RHC 2013;4(Suppl 3)17-29.html

Reviews in Health Care 2013; 4(Suppl 3): 17-29

Congress report

Goal-directed therapy nella gestione della coagulopatia indotta da trauma, con focus sul trauma cranico

Goal-directed therapy in trauma induced coagulopathy and focus on traumatic brain injury

Klaus Görlinger 1

1 Clinical Director, Tem International GmbH

Abstract

In recent years there have been major advances in the management of trauma-induced coagulopathy (TIC) and many experiences have demonstrated how we can achieve significant improvements with multidisciplinary approach and implementation of standardized protocols and algorithms. Central nervous system injuries and exanguination remain the primary causes of early trauma-related mortality. Traumatic brain injuries (TBI) make hemostasis in TIC even more complex and it is known that the onset of coagulopathy in a patient with severe brain injury has a negative impact on the patient’s outcome in terms of mortality.

Standard coagulation tests provide limited information on coagulation disorder. The advantages of whole-blood viscoelastic tests, such as rotational thromboelastometry or thrombelastography, are shorter turn-around time and better diagnostic performance compared to routine plasmatic coagulation tests. In contrast to a fixed ratio of FFP:PC:RBC, the aim of the goal-directed coagulation therapy is to set treatment to the actual needs of the individual patient, based on viscoelastic test results.

This article describes the improvements achieved through the implementation of ROTEM-guided treatment algorithms for visceral surgery and liver trasplantation, severe trauma and post-partum hemorrhage and cardiovascular surgery.

Keywords

Goal-directed therapy; Trauma induced coagulopathy (TIC); Traumatic brain injury (TBI); ROTEM®

Corresponding author

Klaus Görlinger

Klaus.Goerlinger@tem-international.de

Disclosure

Il presente Congress Report è stato supportato da CSL Behring.

Introduzione

Negli ultimi anni sono stati fatti importanti progressi nella gestione della coagulopatia indotta da trauma (TIC) e molte esperienze hanno testimoniato come si possano ottenere notevoli miglioramenti grazie ad un approccio multidisciplinare e all’implementazione di protocolli di gestione standardizzati e condivisi. Ad esempio, i dati della realtà dell’Ospedale Bufalini di Cesena hanno evidenziato come, nei 2/3 dei pazienti, è stato possibile evitare la trasfusione massiva: tale cambiamento ha avuto luogo in un breve periodo di tempo, a seguito dell’implementazione di un nuovo protocollo di trasfusione massiva (PTM), dimostrando in tal modo che i cambiamenti nella gestione dell’emorragia critica possono essere molto efficaci.

Per quanto riguarda l’epidemiologia relativa alla mortalità precoce nel trauma, non si sono registrati grandi cambiamenti nella passata decade: le principali cause di mortalità precoce nei primi due giorni rimangono sostanzialmente i gravi traumi del sistema nervoso centrale e il dissanguamento e, in alcuni casi, la combinazione di questi due elementi [1].

È noto inoltre che esiste una profonda differenza dal punto di vista patofisiologico tra TIC (coagulopatia indotta da trauma) e DIC (coagulopatia intravascolare disseminata). La TIC ha inizio con il trauma e con il danneggiamento tissutale stesso, con un importante ruolo da parte dell’infiammazione. In questo caso inoltre si ha un rilevante coinvolgimento delle cellule, non sono nel meccanismo della coagulazione ma anche in quello dell’infiammazione: questa è una delle motivazioni per cui i test plasmatici non sono in grado di riflettere completamente la situazione in questo setting.

Elementi chiave nella gestione della TIC

La gestione dell’emorragia critica ha inizio, al di fuori dell’ospedale e nelle Emergency Room, con il ripristino volemico, che comporta un grande impatto anche sulla TIC. In Germania la pratica clinica è stata basata per lungo tempo sul principio che il ripristino volemico fosse un elemento fondamentale da ottenere, ma negli ultimi tempi si è osservato che non sempre una massiccia Volume Resuscitation conduce a risultati positivi per il paziente: in alcuni casi, può addirittura peggiorare le condizioni del paziente e aggravare la TIC a causa dell’emodiluizione.

Acidosi e ipotermia rimangono elementi cruciali nella TIC, ma la scoperta più importante fatta negli ultimi anni riguarda il ruolo fondamentale dello shock e della ipoperfusione, che hanno come risultato il consumo di fattori della coagulazione e l’induzione di fibrinolisi tramite l’attivazione del pathway della proteina C.

Le lesioni cerebrali traumatiche (TBI, Traumatic brain injury) rendono l’emostasi nella TIC ancora più complessa. Nel cervello la concentrazione di Tissue factor è molto alta, perciò una grave lesione cerebrale può indurre, in fase iniziale, la DIC. È noto però che l’insorgenza di coagulopatia in un paziente con grave lesione cerebrale ha un impatto negativo in termini di mortalità sulla prognosi del paziente: ciò significa che se ad una grave lesione cerebrale si associa la coagulopatia, la mortalità aumenta di circa 4 volte. In questo ambito, inoltre, anche variazioni borderline nel sistema coagulativo, come ad esempio un tempo di Quick di 70%, possono essere associate ad un marcato aumento nella mortalità. Allo stesso modo, una conta piastrinica inferiore a 100.000/µl, che non è critica, in genere, in pazienti con sanguinamento, può invece comportare un impatto molto negativo in pazienti con concomitante TBI: la mortalità ospedaliera complessiva per pazienti con TBI e coagulopatia è di 50,4% vs 17,3% per pazienti con TBI senza coagulopatia (p < 0,001). I soggetti con TBI e coagulopatia presentano un Adjusted odds ratio per mortalità ospedaliera del 2,97, cioè circa 3 volte superiore rispetto alla stessa popolazione di pazienti ma senza coagulopatia [2].

I test di coagulazione standard hanno una validità limitata in questo ambito, sia per una questione di tempo (i risultati sono disponibili dopo un lasso di tempo abbastanza lungo) sia per i dati di cui riescono a dare conto. I vantaggi dei test viscoelastici sono il minor tempo di ritorno e la migliore performance diagnostica rispetto ai routinari test plasmatici di coagulazione. In questi test su sangue intero si riflette anche l’effetto delle cellule del sangue, perciò possono fornire informazioni sulla coagulazione oltre ai dati ottenuti dal tempo di coagulazione, che si focalizza principalmente sulla generazione di trombina. Inoltre i test viscoelastici sono in grado di rendere conto della stabilità del coagulo, che sembra essere il più importante parametro predittivo di mortalità. Ad esempio, nello studio pubblicato dal Ludwig Boltzmann Institute for Experimental and Clinical Traumatology (Vienna), è stato evidenziato come la stabilità del coagulo nel FIBTEM test rappresenta il migliore valore predittivo di mortalità nella coagulopatia indotta da trauma [3].

In alcuni casi, la coagulopatia è presente al momento del ricovero in ospedale, ma altri pazienti invece sviluppano una coagulopatia associata a grave TBI nei successivi 5 giorni. Pertanto non è sufficiente monitorare il paziente solo nel corso della prima giornata di ricovero ma, di conseguenza, in soggetti con TBI l’emostasi deve essere attentamente monitorata nei primi 4-5 giorni dopo il trauma, poiché il 30% dei pazienti sviluppa una coagulopatia, anche se non sempre è possibile diagnosticarla al momento dell’ammissione in ospedale. Il tempo di insorgenza della coagulopatia è di cruciale importanza: prima inizia la coagulopatia, maggiore sarà il suo impatto sulla prognosi del paziente; la coagulopatia precoce insorta entro 12 ore dal trauma rappresenta un marker di aumentata morbidità e prognosi sfavorevole [4].

La patofisiologia dei TBI è estremamente complessa e comprende sia l’ipercoagulabilità sia l’ipocoagulabilità. Questo può portare a lesioni secondarie a causa dell’induzione di microtrombi oppure per la progressione delle lesioni cerebrali emorragiche. Per spiegare questo fenomeno sono state proposte numerose ipotesi, tra cui il rilascio di Tissue factor, la CID, l’iperfibrinolisi, l’ipoperfusione con attivazione della proteina C e la disfunzione piastrinica [5].

In questo contesto clinico rimane ancora molto da indagare e sicuramente un altro punto critico da chiarire è rappresentato dalla scelta tra due percorsi alternativi: è meglio aumentare la capacità di coagulazione oppure iniziare precocemente una terapia antitrombotica? In particolare, pazienti con TBI e conseguente emorragia intracranica (ICH) presentano un alto rischio di sviluppare tromboembolismo venoso (TEV) [6]. Pertanto, in questi casi, l’obiettivo dovrebbe essere l’arresto del sanguinamento ma, allo stesso tempo, la prevenzione degli eventi trombotici.

In passato venivano adottati criteri piuttosto restrittivi per la prescrizione della profilassi antitrombotica in pazienti con ICH, ma negli ultimi anni le esperienze cliniche hanno evidenziato come la maggior parte dei pazienti tragga benefici da una profilassi antitrombotica iniziata entro 36-48 ore dopo l’arresto del sanguinamento. La somministrazione precoce di eparine a basso peso molecolare per via sottocutanea sembra essere efficace e probabilmente non aumenta il rischio di crescita di ematoma in pazienti con emorragie intracerebrali spontanee [7]. Ovviamente non esiste un momento ideale per l’inizio della profilassi uguale per tutti i pazienti, quindi è necessario basare tale decisione su un’analisi di rischio/beneficio individuale per ogni soggetto. Anche in questo ambito, i test viscoelastici possono fornire un utile supporto per individuare I pazienti con un maggiore rischio di eventi tromboembolici.

Nel 2010 il gruppo di ricerca della clinica universitaria di Essen (del quale facevo parte) ha pubblicato uno studio osservazionale di coorte in pazienti adulti critici con sepsi grave [8]. Contrariamente ai pazienti con coagulopatia trauma indotta, che sono caratterizzati da una attivazione del sistema della proteina C e da una conseguente iperfibrinolisi, i pazienti settici presentano esattamente la situazione opposta. Rispetto ai controlli post-operatori, i pazienti settici hanno mostrato un aumento del tasso di lisi (97% vs 92%) e di procalcitonina (2,5 ng/ml vs 30,6).

In questi pazienti il potenziale di lisi scende marcatamente, pertanto si tratta di una situazione in cui una profilassi antitrombotica con anticoagulanti deve essere iniziata immediatamente. Tuttavia, l’efficacia di una terapia anticoagulante intensificata deve essere ancora convalidata in questa popolazione di pazienti. Anche in questo caso, può essere utile il ricorso a test viscoelastici, i cui risultati sono ottenibili con un breve tempo di ritorno.

La funzionalità piastrinica è un altro elemento che sembra giocare un ruolo importante nel TBI. In uno studio pubblicato dall’AUVA Trauma Centre di Salisburgo, è stato dimostrato che variazioni minori nella funzione piastrinica al momento del ricovero al pronto soccorso rappresentavano un segno di coagulopatia associata ad un aumentata mortalità nei pazienti traumatizzati. Di nuovo, deviazioni seppur lievi dal range di normalità hanno dimostrato un impatto negativo notevole sulla prognosi dei pazienti [9]. Tuttavia, rimane difficile stabilire se questi pazienti presentano una prognosi peggiore perché la funzione piastrinica ha subìto delle variazioni oppure se sia il contrario. In particolare, nella terapia dei pazienti traumatizzati vengono sempre più utilizzati farmaci difficili da monitorare, come ad esempio nuovi antipiastrinici o nuovi anticoagulanti orali (dabigatran e inibitori del fattore Xa): tali farmaci possono avere un impatto notevole sulla condizione clinica del paziente con TBI ma non sono facilmente individuabili attraverso i test di coagulazione convenzionali.

Individuazione dei pazienti a rischio e delle cause di sanguinamento

Nella gestione del paziente con emorragia critica emergono due quesiti fondamentali: il primo riguarda l’individuazione dei pazienti a rischio, mentre il secondo riguarda l’individuazione delle cause di sanguinamento.

L’individuazione dei pazienti a rischio rappresenta un punto critico, anche in relazione all’utilizzo di un protocollo di trasfusione massiva (PTM). È noto infatti che solo i soggetti che necessitano di una trasfusione massiva traggono beneficio da trasfusioni di Fresh Frozen Plasma (FFP), ma spesso, al momento dell’ammissione in ospedale, non è facile individuare chiaramente questi soggetti. In particolare, utilizzando un protocollo di trasfusione basato su FFP, la terapia deve essere iniziata precocemente, poiché la somministrazione di solo FFP può ostacolare il recupero del paziente dalla situazione di coagulopatia.

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Figura 1. Valori di FIBTEM A 10 in relazione al rischio di necessità di trasfusione massiva. Modificata da [11]

Per identificare uno strumento diagnostico appropriato per la diagnosi precoce di coagulopatia traumatica acuta, Davenport e colleghi hanno realizzato uno studio osservazionale prospettico grazie al quale hanno evidenziato che, con una soglia di ampiezza della stabilità del coagulo dopo 5 minuti (A5) ≤ 35 mm, il tromboelastometro rotazionale (ROTEM®) è in grado di identificare una coagulopatia traumatica acuta entro 5 minuti e di predire la necessità di una trasfusione massiva [10]. I risultati di questo studio sono stati confermati da uno studio retrospettivo condotto da Schöchl e colleghi nell’AUVA Trauma Centre di Salisburgo: anche in questo caso, l’analisi effettuata con il ROTEM® ha permesso di individuare precocemente la maggior parte dei disordini della coagulazione, con l’ulteriore vantaggio della stratificazione del rischio di trasfusione massiva utilizzando i risultati disponibili entro 10 minuti dal tempo di coagulazione (FIBTEM® A10) [11].

Nella Figura 1 sono rappresentati i risultati del FIBTEM test: se la stabilità del coagulo dopo 10 minuti (A10) è maggiore di 8 mm all’ammissione in ospedale, il rischio di necessità di trasfusione massiva è abbastanza basso, pertanto dovrebbe essere evitato un trattamento proemostatico precoce e aggressivo; al contrario, in pazienti con stabilità del coagulo dopo 10 minuti (A10) inferiori a 8 mm o a 4 mm, il rischio di necessità di trasfusione massiva è molto alto: in questi casi il trattamento della coagulopatia dovrebbe essere iniziato precocemente per arrestare l’emorragia il più velocemente possibile (il cosiddetto approccio “Hit hard and early”).

Il secondo fondamentale quesito riguarda l’individuazione delle cause che innescano l’emorragia in un paziente. Anche per risolvere questo quesito è necessario ricorrere ad un approccio interdisciplinare e alla collaborazione tra le diverse figure professionali coinvolte.

Goal-directed therapy e algoritmi di gestione

Per impostare correttamente una goal-directed therapy, i dati relativi alla condizione emostatica del paziente devono essere disponibili il prima possibile. In particolare, i risultati dei test di coagulazione standard (come il tempo di protrombina, il tempo di Quick, l’aPTT e la concentrazione plasmatica del fibrinogeno) sono disponibili dopo circa 30-60 minuti e, a volte, anche oltre. Haas e colleghi dell’University Children’s Hospital di Zurigo hanno realizzato uno studio osservazionale confrontando il tromboelastometro e i test di coagulazione standard al fine di diagnosticare precocemente i disordini della coagulazione intra-operatori nella chirurgia pediatrica maggiore. In questo studio i risultati dei test di coagulazione standard sono stati ottenuti dopo una mediana di 53 minuti [inter-quartile range (IQR): 45-63 min], mentre i risultati dei valori ROTEM® 10 min erano già disponibili dopo 23 minuti (IQR: 21-24 min) [12].

Utilizzando un rapporto FFP:PRBC di 1:1, è necessario molto tempo per riuscire a recuperare la condizione di coagulopatia di un paziente: come dimostrato in uno studio di Gonzalez e colleghi, sono necessarie in media 14,8 ore per ottenere un valore di INR <1,5. In questo studio, l’arrivo dei pazienti nell’Unità di terapia intensiva (UTI) avveniva dopo circa 6,8 (± 0,3) ore dall’ammissione in ospedale e la coagulopatia, presente all’ammissione in ospedale (INR: 1,8 ± 0,2) persisteva anche in UTI (INR: 1,6 ± 0,1). Durante la rianimazione in UTI il valore medio di INR diminuiva fino a 1,4 ± 0,03 in 8 ore, facendo registrare quindi una moderata coagulopatia. Il rapporto FFP:PRBC era di 1:1. L’analisi statistica evidenziava come la gravità della coagulopatia (INR) al momento dell’arrivo in UTI fosse associata alla sopravvivenza (p = 0,02). In base a questi risultati, Gonzalez e colleghi affermavano che sarebbe stato meglio affrontare in modo più aggressivo la coagulopatia nella fase di trattamento pre-UTI [13]. Nonostante ciò, considerando la mia esperienza, penso sia preferibile porsi come obiettivo una terapia più efficace, e non più aggressiva, in quanto una terapia aggressiva può comportare il rischio di una maggiore incidenza di eventi tromboembolici, che devono invece essere evitati.

Dall’altra parte, la trasfusione precoce e aggressiva di emocomponenti aumenta il rischio di eventi avversi associati a trasfusione, così come dimostrato in uno studio prospettico risk-adjusted su pazienti traumatizzati. In questo studio, i pazienti sottoposti a trasfusione hanno fatto registrare una prognosi peggiore, con un marcato aumento nell’incidenza di infezioni nosocomiali (34% vs 9,4%), la necessità di più giorni di ventilazione (12,9 vs 6,3), di ospedalizzazione (18,6 vs 9) e di ricovero in UTI e una mortalità più elevata (21,4% vs 6,5%) [14].

In molti Trauma Center statunitensi si utilizza plasma ABO-compatibile anziché ABO-identico, per poter iniziare precocemente la trasfusione di FFP. Tale scelta rimane un argomento di discussione molto importante. Uno studio retrospettivo pubblicato da John Holcomb ha messo in evidenza come l’esposizione a plasma ABO-compatibile anziché ABO-identico abbia dato luogo a un aumento nelle complicazioni totali (53,5% vs 40,5%%, P=0,002), in particolare sindrome da distress respiratorio (ARDS) (19,4% vs 9,2%, P=0.0011) e sepsi (38,0% vs 28,9%, P=0,02). Inoltre è stato evidenziato un aumento dose-dipendente del tasso di complicazioni in relazione all’aumento dell’esposizione, raggiungendo il 70% per quei pazienti che hanno ricevuto più di 6 unità (con l’incremento di ARDS di 4 volte) [15].

Un gruppo di ricerca scandinavo del Karolinska University Hospital di Stoccolma ha ottenuto risultati simili: considerando più di 86.000 pazienti, la trasfusione di 5 o più unità di plasma ABO-compatibile non ABO-identico è stata associata ad un aumento della mortalità del 15% rispetto ai pazienti che avevano ricevuto plasma ABO-identico [16].

In base ai risultati appena descritti, la scelta di iniziare la trasfusione con plasma ABO-compatibile non ABO-identico non sembra rappresentare l’opzione ottimale. A mio parere, possono essere raggiunti risultati migliori con la determinazione del gruppo sanguigno e la trasfusione di plasma ABO-identico.

Non solo RBC ma anche FFP e piastrine hanno un effetto dose-dipendente sulla morbilità dei pazienti traumatizzati. In particolare, è stato dimostrato che FFP e piastrine sono associate allo sviluppo di danno polmonare acuto (Acute Lung Injury, ALI) in pazienti critici. In questo caso, il rischio è maggiore a seguito di trasfusioni con emocomponenti ricchi di plasma, come FFP, e piastrine, piuttosto che con trasfusioni di RBC [17].

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Figura 2. Gestione della coagulopatia: modello piramidale

Negli ultimi 12-13 anni, la terapia dei pazienti con emorragia critica è stata impostata secondo un modello piramidale (Figura 2) che inizia con il tentativo di arresto dell’emorragia a livello chirurgico (es. bendaggi, MAST), per considerare in seguito le condizioni cliniche basali (temperatura > 34°C, pH > 7,2; calcio ionizzato > 1 mmol/l; emoglobina > 8 g/l) e una potenziale terapia antipiastrinica o anticoagulante. Quindi vengono valutati l’iperfibrinolisi e il fibrinogeno, come substrato del sistema coagulativo: se viene riscontrato un basso livello di fibrinogeno o disordini della polimerizzazione della fibrina, si considera come opzione terapeutica la somministrazione di concentrato di fibrinogeno o crioprecipitati. Se si riscontra inoltre la necessità di una maggiore generazione di trombina, si ricorre all’utilizzo di concentrato di complesso protrombinico (PCC) o FFP. Il passo successivo si focalizza quindi sulla bassa conta piastrinica e al vertice della piramide si trova il possibile ricorso ad una terapia di salvataggio con alcuni specifici concentrati di fattori della coagulazione, come FVIII, FXIII e rFVIIa.

Basandoci su questa piramide e sulla diagnostica ROTEM®, abbiamo implementato un algoritmo per la gestione della coagulazione con Point-Of-Care nei pazienti con trauma grave che può essere utilizzato anche nei casi di emorragia post-partum [18].

Il primo interrogativo di questo algoritmo riguarda l’effettiva necessità di intervento in un paziente con emorragia: questo è un quesito clinico che si impone per evitare trasfusioni inutili e l’aumento di morbilità e mortalità associate alle trasfusioni. Come evidenziato in precedenza, prima di ricorrere ad una terapia di salvataggio si hanno a disposizione, nella pratica clinica, molte opzioni terapeutiche: ad esempio la somministrazione di acido tranexamico, fibrinogeno, piastrine o PCC.

Di seguito vengono riportati alcuni casi clinici che consentono di presentare i principi dell’algoritmo basato sul ROTEM® per la goal-directed therapy.

Nel primo caso, rappresentato in Figura 3, il problema principale consiste in un deficit di fibrinogeno, diagnosticato dal valore di MCF (Maximum clot firmness) di 4 mm nel FIBTEM test. In questa situazione il valore target è di 10-12 mm. Per somministrare concentrato di fibrinogeno, si può calcolare il dosaggio basandosi sul target dell’aumento in MCF. Se il target dell’aumento in MCFFIB è di 8 mm, è necessaria una dose di 50 mg/kg di concentrato di fibrinogeno: pertanto, in un paziente del peso di 80 kg, la dose necessaria di fibrinogeno è 4 g. Per ottenere lo stesso effetto utilizzando FFP, sono necessari circa 3 litri di plasma, che possono causare la diluizione di RBC e l’abbassamento dei livelli di emoglobina, con conseguente aumento del rischio di eventi avversi associati alla trasfusione e sovraccarico circolatorio associato alla trasfusione.

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Figura 3. Caso clinico: deficit di fibrinogeno

Peso corporeo (kg)

Fibrinogeno (g)

Target dell’aumento in MCF (A10) in FIBTEM

4 mm

8 mm

12 mm

16 mm

20

0,5

1

1,5

2

40

1

2

4

4

60

1,5

3

4,5

6

80

2

4

6

8

Tabella I. Dosaggi di fibrinogeno utilizzati nello studio di Görlinger et al. [19]

Utilizzando questo algoritmo di gestione basato sul ROTEM® per la goal-directed therapy, diagnosi e terapia possono essere messe in atto in un breve lasso di tempo: in circa 30 minuti è possibile diagnosticare la coagulopatia, effettuare la terapia appropriata e controllare l’efficacia dell’intervento terapeutico. Questo lasso di tempo è decisamente breve, anche considerando che rappresenta circa la metà del tempo necessario per ottenere i risultati dei test di laboratorio standard. Inoltre, con questo approccio la terapia coagulativa può essere completamente separata dalla terapia di reintegro dei volumi, e in alcuni casi questo può costituire un vantaggio.

In Tabella I si riportano i dati relativi all’utilizzo di concentrato di fibrinogeno nella nostra esperienza; tali dati possono essere utili per calcolare adeguatamente la dose necessaria di concentrato di fibrinogeno (Tabella I) [19].

Il secondo caso, rappresentato in Figura 4, riguarda una situazione in cui la stabilità del coagulo è nell’area target, ma si registra nell’EXTEM test un prolungamento del tempo di coagulazione, evidenziando quindi un problema nella generazione di trombina. In questo caso, può essere somministrato PCC per riportare il tempo di coagulazione del paziente tra 60 e 80 secondi. Il tempo necessario per ottenere le informazioni richieste è, anche in questo caso, molto breve (circa 2-3 minuti) ed è possibile controllare l’efficacia della terapia nell’arco di 20 minuti.

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Figura 4. Caso clinico: goal-directed therapy con PCC

In base a questo algoritmo, la generazione di trombina viene aumentata solo se l’emorragia continua e il tempo di coagulazione in EXTEM è ancora prolungato (> 80 secondi) dopo la normalizzazione della stabilità del coagulo (A10/MCF in EXTEM e FIBTEM). Questo approccio è piuttosto restrittivo per quanto riguarda l’aumento della generazione di trombina, e ciò potrebbe influenzare positivamente l’incidenza di eventi tromboembolici, che risulta bassa nella popolazione di pazienti in studio [19].

Variabili

Chirurgia viscerale e trapianto di fegato

Trauma grave e post-partum

Chirurgia cardiovascolare

Red blood cells (RBC)

-62%

-33%

-8,4%

Fresh Frozen Plasma (FFP)

-95%

-79%

-98%

Piastrine

-66%

-65%

+115%

Casi

+66% (LTX)

+ 16%

+32%

Trasfusioni massive

-66%

-58%

Tabella II. Risultati ottenuti a seguito dell’applicazione nella pratica clinica degli algoritmi ROTEM

Il gruppo di lavoro di Essen ha implementato tre algoritmi di gestione per tre diversi ambiti: la chirurgia viscerale e il trapianto di fegato, il trauma grave e il post-partum, la chirurgia cardiovascolare.

In Tabella II si riportano i dati relativi all’impatto sulle trasfusioni e sul consumo di emocomponenti dell’applicazione di questi algoritmi nella pratica clinica, evidenziando l’importate obiettivo della riduzione del numero di trasfusioni massive praticate: ad esempio, nella realtà dell’University Hospital di Essen, sono state evitate circa 2/3 delle trasfusioni massive. Nella gestione dell’emorragia critica è infatti fondamentale non tanto effettuare trasfusioni massive, quanto piuttosto prevenirle. Pertanto, arrestare l’emorragia prima che diventi necessario ricorrere a una trasfusione massiva dovrebbe essere l’obiettivo. Inoltre, l’utilizzo mirato e calcolato di specifici concentrati di fattori della coagulazione, come fibrinogeno e PCC, risulta associato a una riduzione delle richieste trasfusionali di FFP del 90% e, in conclusione, comporta un risparmio anche economico per l’ospedale.

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Figura 5. Trasfusione di piastrine e globuli rossi (RBC) in pronto soccorso e durante l’intervento chirurgico. Modificato da [20]

* Trasfusione con concentrato di piastrine riportato solo per 371 pazienti su 601 del Trauma registry della German Society for Trauma Surgery

Herbert Schöchl e il suo gruppo dell’AUVA Trauma Center di Salisburgo hanno ottenuto risultati simili nelle loro ricerche, utilizzando un algoritmo di gestione basato su Point-Of-Care simile a quello presentato finora. In uno studio hanno confrontato una terapia basata su concentrati di fattori della coagulazione e guidata da ROTEM® con la terapia standard basata su FFP. Anche in questo caso, la possibilità di evitare la trasfusione di sangue allogenico è l’elemento che ha fatto la differenza: nel gruppo trattato con FFP, la trasfusione di piastrine è stata evitata solo nel 56% dei pazienti, rispetto a oltre il 90% dei pazienti nel gruppo trattato con concentrato di fattori. Inoltre la trasfusione di RBC è stata evitata solo nel 3% dei pazienti del gruppo FFP, contro circa 1/3 dei pazienti nel gruppo fibrinogeno-PCC. Di conseguenza, gli autori hanno concluso che la terapia emostatica con concentrato di fibrinogeno e PCC guidata da ROTEM® riduce significativamente l’esposizione dei pazienti traumatizzati a emocomponenti allogenici (Figura 5) [20].

Considerando i risultati, gli autori hanno potuto dimostrare che questo approccio sembra essere efficace nel ridurre la mortalità dei pazienti, così come illustrato nella Figura 6 che riporta i dati di mortalità osservati nello studio di Schöchl confrontandoli con alcuni score sviluppati dal German Trauma Register. È opportuno sottolineare che, comunque, questi risultati devono essere confermati da trial randomizzati e prospettici, da condurre in futuro.

In un editoriale a commento dello studio pubblicato da Herbert Schöchl, John Holcomb è giunto alla seguente conclusione: “Sarà bello trasfondere solo quanto necessario, basandosi su dati di I livello, bilanciando infine rischi e benefici con il supporto dei dati, per il bene dei nostri pazienti” [21].

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Figura 6. Mortalità osservata nello studio di Schöchl: confronto con alcuni score del German Trauma Register [20]

Inoltre i risultati degli studi pubblicati da Schöchl sono in linea con due studi realizzati dal nostro gruppo di ricerca non in traumatologia ma in cardiochirurgia. Ovviamente, i risultati di questi studi non possono essere tradotti perfettamente nella gestione dei pazienti traumatologici, ma supportano la goal-directed therapy con concentrato di fibrinogeno e PPC guidata dal ROTEM® nell’emorragia critica.

In uno studio retrospettivo di coorte su 3.865 pazienti, abbiamo analizzato l’incidenza di emotrasfusioni allogeniche intra-operatorie prima e dopo l’implementazione di un algoritmo. A seguito dell’implementazione di un algoritmo, l’incidenza totale di emotrasfusioni allogeniche (52,5 vs. 42,2%; P < 0,0001), di RBC (49,7 vs. 40,4%; P < 0,0001) e FFP (19,4 vs. 1,1%; P < 0,0001) è significativamente diminuita, mentre le trasfusioni di piastrine sono diminuite solo lievemente (10,1 vs. 13,0%; P = 0,0041). L’incidenza di somministrazione di concentrato di fibrinogeno (3,73 vs. 10,01%; P < 0,0001) e di PCC (4,42 vs. 8,9%; P < 0,0001) è invece aumentata. E, anche in questo caso, l’incidenza di trasfusione massiva, nuovo ricorso alla chirurgia e l’incidenza di eventi tromboembolici sono risultati ridotti del 50% [22].

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Figura 7. Riduzione di trasfusioni massive, re-interventi ed eventi avversi compositi dopo l’implementazione di un algoritmo di gestione Point-Of-Care in chirurgia cardiovascolare [22]

Per confermare questi risultati, abbiamo realizzato un trial prospettico randomizzato, in collaborazione con l’University Hospital di Francoforte, conducendo un confronto tra le richieste trasfusionali e i risultati dei pazienti utilizzando un algoritmo Point-Of-Care e un algoritmo non Point-Of-Care. Entrambi gli algoritmi erano basati sulla stessa struttura e si differenziavano solo per l’utilizzo di test Point-Of-Care ROTEM® e Multiplate (whole blood impedance aggregometry) oppure di test di laboratorio standard. Nel trial sono stati inclusi solo pazienti sottoposti a cardiochirurgia complessa e con sanguinamento microvascolare dopo inversione da eparina con protamina. Di conseguenza, questo studio è stato condotto su una popolazione di pazienti molto selezionata, con incidenza di sanguinamento pari al 100%.

L’outcome primario era la riduzione di trasfusioni di RBC richieste. In caso di valore di p < 0,01, lo studio doveva essere interrotto. I risultati dell’analisi ad interim sono stati i seguenti: PRBC 5 (4/9) vs. 3 (2/6) unità, (p < 0.001); FFP 5 (3/8) vs. 0 (0/3), p < 0,001; concentrato di piastrine 2 (0/5) vs. 2 (0/2), (p = 0,010); rFVIIa 0 (0/0) vs. 0 (0/0), (p = 0,001).

In particolare, l’incidenza di trasfusione massiva è diminuita dal 16% al 2% e la necessità di una terapia di salvataggio con rFVIIa è scesa significativamente dal 24% al 2%, mentre l’incidenza di eventi avversi compositi si è ridotta dal 38% all’8% e la mortalità a 6 mesi è stata significativamente più bassa nel gruppo Point-Of-Care(4 vs. 20%) [23]. Il nostro prossimo obiettivo è replicare questi risultati in uno studio multicentrico, in modo da validare ulteriormente le nostre conclusioni.

Conclusione

In conclusione, il principale obiettivo della gestione dell’emorragia è arrestare l’emorragia il prima possibile, non sottovalutando, allo stesso tempo, l’importanza della prevenzione degli eventi tromboembolici, in modo tale da ridurre i requisiti trasfusionali e gli eventi avversi correlati alla trasfusione. Ovviamente, il risultato finale da perseguire è la salvaguardia della vita del paziente con, laddove sia possibile, una riduzione dei costi per l’ospedale.

Bibliografia

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