/ml |
Si raccomanda di iniziare con un terzo della dose durante 5-7 giorni, e incrementarla in uguale quantità per lo stesso periodo di tempo. Se si osservano effetti avversi, diminuire la quantità che si è aumentata ogni settimana |
La sonnolenza è il più importante, è correlato con alti livelli sierici o un rapido aumento degli stessi, rash cutaneo, diplopia, atassia. Raramente si verifica epatotossicità, depressione midollare, sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico |
Acido valproico |
1.000-3.600 mg/die in 2 dosi |
50-100 μg/ml |
Si raccomanda di iniziare a usare lo stesso schema utilizzato con carbamazepina |
Epatotossicità, pancreatite, iperammoniemia, trombocitopenia, sonnolenza, tremore, inibizione dell’aggregazione piastrinica, diminuzione del fibrinogeno, alopecia transitoria |
Difenilidantoina |
300-400 mg/die |
10-20 μg/ml |
Si inizia con dose piena dato che è un farmaco sicuro. Richiede dosi di carico di 15-20 mg/kg di peso corporeo. Diluire in soluzione salina normale, dato che il destrosio precipita la preparazione |
Flebite, dolore nel tragitto venoso usato, iperplasia gengivale, irsutismo, rash cutaneo, quando si aumentano le concentrazioni sieriche: sedazione, aritmie, tremore, nistagmi, mancata coordinazione motoria, disturbi dell’andatura, epatotossicità |
Fenobarbital |
150-300 mg/die |
10-45 μg/ml |
- |
Sedazione, nistagmi, atassia, irritabilità, confusione, deficit cognitivo |
Gabapentin |
900-3.600 mg/die |
- |
Farmaco con ampio margine di sicurezza |
Nausea, vertigini, diplopia, atassia |
Lamotrigina |
200-400 mg/die |
- |
Si inizia con la minor dose possibile e si aumenta ogni 2 settimane |
Soprattutto dermatologici, da rash cutaneo a sindrome di Stevens-Johnson, specialmente se combinata con acido valproico |
Levetiracetam |
500-3.000 mg/die in 2 dosi |
- |
- |
Sonnolenza, pochi effetti collaterali |
Tabella V. Panoramica sui principali farmaci anticonvulsivanti
Molti degli studi sono stati effettuati con levetiracetam, ottenendo tassi di risposta positivi superiori al 60%. Gli effetti indesiderati sono stati minimi: sonnolenza (di solito all’inizio del trattamento), affaticamento e debolezza. Considerando tutti gli studi realizzati con questo farmaco, i risultati forniscono una buona evidnza sulla sua sicurezza ed efficacia. Inoltre, il farmaco non provoca induzione o inibizione dell’enzima del citocromo P450, non ha metaboliti attivi e non presenta legami con proteine di trasporto, cosa che impedisce l’interazione con altri farmaci [115].
Studi con un numero minore di pazienti sono stati effettuati con gabapentin, pregabalin e tiagabina. Perry e Sawka hanno trattato con gabapentin 14 pazienti con glioma di alto grado e epilessia intrattabile: sono stati in grado di controllare in forma completa le crisi in 8 dei 14 pazienti, mentre nel complesso è stata ridotta la frequenza degli episodi epilettici [115]. Un piccolo numero di 9 pazienti trattati con pregabalin ha mostrato una riduzione degli episodi convulsivi del 50%. Tuttavia, il 25% aveva dovuto interrompere la somministrazione del farmaco a causa di gravi effetti collaterali [115]. Topiramato è riuscito a ridurre l’incidenza di convulsioni nel 76% dei pazienti con tumori cerebrali di origine diversa, mentre il 56% degli stessi non ha avuto convulsioni.
Più recentemente piccoli studi non controllati hanno usato zonisamide e lacosamide riuscendo a controllare in maniera promettente gli episodi convulsivi rispettivamente nell’83% e nel 77% dei casi.
In base ai nuovi sviluppi, attualmente c’è una incremento nella tendenza a prescrivere farmaci antiepilettici che non provocano induzione enzimatica, come levatiracetam, gabapentin, pregabalin e lamotrigina. In assenza di studi comparativi, il parere di esperti è propenso all’uso di levetiracetam e pregabalin da soli o in associazione, in quanto entrambi sono facili da somministrare e titolare, sono clinicamente efficaci e sono ben tollerati dai pazienti [116].
I pazienti con tumori cerebrali hanno un maggior rischio di convulsioni refrattarie, non solo a causa del substrato e della posizione anatomica, ma per la maggiore prevalenza di complicanze come il sanguinamento intratumorale e la resistenza molecolare ai farmaci antiepilettici, relazionata alla produzione di proteine espressione del gene MDR1 (ABCB1), che si comporta come glicoproteina trasportatrice di sostanze lipofile, impedendo loro di penetrare nel tessuto cerebrale. Questo elemento è stato segnalato per carbamazepina, fenitoina, fenobarbital, lamotrigina e felbamato, mentre levetiracetam non sembra influenzato da tali prodotti cellulari, cosa che potenzialmente conferisce a quest’ultimo un posto privilegiato tra le alternative terapeutiche [110-112].
La definizione di stato epilettico (SE) si è modificata nel tempo. Inizialmente è stato genericamente definito come convulsioni persistenti durante un periodo prolungato o convulsioni ripetute frequentemente senza recupero dello stato di coscienza tra le diverse crisi. Successivamente il fattore tempo è stato incluso nella definizione, prendendo come standard la durata di 30 minuti per definire lo SE. Questo periodo non è stato preso in modo arbitrario, ma sulla base di studi sperimentali che hanno mostrato la comparsa di lesioni neurologiche oltre il detto periodo. D’altra parte, maggiore è la durata della SE, inferiore è la possibilità che i farmaci anticonvulsivanti agiscano in modo efficace. Per questa ragione attualmente lo stato epilettico è definito come presenza di convulsioni per più di 5 minuti: con questo si fornisce un criterio chiaro e concreto per promuovere un trattamento precoce e aggressivo [117-119].
Non esiste una definizione uniforme di SE refrattario. In pratica, è utile classificare lo stato epilettico refrattario come il fallimento del trattamento anticonvulsivante di prima e seconda linea (quindi, benzodiazepine, fenitoina, acido valproico). Tale definizione semplifica il protocollo di trattamento e sottolinea la necessità di aumentare e intensificare la terapia definita.
L’obiettivo del trattamento per SE è interrompere le convulsioni il più rapidamente possibile e prevenire le recidive.
I punti chiave nella gestione degli SE risiedono sulle seguenti considerazioni [117-120]:
- lo SE è un’emergenza, dato che se prolungato e generalizzato, può portare alla morte o a un grave e permanente danno neurologico;
- quanto più aggressivo e rapido sarà il trattamento, migliore sarà il risultato;
- la resistenza ai farmaci è in stretta relazione con l’inizio tardivo della terapia;
- le benzodiazepine sono la terapia di prima linea più efficace;
- lo SE refrattario richiede un trattamento in terapia intensiva con l’induzione di anestesia generale e la ventilazione meccanica, oltre al monitoraggio EEG continuo.
Prevenzione della malattia tromboembolica
La malattia tromboembolica venosa (TEV) è un evento comune in tutti i pazienti con tumori cerebrali, soprattutto nel periodo postoperatorio. Questa complicanza aumenta la morbimortalità, ragion per cui è indispensabile adottare misure preventive. Sebbene la maggior parte degli eventi tromboembolici si verifichi durante la permanenza del paziente in terapia intensiva o nel periodo immediatamente postoperatorio, il rischio di TEV persiste per tutta la malattia. Uno studio ha dimostrato che l’incidenza di trombosi venosa profonda sintomatica è stata del 24% in un follow-up di circa diciassette mesi, dopo le prime sei settimane dall’intervento. Tra i principali fattori di rischio possiamo includere i portatori dei gliomi ad alto grado e gli individui con età superiore a 60 anni e/o con deficit motori, in particolare degli arti inferiori [36,51,53].
Per molti anni e davanti all’eventualità di trovarsi una anticoagulazione controindicata, si è ricorso a mettere un filtro nella vena cava inferiore associato a un alto indice di varie complicanze. Le evidenze oggi disponibili consentono che questi pazienti siano trattati con eparina non frazionata per via endovenosa seguita da anticoagulanti orali, o la terapia iniziale con eparina a basso peso molecolare (EBPM) [36,51,53]. I vantaggi di questa seconda opzione si basano sul fatto che può essere somministrata a quei pazienti che non tollerano la via orale, con minor rischio di trombocitopenia, facilità di somministrazione e non assenza di necessità di monitoraggio in laboratorio.
Durante il periodo perioperatorio, una rigorosa profilassi riduce sostanzialmente l’incidenza di TEV. La profilassi multimodale include l’uso di calze elastiche, stivali a compressione pneumatica in combinazione con enoxaparina (4.000 UI anti-Xa o 40 mg/die) o eparina sodica (5.000 U ogni 12 ore): questo schema può eliminare la TEV sintomatica in pazienti sottoposti a craniotomia [51].
L’incidenza di eventi tromboembolici nei pazienti neurochirurgici è relativamente alta, oscillando per la trombosi venosa profonda (TVP) tra 0-34% e per l’embolia polmonare sintomatica tra 0-3,8% [121,122].
Nei pazienti con tumori cerebrali l’incidenza di trombosi venose sintomatiche è del 24% ed è stata individuata entro sei settimane dopo l’intervento chirurgico arrivando fino a 17 mesi successivi allo stesso [121,122].
In una meta-analisi realizzata su 7.779 pazienti neurochirurgici è stato identificato come fattore di rischio per lo sviluppo di trombosi venosa profonda in pazienti anziani con tumore al cervello sottoposti a craniectomia [121].
In accordo al rischio tromboembolico si è suddivisa questa popolazione in maniera semplice [121]:
- rischio molto elevato: i pazienti con una storia di malattia tromboembolica o trombofilia.
- rischio elevato: i pazienti con tumori cerebrali sottoposti a craniectomia.
- rischio moderato: i pazienti sottoposti a craniectomia senza neoplasie cerebrali.
- rischio basso: i pazienti sottoposti a neurochirurgia senza craniectomia.
Le linee guida ACCP (American College of Chest Physicians) suggeriscono tromboprofilassi di routine per i pazienti con neurochirurgia maggiore mediante l’uso di stivali a compressione pneumatica intermittente o, in alternativa, eparina sodica o a basso peso molecolare. Nei pazienti a rischio molto alto è raccomandata nel postoperatorio la combinazioni di metodi fisici con eparina [123].
Nei pazienti con neoplasie cerebrali può essere più sicura la profilassi farmacologica con eparina in forma precoce (entro le 12 ore postoperatorie), sempre bilanciando il rischio di sanguinamento postoperatorio: davanti a una chirurgia complessa ad alto rischio di sanguinamento, la profilassi farmacologica può essere rinviata fino a quando l’inizio della terapia non sia considerato sicuro [121-123].
Alterazioni del metabolismo del sodio
L’iponatriemia è l’alterazione del milieu interno più comune in medicina clinica, è associata a prognosi negativa e all’impatto sui costi diretti di ospedalizzazione. Nei pazienti neurochirurgici la prevalenza di iponatriemia è alta, secondo alcuni studi superiore al 50%. L’iponatriemia aumenta il rischio di complicanze come deterioramento dello stato mentale, edema cerebrale, convulsioni, vasospasmo e può persino causare la morte, quindi è importante stabilire modelli di comportamento per diagnosi e trattamento precoci [124-131]. Le entità più frequenti di presentazione nel periodo postoperatorio sono la sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH) o la Cerebral Salt Wasting Syndrome (CSWS) [124-131]. La fisiopatologia della SIADH si basa su un eccesso di ormone antidiuretico che aumenta il riassorbimento dell’acqua a livello renale, provocando un aumento della stessa nello spazio extracellulare, con la contestuale riduzione della concentrazione di sodio, in altre parole detto iponatriemia da diluizione. Nel caso della Cerebral Salt Wasting Syndrome, descritto per la prima volta nel 1950, non è chiaro il meccanismo fisiopatologico. Tuttavia, è noto che il peptide natriuretico cerebrale svolge un ruolo importante nella genesi di questa sindrome, in quanto si è visto che la sua presenza regola il rilascio di peptide natriuretico atriale, che causa la perdita renale di sodio e acqua [124,130,131].
SIADH |
CSWS |
|
Sodio plasmatico (mmol/l) |
< 135 |
< 135 |
Osmolarità plasmatica (mOsm/kg) |
< 285 |
< 285 |
Osmolarità urinaria (mOsm/kg) |
> 200 |
> 200 |
Sodio urinario (mmol/l) |
> 25 |
> 25 |
Peso |
Aumentato |
Diminuito |
Bilancio dei fluidi |
Positivo |
Negativo |
Distensione della vena giugulare |
Positiva |
Negativa |
Ematocrito |
Basso |
Alto |
Urea |
Bassa |
Alta |
Albumina sierica |
Normale |
Alta |
Creatinina |
Bassa |
Alta |
Acido urico |
Normale o basso |
Basso |
Bicarbonato |
Basso |
Elevato |
Potassio sierico |
Normale |
Normale o alto |
Pressione venosa centrale (cmH2O) |
> 6 |
< 6 |
Pressione di incuneamento (mmHg) |
> 8 |
< 8 |
Frequenza cardiaca |
Normale |
Alta |
Tabella VI. Schema per la diagnosi differenziale tra SIADH (sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico) e CSWS (Cerebral Salt Wasting Syndrome)
La differenziazione di queste sindromi può non essere facile, dato che entrambe sono presenti con l’iponatriemia: nella Tabella VI è stato riportato lo schema per la diagnosi differenziale tra le due patologie. Il volume extracellulare nella Cerebral Salt Wasting Syndrome è basso, mentre nella SIADH è normale o alto. Nella pratica quotidiana ci sono gravi difficoltà nel determinare in maniera affidabile lo stato del volume extracellulare. I parametri che abbiamo al letto del paziente per stimare tale volume (peso al giorno − spesso non rilevabile −, bilancio dei liquidi, presenza di ipotensione ortostatica, frequenza cardiaca, ematocrito, rapporto BUN (indice di azoto ureico)-creatinina, acido urico e pressione venosa centrale) sono poco sensibili e mancano di specificità. La diminuzione della osmolalità sierica e l’elevata concentrazione urinaria di sodio (a volte superiore ai valori plasmatici) sono spesso un marcatore rilevante della Cerebral Salt Wasting Syndrome [124-131].
Anche se può sembrare facile stabilire la diagnosi differenziale tra le due condizioni, nella pratica molte volte questa chiarezza si affievolisce. Classicamente la restrizione dei liquidi è stato il trattamento standard per SIADH e può determinare un miglioramento in questo tipo di pazienti; l’opposto accade nei pazienti con CSWS che hanno mostrato un marcato peggioramento.
Wijdicks e collaboratori hanno riportato che dei 26 pazienti interpretati come affetti da SIADH e trattati con la restrizione dei liquidi, 21 hanno sviluppato infarto cerebrale. Gli Autori hanno ipotizzato che questi pazienti probabilmente potrebbero essere affetti da CSWS. Così, la restrizione idrica non è patognomonica, e non è esente da rischi, potendo essere dannosa: pertanto non si giustifica tale prassi in pazienti con danno cerebrale [125].
Nel caso della CSWS il trattamento standard è stato la sostituzione del volume, anche se si è discusso su quale possa essere il liquido più efficace. Di recente, le soluzioni saline ipertoniche hanno ottenuto vantaggi rispetto alle soluzioni isotoniche nel trattamento di questa condizione.
Anche se non vi sono protocolli su evidenze da studi controllati, i dati preliminari suggeriscono come promettente il trattamento con soluzione salina al 2 al 3% con stretto monitoraggio di laboratorio. I controlli del sodio plasmatico devono essere effettuati ogni sei ore, con l’obiettivo di correggere di 0,5 mEq/l ogni ora. Con un rigoroso controllo gli effetti avversi della terapia con ipertonici sono generalmente evitati.
L’uso di fludrocortisone (non in commercio in Italia) nei pazienti con emorragia subaracnoidea (ESA) si è mostrato utile, grazie alla sua potente azione mineralcorticoide che produce un bilancio positivo di sodio e una concomitante diminuzione della natriuresi. Questi pazienti possono presentare ipokalemia come effetto indesiderato. Uno studio ha mostrato benefici simili usando idrocortisone con dosi di 1.200 mg/die per 10 giorni [124,129].
Come osservato in precedenza in pazienti con SIADH, la restrizione idrica è stato il target terapeutico, ma molti pazienti con SIADH possono rispondere in modo improprio a questa strategia per due motivi fondamentali: in primo luogo il gruppo di pazienti con iponatriemia sintomatica richiede la correzione attiva della stessa; in secondo luogo il fenomeno di autoregolazione dei vasi cerebrali può essere compromesso o abolito (in questi casi la restrizione idrica può essere molto dannosa).
Potremmo quindi concludere che la gravità dei sintomi di iponatriemia è il metro di misura che guiderà la nostra scelta terapeutica. Le soluzioni saline ipertoniche sembrano essere l’opzione migliore. Si dovrebbe cercare di non superare 10 mEq/die di aumento della natremia. La CSWS può altresì richiedere un generoso apporto di soluzioni isotoniche per correggere la deplezione del volume intravascolare e di fludrocortisone per fermare la natriuresi e il bilancio negativo di sodio. In pazienti con SIADH con sintomi minori o asintomatici la condotta più adeguata è la restrizione dei liquidi e un attento monitoraggio della natremia.
Infine, al momento della comparsa di poliuria associata a ipernatremia si deve tenere a mente la possibilità di trovarsi di fronte a un quadro di diabete insipido, quadro che può essere frequente nella chirurgia del tumore dell’ipofisi [32,124-131]. Il trattamento qui risulta nel riequilibrio idrico e ormonale con desmopressina [32,127].
Pneumocefalo
Figura 4. Neuroencefalo ipertensivo
Il pneumocefalo si definisce come la presenza di aria all’interno della cavità cranica situata nello spazio extradurale, subdurale, subaracnoideo, intraparechimatoso o intraventricolare [132-134] (Figura 4). Appare presto o tardivamente con un’incidenza variabile dal 2,5 al 16%. Le forme con cui si presenta sono diverse. Possono essere semplici (ossia clinicamente silenti e constatabili solo attraverso l’imaging) o possono causare sintomi come sonnolenza, confusione mentale, cefalea, nausea e vomito. Talvolta l’“intrappolamento” dell’aria si produce a causa della tensione, provocando effetto massa e sindrome da ipertensione endocranica. La diagnosi differenziale con edema o sanguinamento è difficile e richiede l’aiuto del neuroimaging. Tra i fattori associati alla sua comparsa possiamo citare: craniectomia, craniotomia, puntura lombare, drenaggio ventricolare esterno, erosione tumorale ed effetto “valvola”, che si verifica quando si apre un comparto inestensibile con tessuti molli come il cervello e l’anestesia con gas solubili come l’ossido nitroso.
Per quanto riguarda il trattamento dei pneumocefali semplici si richiede solo l’osservazione, dato che vengono riassorbiti spontaneamente in circa 3 giorni, a meno che siano associati con fistole di LCR, nel qual caso devono seguire le linee guida per il trattamento di quest’ultima. Il pneumocefalo tensivo costituisce un’emergenza neurochirurgica, e si ottiene un notevole miglioramento al momento del suo svuotamento [132-134].
Ipertensione arteriosa postoperatoria
L’ipertensione arteriosa nel periodo postoperatorio è molto comune dopo un intervento chirurgico per tumore cerebrale, tuttavia l’esatta natura di questo fenomeno è ancora sconosciuta [135,136]. L’incidenza varia a seconda della localizzazione, del grado di ipertensione endocranica, di escissioni e capacità di secernere alcune sostanze da parte del tumore, che a seconda dei gruppi è tra il 30 e il 90% [135-137]. Dal punto di vista fisiopatologico è ben noto che la compressione rostrale ventrolaterale del tronco encefalico essenzialmente in tumori della fossa posteriore causi il rilascio di catecolamine, che sono anche stimolate in tumori glomici giugulari o in feocromocitomi intracraniali [137]. I tumori ipofisari, come adenomi e prolattinomi, sono anche associati a ipertensione arteriosa, ma attraverso il rilascio di prolattina o vasopressina [28,29]. Olsen e collaboratori hanno dimostrato che in pazienti operati per tumori sopratentoriali che avevano sviluppato ipertensione arteriosa, oltre all’aumento del rilascio del sistema postoperatorio simpatico, si è attivato il sistema renina-angiotensina-aldosterone [136]. Esistono altre situazioni che potrebbero innescare questa complicanza. Ad esempio [135-140]:
Figura 5. Protocollo per la gestione dell’ipertensione arteriosa dopo emorragia intracerebrale spontanea
BPCO = broncopneumopatia cronica ostruttiva; FC = frequenza cardiaca; NPS = nitroprussiato di sodio; PAD = pressione arteriosa diastolica; PAS = pressione arteriosa sistolica; PIC = pressione intracranica; PPC = pressione di perfusione cerebrale
- ipertensione arteriosa precedente;
- anestesia, stress chirurgico;
- dolore postoperatorio;
- ritenzione vescicale dell’urina;
- shivering o tremori postoperatori;
- veglia, soprattutto se il paziente rimane curarizzato;
- ipertensione endocranica.
In questo gruppo di pazienti, l’ipertensione arteriosa è stata associata a peggioramento clinico nel periodo postoperatorio, sia per sanguinamenti o per edema nei casi in cui è compromessa l’autoregolazione cerebrale: per questo livelli elevati di ipertensione arteriosa dovrebbero essere trattati in modo aggressivo. A causa dell’assenza di raccomandazioni che guidino la terapia, il nostro gruppo di lavoro ha estrapolato alcuni comportamenti per la gestione dell’ipertensione arteriosa da attuarsi dopo emorragia intracerebrale spontanea [140]:
- valutazione dei livelli pressori e dei farmaci prima dell’intervento;
- correzione dei fattori predisponenti sopra citati;
- trattamento aggressivo quando l’ipertensione arteriosa postoperatoria è associata a edema polmonare acuto, infarto acuto del miocardio, aneurisma dissecante dell’aorta o insufficienza renale acuta;
- in tutti gli altri casi iniziamo la terapia quando la pressione arteriosa suprera 160/90 o i valori medi pressori arteriosi siano superiori a 110 mmHg;
- se si dispone di monitoraggio della pressione intracranica, consideriamo la quota pressoria per raggiungere e mantenere la pressione di perfusione cerebrale > 55 mmHg;
- la scelta del farmaco si basa sul protocollo schematizzato nella Figura 5.
Conclusioni
Lo sviluppo tecnologico degli ultimi anni, soprattutto nel campo del neuroimaging, insieme ai progressi nelle tecniche di microchirurgia, di neuromonitoraggio e l’avvento di unità specializzate di terapia intensiva hanno contribuito a migliorare i risultati finali delle varie malattie neurologiche-neurochirurgiche, e i pazienti con tumore cerebrale non fanno eccezione a questa regola. La gestione multidisciplinare perioperatoria è essenziale. I tumori cerebrali presentano con frequenza varia complicanze che sono proprie e altre comuni ai pazienti critici, che possono verificarsi in qualsiasi stadio della malattia. Le complicanze più gravi di solito appaiono nel periodo immediatamente postoperatorio. Conoscere la fisiopatologia, la diagnosi e il trattamento è imperativo per raggiungere con successo gli obiettivi previsti.
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