La valutazione della disabilità ai fini del riconoscimento dell’indennità di accompagnamento nel soggetto ultra-sessantasettenne

Sergio Alessandrini 1

1 Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni, Dirigente medico legale 1° livello, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS)

Abstract

Older people, the fastest growing part of population, are at the highest risk of acquired disability or cognitive decline and, as a consequence, their claim to receive support services, among which the Attendance Allowance for permanent personal assistance, is increasing. This benefit was introduced in the Italian Civil Incapacity system with the law 18/1980 and some relevant innovations were added with the Law 508/1988 and the Decree 509/1988. From a medico-legal point of view, these regulations, define on the one hand the necessary requirements to get a pension (non-contributory), that is physical and or mental disease determining the incapacity for work and, for infra-18 and over-65-year olds, require the “persistent difficulties” to carry out the “tasks and activities” proper to their age. On the other hand, the Law n. 508/1988 identifies also the necessary conditions to get the Attendance Allowance, for those who are unable to get around and/or are unable to carry out daily life activities without the permanent help of a caregiver.

Therefore, these regulations specifically provide, first of all, the recognition of the highest level of severity of the “persistent difficulties” concerning the “tasks” and “activities” of the over 65s (prerequisites) and then the judgment for the Attendance Allowance. However, there are considerable difficulties with the assessment of this kind of disability. In fact, we have specific references about incapacity for work indicating the evaluation path and the guide for the rating of permanent impairment (Ministerial Decree 5 February 1992), but there aren’t specific normative and assessment indications about the ability to perform “tasks and activities” in over-65-year-olds (age requirement has become over 67s since January 2019) which allows the risk of a wide evaluating discretion.

Italian institutions, like Ministry of Health or INPS (Italian Institute of Social Security) and others officially involved, have attempted to explain and clarify the above-mentioned rating process, but with unsatisfactory results and in some cases even with regressive ones, producing real distortions and interpretative stretches. The author, therefore, after presenting the medico-legal issues for the evaluation of older adults’ disability based on the current regulations, also criticizes the widely found practice of using an atypical, not multidisciplinary, comprehensive geriatric assessment made only for this purpose and elaborate by a single specialist. In fact, the results of a geriatric assessment, like any other Health Certification, is useful to complete the medical history of the subject alleging disability and, therefore, it must be validated by a proper and extensive medico-legal evaluation.

Keywords: Disability in older adults; Attendance allowance; Civil incapacity; Comprehensive geriatric assessment; Medico-legal evaluation

Evaluation of disability for permanent attendance allowance in adults more of 67 years old

Pratica Medica & Aspetti Legali 2019; 13(1): 23-36

https://doi.org/10.7175/pmeal.v13i1.1431

Corresponding author

Sergio Alessandrini

ser_aless@yahoo.it


Le opinioni e le dichiarazioni contenute in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’Autore e non costituiscono la posizione ufficiale né dell’INPS né di alcun altra istituzione, agenzia o amministrazione statale e non statale. L’Autore dichiara di non avere conflitti di interesse in merito agli argomenti trattati nel presente articolo.


Ricevuto: 6 aprile 2019

Accettato: 16 luglio 2019

Pubblicato: 29 luglio 2019

Introduzione

Il tema centrale del presente lavoro si inserisce nel dibattito sull’assistenza ai soggetti non autosufficienti nel nostro Paese. Per prima cosa è necessario definire il termine disabilità, in quanto ancora oggi non esiste una definizione univoca. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, le persone con disabilità sono quelle che «presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» [1]. Si tratta di una definizione che presenta strette analogie con i concetti base dell’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF) [2], lo standard internazionale dell’OMS per misurare e classificare salute e disabilità secondo un modello bio-psico-sociale. Questa definizione costituisce il «generale riferimento per far convergere le diverse definizioni in uso nel sistema di welfare italiano» [3]. Dalla definizione suddetta, si possono estrapolare le tre componenti concettuali che identificano la disabilità:

  1. menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali a carattere duraturo;
  2. piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri;
  3. interazione con barriere di diversa natura.

Sono necessarie alcune brevi premesse di carattere demografico e geriatrico che permettano di inquadrare meglio il problema della disabilità nei riguardi degli adulti anziani. In tutti i paesi industrializzati, com’è noto, si è verificato un progressivo e accentuato invecchiamento della popolazione. Anche in Italia l’aspettativa di vita media alla nascita è costantemente aumentata: i dati ISTAT più recenti (2018) dimostrano che ha raggiunto per gli uomini gli 80,8 anni (+0,2 sul 2017), mentre per le donne gli 85,2 anni (+0,3). Questa tendenza al progredire della sopravvivenza delle generazioni nel tempo fa aumentare la popolazione di anziani, sia in termini assoluti che relativi. Al 1° gennaio 2019 gli individui con 65 anni e oltre sono 13,8 milioni e rappresentano il 22,8% della popolazione totale (erano il 20,3% nel 2009 e il 17,8% nel 1999). Soprattutto i “grandi vecchi” – soggetti di età pari o superiore agli 85 anni – hanno raggiunto la notevole cifra di circa 2,2 milioni (3,6% del totale). Si stima, inoltre, che in Italia vivano oltre 14mila ultracentenari, record europeo detenuto assieme ai francesi. L’Italia, inoltre, continua ad avere stabilmente uno dei più bassi indici di natalità (il numero medio di figli per donna è stimato a 1,32) e una delle più alte percentuali di ultra-65enni del mondo (previsione del 34% nel 2050). In conseguenza di ciò, i residenti hanno oggi in media 45,4 anni, circa 2 in più rispetto a dieci anni prima; il rapporto tra vecchie e giovani generazioni raggiunge il 172,9% contro il 144,1% del 2009 e il 124% del 1999 [4].

Questo bilancio negativo della dinamica naturale (nascite-decessi) determina, anche nell’ultimo anno, un’ulteriore lieve flessione della popolazione totale residente, calo che interessa il nostro Paese negli ultimi quattro anni. Tutto ciò nonostante il nostro sia divenuto da tempo un paese d’immigrazione, con una popolazione residente che aveva già superato i 60 milioni nel 2009.

Com’è naturale, questa popolazione di anziani è soggetta ad un gran numero di malattie croniche e degenerative, con il risultato quindi di una vita più lunga ma vissuta in condizioni di malattia e disabilità. Si parla di omeostenosi quando «la riduzione delle riserve funzionali di organi e sistemi compromette le capacità omeostatiche dell’anziano aumentandone la suscettibilità a diverse patologie e alle sindromi geriatriche» [5]. Con l’età aumenta l’incidenza di gravi patologie, quali tumori, malattie cerebro-vascolari e sindromi demenziali e altre condizioni croniche che portano alla disabilità (ad es. artrosi, osteoporosi, perdita della vista e dell’udito). La presenza di deficit sensoriali, comuni in buona parte dei soggetti ultra75enni, oltre a poter essere di per sé invalidante, aumenta il rischio di cadute, spesso con gravi conseguenze (ad es. fratture di femore).

L’aspetto comune del processo di invecchiamento “fisiologico” è il declino graduale e progressivo della riserva funzionale di ciascun organo o sistema. Basti pensare alle rimarchevoli differenze nelle condizioni di funzionalità (e quindi di autonomia) esistenti nelle varie fasce d’età in cui i gerontologi dividono la popolazione anziana: “young old” fra 65 e 75 anni, “old old” tra 75 e 85 anni e “oldest old” oltre 85 anni, età in cui si concentra la maggior parte dei problemi di disabilità. Vi sono, comunque, notevoli differenze nelle condizioni di salute tra gli individui appartenenti alla stessa classe di età e allo stesso sesso, essendo il processo di invecchiamento altamente individualizzato, in funzione di fattori biologici (prevalentemente genetici), dell’ambiente, dello stile di vita, della posizione sociale ed economica. In riferimento alle capacità funzionali possiamo avere un invecchiamento usuale o normale e un invecchiamento definito “di successo”. Alcuni anziani, infatti, invecchiano senza sviluppare malattie rilevanti, mantenendosi in invidiabili condizioni generali (“successful aging”) tanto che il 28% dei nordamericani over 85 riferisce uno stato di salute eccellente o molto buono [6]. Altri, meno fortunati, presentano invece molteplici patologie che sono causa di un più rapido esaurimento delle riserve funzionali e, perciò, risultano estremamente labili nei confronti degli eventi patogeni e a rischio di ulteriore perdita di autosufficienza (anziani “frail” o fragili) [7]. Il concetto che discende da queste osservazioni è la notevole eterogeneità della popolazione anziana. Le malattie croniche e la comorbilità hanno come principale conseguenza la riduzione del grado di autonomia e di indipendenza e provocano la necessità di ricorrere a forme di assistenza a lungo termine. Le statistiche riportano che circa la metà della popolazione dopo gli 80 anni di età non ha più l’autonomia funzionale [8]. Tuttavia ci sono importanti differenze di genere. In base ai citati dati ISTAT, nella popolazione italiana fino all’età di 39 anni circa, il numero degli uomini sopravanza di poco quello delle donne. Poi dai 40 anni e oltre il rapporto progressivamente si inverte e fa sì che la speranza di vita residua a 65 anni dei maschi sia attualmente di 19,3 anni (+0,3 sul 2017), mentre quella delle femmine è di 22,4 anni (+0,2). Ma una vita più lunga non significa necessariamente anche una vita migliore. Infatti la donna va incontro alla disabilità con maggiori probabilità dell’uomo in quanto viene colpita con maggior frequenza da malattie croniche invalidanti [9]. La differenza nella speranza di vita determina così che l’uomo viva la sua vecchiaia in coppia, mentre la donna anziana l’affronta frequentemente da vedova. Di conseguenza, la stragrande maggioranza degli anziani che vivono soli o con altre persone non appartenenti al proprio nucleo familiare è costituita dalle donne [10].

Tanto premesso, appare scontato anche il progressivo aumento del costo complessivo delle prestazioni di assistenza sociale sostenuto dallo Stato che si osserva a favore della quota di popolazione più anziana. In particolare, negli ultimi anni assistiamo ad un consistente aumento della spesa statale per le indennità di accompagnamento (I.A.) agli invalidi civili, una prestazione che è erogata indipendentemente dal livello di reddito del beneficiario [11]. Gli ultimi dati disponibili (2017) indicano una spesa complessiva per gli invalidi civili di 17.798 milioni di euro, di cui l’indennità di accompagnamento rappresenta oltre il 77%, pari a 13,8 milioni, stabile rispetto all’anno precedente [12]. Per la sola I.A., oltre la metà (51,3%) delle prestazioni è destinata ai cittadini invalidi di età superiore agli 80 anni, mentre le restanti risultano distribuite tra le altre fasce di età. Degno di nota il fatto che il 70,5% dei beneficiari appartengano alla fascia degli ultra-65enni e che le donne risultino i tre quarti del totale [13].

La normativa vigente per il riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento ai soggetti ultra-65enni

Nell’ambito dell’invalidità civile (I.C.) – la cui principale fonte normativa di riferimento è la legge 118/71 – l’indennità di accompagnamento è stata introdotta con la legge 11 febbraio 1980, n. 18 [14]]. Tuttavia fanno esplicito riferimento ai soggetti ultra-65enni solo alcune disposizioni successive (Tabella I). In particolare la L. 21 novembre 1988, n. 508 all’art. 1 c. 3 prevede che «tale indennità è concessa anche ai minorati nei cui confronti l’accertamento delle prescritte condizioni sanitarie sia intervenuto a seguito di istanza presentata dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età» [15]. Il Decreto Lgs. 23 novembre 1988 n. 509 all’art. 6 stabilisce che «ai soli fini dell’assistenza socio-sanitaria e della concessione dell’indennità di accompagnamento, si considerano mutilati ed invalidi civili i soggetti ultrasessantacinquenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età» [16].

Difficoltà lievi

Difficoltà medio-gravi

Difficoltà gravi

Non autosufficienza

Invalidità comprese tra il 33,3% ed il 66,6% ai fini della fruizione della assistenza protesica

Invalidità comprese tra il 66,6% ed il 99%, ai fini della esenzione dalla partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie

Invalidità pari al 100%, ai fini della esenzione dal pagamento della quota fissa sulla ricetta

Diritto all’indennità di accompagnamento

Tabella 1. Invalidi civili ultra-65enni (ultra-67enni dal 1° gennaio 2019): livelli di gravità delle difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni propri della loro età (D.Lgs 124/98, art 5; L. 508/88 - art 1, c. 2-b).

Pertanto, cercando di riassumere, le norme vigenti stabiliscono per riconoscere il diritto alla I.A.:

  1. i requisiti biologici, cioè le «affezioni fisiche e/o psichiche» determinanti per i soggetti 18-64enni la «totale inabilità» lavorativa (art. 1., c. 2 della L. 508/1988) ovvero, per gli infra-18enni e gli ultra-65enni le «difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età» (rispettivamente art. 2 Legge 118/71 e art. 6 Decreto legislativo n. 509/1988);
  2. le conseguenze si identificano nella «impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore» oppure nella necessità di «un’assistenza continua […] non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita» (legge 18/1980 e legge n. 508/1988).

Tali definizioni solo apparentemente risultano di facile interpretazione e applicazione. Non a caso, allo scopo di dirimere e chiarire la materia, come vedremo, sono intervenute successivamente circolari e note ministeriali esplicative e, più o meno contemporaneamente, ulteriori modificazioni legislative. Si accennerà solo brevemente alle prevalenti interpretazioni giurisprudenziali che, per la loro complessità e numerosità, necessitano di una trattazione separata, che esula dallo scopo della presente trattazione.

Il soggetto ultra-65enne (rectius ultra-67enne): valutazione delle difficoltà persistenti a svolgere “compiti” e “funzioni” proprie della loro età

Attualmente sono da considerare “ultrasessantacinquenni” i soggetti che abbiano compiuto i 67 anni d’età. Infatti, a causa di intervenute modifiche normative, il requisito dell’età è stato progressivamente innalzato e dal 1° gennaio 2019 è divenuto pari a 67 anni, rispetto ai 66 anni e 7 mesi previsti per il 2018. Di conseguenza anche la pensione d’inabilità civile e l’assegno mensile di assistenza agli invalidi parziali (artt. 12 e 13 legge n. 118/1971) [17], nonché la pensione non reversibile ai sordi (legge n. 381/1970) [18], saranno concesse ai soggetti dai 18 anni d’età e fino al compimento del sessantasettesimo anno [19].

Per quanto riguarda specificatamente gli “ultra-65enni” (rectius ultra-67enni), ai fini del riconoscimento della I.A., la normativa introdotta nel 1988 sostituisce il prerequisito dell’inabilità lavorativa con la valutazione delle “difficoltà persistenti” – si noti senza quantizzarle – a svolgere “compiti” e “funzioni” (sostanzialmente dei sinonimi già utilizzati nella definizione di “minore invalido” ex art. 2 legge 118/71) proprie della loro età. In effetti, trattandosi di soggetti non più in età di lavoro, se da un lato appare adeguato il riferimento ai “compiti” e alle “funzioni” proprie della loro età in luogo della capacità lavorativa, dall’altro, a causa dell’assoluta genericità della formula definitoria, sono stati introdotti evidenti elementi di incertezza e notevoli difficoltà di apprezzamento. Infatti per la “totale inabilità” dei soggetti 18-64enni vi sono precisi riferimenti che indicano non solo il tipo di danno (incapacità lavorativa generica o semispecifica) ma anche il percorso valutativo e la quantificazione tabellare (D.Lgs n. 509/1988 e D.M. Sanità 5 febbraio 1992), mentre per i “compiti” e le “funzioni” proprie dell’ultra-65enne non vi sono state ulteriori specificazioni normative che le definiscano, né è stata fornita alcuna indicazione sulle modalità di quantificazione delle “difficoltà persistenti” [20].

La mancata specificazione di “compiti” e “funzioni” è complicata anche dal fatto che nell’ambito delle stesse classi d’età vi sono situazioni completamente differenti, essendo quella degli ultra-65enni una classe di popolazione nient’affatto omogenea non solo rispetto alle condizioni di salute e di autonomia. Si pensi all’importanza di fattori altamente individuali, condizionati anche dallo status economico e dal livello culturale, quali la partecipazione e l’integrazione sociale, le attività svolte nel tempo libero, la dimestichezza con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Tutti questi interessi e attività, oltre a determinare la qualità della vita, sono variabili che si differenziano fortemente da individuo a individuo, rendendo aleatorio il riferimento generico a “compiti e funzioni” dell’ultra-65enne, una categoria altamente eterogenea, dunque, accomunata unicamente dal requisito dell’età.

Successivamente è intervenuto il D.Lgs 29 aprile 1998, n. 124 che prevede all’art. 5 c.7: «Ai soli fini dell’assistenza sanitaria, la percentuale di invalidità dei soggetti ultrasessantacinquenni è determinata in base alla presenza di difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età» [21]. Tale norma, dunque, introduce l’obbligo di valutare gli ultra-65enni in termini percentualistici. In effetti la mancata percentualizzazione delle difficoltà persistenti aveva creato non pochi ostacoli ai fini dell’assistenza sanitaria dell’ultra-65enne invalido (fornitura di protesi o di ausili, esenzioni, etc.) in un sistema dove tutte le prestazioni sono graduate in funzione della percentuale di invalidità assegnata. Tuttavia è stato prescritto di percentualizzare, dunque di quantificare, le difficoltà persistenti senza fornire alcun criterio e nonostante l’indeterminatezza dei relativi assunti normativi, che non erano stati ancora risolti nemmeno dopo la pubblicazione del D.M. 5 febbraio 1992, cioè delle tabelle, tuttora in vigore, per la valutazione della invalidità civile [22]]. Appunto per cercare di risolvere i problemi applicativi, nel luglio 1998 fu emanata una nota del Ministero della Sanità allo scopo di risolvere e «semplificare il lavoro delle commissioni di accertamento» [23]. In sostanza questa disposizione ministeriale, tuttora in vigore, introduce un criterio valutativo in termini percentuali e individua tre classi di difficoltà persistenti (rispettivamente la “lieve”, la “medio-grave” e la “grave”) a cui attribuisce un corrispondente valore percentuale che «sintetizzi le conseguenze della menomazione sull’estrinsecarsi delle attività attese e consuete». La suddetta nota ministeriale, però, oltre ad immettere una nuova, pleonastica, formulazione dei “compiti e delle funzioni” che definisce “attività attese e consuete”, in relazione alle quali devono essere valutate percentualisticamente le difficoltà persistenti, lascia comunque insoluto il problema definitorio e i dubbi interpretativi e applicativi. Infatti taluni Autori hanno visto nelle istruzioni ministeriali una vera e propria forzatura interpretativa, perché ai fini della quantificazione delle “difficoltà” il criterio proposto finirebbe per confondere il danno lavorativo, di cui alle percentuali della tabella di legge basate sull’incapacità lavorativa, con i compiti e le funzioni proprie dell’età [24]. In realtà ciò contrasta col fatto che lo stesso Ministero in precedenza avesse fatto riferimento al “danno funzionale e anatomico” per la valutazione nella I.C. non ammettendo il criterio di percentualizzazione di cui alle tabelle di legge applicabile «per i soggetti fuori dell’arco della vita lavorativa» [25]. Quindi l’interpretazione prevalente ha giustificato la prassi valutativa che ha finito per identificare, anche se in modo estensivo, i compiti e le funzioni proprie dell’età con “gli atti quotidiani della vita” [26]. Questa impostazione ha avuto almeno un pregio: quello di rendere omogeneo il parametro valutativo richiesto per l’ultra65enne, dalle difficoltà lievi sino a quelle gravi, superate le quali, al di fuori dei casi ascrivibili all’incapacità deambulatoria, si possono configurare gli estremi per la concessione della I.A. per l’incapacità di compiere autonomamente gli stessi atti quotidiani. Appare evidente però che gli atti quotidiani della vita, comuni a tutti, essendo attività di base, rientrano nei compiti e funzioni ma non possono essere considerati quali sinonimi. Tuttavia in sede valutativa non si può prescindere dal riferimento al “danno funzionale permanente” – di cui all’art.1, 1°capoverso, del D. Lgs. 509/1988 – valente per tutto il sistema dell’invalidità civile. Pertanto autorevole dottrina aveva già proposto di seguire per la quantificazione delle difficoltà persistenti l’indicazione valutativa dei deficit funzionali contenuta nella seconda parte delle stesse tabelle dell’invalidità civile, allegate al D.M. 5 febbraio 1992, dove sono riportati per quasi tutti gli apparati almeno quattro livelli di gravità del deficit funzionale, corrispondenti alle aggettivazioni lieve, medio, grave, gravissimo [27]. Sono semplici indicazioni ma propongono un chiaro metodo valutativo. Sarebbe così possibile correlare i tre diversi livelli (lievi, medio-gravi e gravi) di difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età con il livello di disfunzionalità osservato comparandolo con le indicazioni per la valutazione dei deficit funzionali. Appare evidente infatti che patologie che determinino deficit funzionali compresi in IV classe o stadio, secondo l’indicazione contenuta nella seconda parte delle tabelle, impediscono lo svolgimento dell’attività fisica ordinaria e pertanto non possono consentire nemmeno lo svolgimento degli atti quotidiani in modo autonomo [28].

La valutazione della disabilità ai fini dell’indennità di accompagnamento

Le indicazioni ministeriali

Alla indeterminatezza normativa del parametro di valutazione degli ultra-65enni (ora ultra-67enni) si associa anche la genericità dei requisiti previsti per riconoscere l’I.A. agli invalidi civili. Se la stima dell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore può essere effettuata senza grandi difficoltà, ben diverso appare il problema della valutazione della necessità di assistenza continua a compiere gli atti quotidiani della vita.

In altri settori di tutela (infortunistico e pensionistica privilegiata) il Legislatore ha scelto più opportunamente di indicare tassativamente le condizioni patologiche che danno diritto ad analogo beneficio (si vedano ad esempio l’elencazione di 32 ipotesi tassative di infermità contenute nella tabella E per l’assegno di “superinvalidità” della L. 656/86 nella pensionistica privilegiata [29]). Non averlo fatto per gli invalidi civili ha comportato che gli organismi tecnici o di controllo istituzionalmente preposti a questo settore del “welfare” (dapprima il Ministero della Sanità assieme al Ministero dell’Interno, poi il Ministero del Tesoro e più recentemente l’INPS) hanno emanato ripetuti tentativi di chiarimento e di interpretazione delle norme, purtroppo con esiti non sempre soddisfacenti.

Il Ministero della Sanità, in una lontana circolare del 1981, puntualizzava che «si trovano nell’impossibilità di deambulare gli invalidi che non deambulano neppure con l’aiuto di presidi ortopedici» e che per “atti quotidiani della vita” si intendono «quelle azioni elementari che espleta quotidianamente un soggetto normale di corrispondente età e che rendono il minorato che non è in grado di compierle, bisognevole di assistenza» [30]. Tale interpretazione era stata giustamente criticata per la sua sostanziale tautologia [31].

Tuttavia se il parametro valutativo richiesto per l’I.A. è quello della non autosufficienza negli atti comuni, nelle azioni elementari del vivere quotidiano, in stretta correlazione all’età del soggetto, si presenta però un’altra questione: quella di stabilire se gli atti quotidiani della vita si esauriscono nella semplice gestione delle esigenze vegetative di base, oppure comprendono anche quegli atti utili e necessari al mantenimento di sia pur minimi rapporti sociali e relazionali.

La risposta l’ha fornita nel 1992 il Ministero del Tesoro [32] – dicastero ormai da tempo integrato nell’attuale Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) ­– a cui furono attribuite le competenze in materia di invalidità civile con la Legge n. 295/1990 [33]. La circolare presentava un articolato molto più estensivo rispetto alla precedente già citata, definendo gli “atti quotidiani della vita” come «un insieme di azioni elementari e anche relativamente più complesse non legate a funzioni lavorative, tese al soddisfacimento di quel minimo di esigenze medie di vita rapportabili ad un individuo normale di età corrispondente, così da consentire, ai soggetti non autosufficienti, condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana». La circolare, oltre a elencare gli atti quotidiani specificava il concetto di assistenza continua: «Laddove l’autonomia nel compiere un complesso significativo ed esistenziale dei suddetti atti quotidiani venga a mancare ed insorga, rispetto ad un soggetto normale di corrispondente età, l’esigenza di assistenza continua per assicurare un minimo di condizioni vitali per l’autosufficienza quotidiana, si concretizza l’impossibilità di compiere autonomamente gli atti di ogni giorno della vita. […] la mancanza deve esercitarsi su un insieme di funzioni e di attività tali che ne risulti alterato ogni rapporto concreto con la realtà quotidiana».

Come si vede, le due circolari ministeriali citate cercavano di chiarire le formule definitorie della I.A., fornendo indicazioni più particolareggiate sugli atti quotidiani della vita, visti come essenziali, necessari alla vita stessa, essendo stati individuati sia atti basilari che, nel contempo, un minimo di attività socio-relazionali, inevitabilmente varianti in funzione dell’età. Il concetto di “incapacità” non può prescindere, in effetti, dal riferimento all’ambiente di vita della persona in esame, in quanto ciò che si è chiamati a valutare è il “globale” funzionamento del soggetto, inteso come «capacità della persona di interagire ed adattarsi alle più diverse circostanze» [34]. L’interpretazione contenuta nella circolare ministeriale del 1992 – che in quanto tale non è vincolante non avendo la stessa forza prescrittiva di una legge – era stata apprezzata anche dalla dottrina medico-legale, in quanto «gli atti quotidiani della vita non si esauriscono nella semplice autogestione delle esigenze vegetative ma giungono ad identificarsi nel mantenimento di una sia pur minima proficua socialità e capacità di rapporti interpersonali» [35]. Questa visione, in effetti, appare coerente tanto con l’evoluzione del diritto alla tutela degli invalidi, iniziata con la legge-quadro n.104 del 1992 e rafforzata nel 2009 dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità [36], che con quella della giurisprudenza in tema di diritto alla tutela del bene-salute.

Le indicazioni dell’INPS

L’INPS attualmente è l’ente maggiormente coinvolto nella gestione della I.C. avendo assorbito le competenze del MEF, attribuitegli con la Legge n. 248/2005 e successivo DPCM attuativo del 30 marzo 2007 [37]. Soprattutto la gestione e il controllo dell’intero processo di accertamento sanitario di invalidità, cecità, sordità, handicap e disabilità (collocamento mirato dei disabili, ex Legge 68/1999) [38] dal gennaio 2010 sono stati assegnati all’Istituto stesso, che pertanto risulta competente dall’acquisizione delle domande, alle verifiche dei requisiti, fino alla concessione ed erogazione dei benefici economici. Anche dopo tale importante modifica legislativa, il primo accertamento medico-legale diretto al riconoscimento dell’invalidità civile e della situazione di handicap e disabilità rimaneva di competenza delle Commissioni mediche delle ASL, composte in base alle leggi previgenti e con l’ulteriore integrazione di un medico dell’INPS quale membro effettivo. Tuttavia l’accertamento definitivo, le revisioni ordinarie e le verifiche straordinarie, sono divenute di competenza dell’INPS ex art. 20 del D.L. n. 78/2009 [39], che da allora opera tramite le proprie Commissioni dei Centri medico-legali, sia per la validazione dei verbali Asl sia per l’effettuazione di visite dirette, e con la propria Commissione medica superiore (CMS) avente funzione di monitoraggio complessivo. L’obiettivo dell’Istituto è stato quello di gestire da subito l’intero processo per via telematica, ai fini della trasparenza e rapidità di tutte le fasi, per garantire su tutto il territorio nazionale omogeneità di trattamento e tempi di erogazione certi (entro 120 giorni dalla presentazione della domanda) [40]. Una successiva innovazione legislativa (Legge n.111/2011 art.18, c. 22) [41] ha autorizzato le Regioni a convenzionarsi con l’INPS per l’accertamento dei requisiti sanitari e per la concessione dei trattamenti di invalidità civile. Perciò attualmente sono presenti sul territorio nazionale due sistemi: quello interamente gestito dall’INPS e quello in cui le Regioni conservano l’accertamento sanitario di prima istanza, demandato alle ASL territorialmente competenti, mentre l’INPS gestisce i successivi aspetti, non solo amministrativi, ma anche sanitari [41].

Pertanto l’INPS, sulla base delle nuove impegnative attribuzioni, ha cercato di uniformare il giudizio medico-legale dei medici facenti parte delle proprie Commissioni di accertamento, fornendo indicazioni relative ai requisiti sanitari anche per la valutazione della I.A., contenute nelle “Linee Guida operative in invalidità civile” elaborate dal Coordinamento Generale Medico-legale INPS. Tale documento, interno, è stato reso pubblico il 25 settembre 2010 sul sito HandyLex.org [42].

Per quanto riguarda la valutazione degli ultra-65enni, l’Istituto in queste prime linee guida non ha fornito particolari specificazioni definitorie per le difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età. A tale proposito, infatti, il documento si limita a riportare quanto segue: «Circa i compiti e le funzioni proprie della età occorre rifarsi al complesso delle attività attese, consuete e lecite tipiche della classe di età in considerazione. Tenuto conto delle minori possibilità di compenso funzionale e di adattamento, sarà opportuno valutare con attenzione le emendabilità delle minorazioni mediante intervento riabilitativo, protesico o chirurgico». Per quanto riguarda il requisito dell’incapacità deambulatoria, le linee guida sottolineano sia che si tratta appunto di “impossibilità” a deambulare e non di semplice difficoltà, sia il carattere di “permanenza” dell’aiuto dell’accompagnatore e non di “saltuarietà”, concetti che implicano la “sussistenza di menomazioni anatomo-funzionali irreversibili e immodificabili da qualsiasi presidio”. In base a ciò, i presidi ortopedici e protesici che rendano il soggetto comunque autonomo nella deambulazione escludono il diritto all’indennità. Pertanto, fin qui nulla di nuovo rispetto alle circolari ministeriali precedenti, già citate.

L’INPS definisce invece gli “atti quotidiani della vita” come un «complesso di attività che assicurano un livello basale di autonomia personale in un ambito per lo più intradomiciliare». Dunque non si prendono in considerazione le attività extradomiciliari, altrimenti questa eventualità «in ambienti complessi come le moderne metropoli, porterebbe, infatti, ad una valutazione talmente estensiva da superare l’ambito medico legale». Si tratta, di fatto, di una interpretazione che restringe gli atti quotidiani da valutare a quelli basilari (vestirsi, lavarsi, continenza...) svolti nel perimetro della propria abitazione. Pertanto vengono escluse le attività socio-relazionali esterne e, di conseguenza, l’interpretazione dell’INPS appare più restrittiva di quella ministeriale precedente, escludendo dal novero delle attività valutabili tutte quelle socio-relazionali extradomiciliari.

Si rileva inoltre una importante precisazione sulla continuità dell’assistenza che deve sussistere nell’arco delle ventiquattro ore: «Si ricorda che il dettato legislativo prevede la necessità di una assistenza continuativa da parte di terzi per il concretizzarsi del requisito medico legale; si intende che la dizione “continuativa” rimanda ad una assistenza che si esplica nell’arco della intera giornata e non solo in saltuari momenti». Inoltre, ai fini del requisito della permanenza, il quadro clinico deve essere stabilizzato.

Il suddetto documento delimita anche il ricorso alle scale di valutazione che indagano l’autonomia personale e le “performance” cognitive. Nel caso delle scale di valutazione prende in considerazione soprattutto le attività basilari e circoscrive in modo consistente le attività c.d. strumentali: «Utile punto di riferimento sono le scale ADL (specialmente nell’indicare le funzioni basali da prendere in considerazione: lavarsi, vestirsi, spostarsi, continenza sfinteriale e autonomia in toilette, alimentazione) e IADL (enfatizzando le funzioni più elementari quali l’assunzione dei farmaci e la preparazione dei pasti) rifuggendo però da schematismi».

L’Istituto indica quali strumenti di maggiore affidabilità solo alcune scale di valutazione quali «l’indice di Barthel o l’indice di Katz utilizzati in ambiente fisiatrico». La posizione sulla valutazione dei decadimenti cognitivi appare diretta ad evitare una meccanica traduzione dei punteggi ottenuti tramite l’MMSE (Mini-Mental State Examination) nei giudizi medico-legali. L’Istituto richiama l’attenzione sulla necessità di porre diagnosi e di stadiare il decadimento cognitivo solo sulla base di esami che possano rendere oggettivo il deficit, come le «indagini neuroradiologiche, batteria di test neuropsicologici standardizzati, PET». I risultati di tali accertamenti, indispensabili per la diagnosi e per stabilire il livello del deficit cognitivo, opportunatamente integrati con le informazioni rese da un familiare o da un operatore, consentono la stadiazione della gravità delle demenze attraverso la Clinical Dementia Rating Scale (CDR) Estesa, come indicato dall’Istituto nelle successive “Linee di indirizzo per la valutazione medico legale delle demenze” [43].

Infine occorre segnalare che l’INPS ha reso consultabile ai propri medici la “tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le menomazioni e le malattie invalidanti” che era stata elaborata per aggiornare quelle attualmente vigenti da un’apposita commissione interministeriale e dall’INPS, ai sensi della legge n. 102/2009 [44]. Come noto, i lavori della commissione si conclusero il 24/11/2011, ma lo schema di decreto con le nuove tabelle non riuscì a superare l’esame della Commissione Affari Sociali della Camera, e da allora l’aggiornamento non è stato più riproposto. Tuttavia l’Istituto ha ridenominato le stesse come “Linee Guida INPS per l’accertamento degli stati invalidanti” e le ha proposte sul sito Intranet della Commissione Medica Superiore [45]. L’Istituto in tal modo ha chiaramente indicato dei criteri di standardizzazione per la valutazione dei deficit funzionali, predisposti per tutti gli apparati e per le patologie più importanti, ivi comprese le malattie neoplastiche, che le Commissioni debbono utilizzare, mentre le percentuali di invalidità indicate dalla nuova tabella non possono avere alcuna ricaduta valutativa.

In conclusione, da questa breve disamina sembra delinearsi il tentativo dell’INPS di prospettare “certezze” ai suoi medici tramite indicazioni metodologiche e riferimenti valutativi aventi il fine dichiarato di uniformare giudizi e valutazioni, in un ambito che invece, come abbiamo detto, presenta non poche incertezze interpretative ed applicative. Tuttavia talune indicazioni, in particolare quelle elaborate a proposito del concetto stesso di atti quotidiani, si pongono in contrasto con affermate linee interpretative sia della dottrina che della giurisprudenza, evenienza che rischia di essere di per sé un possibile incentivo al contenzioso giudiziario.

Orientamenti giurisprudenziali in tema di incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita ai fini dell’indennità di accompagnamento

Parallelamente all’affidamento della gestione e controllo del processo di accertamento sanitario per l’I.C., a decorrere dal 1° luglio 2009 l’INPS è divenuto l’unico legittimato passivo nei ricorsi giudiziari proposti in materia di prestazioni di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità. Ricordiamo, inoltre, che dal 1° gennaio 2012 è stato introdotto nel nostro ordinamento l’art. 445-bis c.p.c. per cui nelle controversie in materia assistenziale e previdenziale deve essere obbligatoriamente esperito l’Accertamento Tecnico Preventivo (ATP) di cui all’art. 696-bis c.p.c., cosicché l’accertamento peritale omologato dal giudice definisce il requisito sanitario del cittadino ricorrente. L’eventuale fase successiva, a seguito di motivato dissenso, si configura come giudizio di merito in un unico grado, essendo stato eliminato il doppio grado di giurisdizione.

Per quanto riguarda la giurisprudenza a proposito dei requisiti per l’I.A. e relative modalità interpretative, spesso difformi e non sempre univoche, la loro complessità e numerosità richiederebbe necessariamente un’esaustiva trattazione separata, che esula dagli scopi di questo articolo. Premesso ciò, nel mare magnum delle sentenze di Cassazione sull’argomento trattato, ci sembra corretto dare riconoscimento ad una linea interpretativa prevalente, che ha importanti implicazioni de iure condendo. Infatti, già a partire dal 2001 la Suprema Corte ha iniziato a delineare in termini giuridici il concetto per il quale, ai fini dell’attribuzione dell’indennità di accompagnamento, la nozione di «incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita» comprende chiunque il quale, pur potendo spostarsi nell’ambito domestico o fuori, non sia per la natura della malattia in grado di provvedere alla propria persona o ai bisogni della vita quotidiana, ossia non possa sopravvivere senza l’aiuto costante del prossimo. La Corte successivamente ha esteso tale previsione anche a coloro i quali «a causa di disturbi psichici, non siano in grado di gestirsi autonomamente per le necessità della vita quotidiana» [46].

Questa interpretazione giurisprudenziale potrebbe ridurre o, secondo alcuni Autori, eliminare i molteplici equivoci interpretativi di cui si è detto. Questo perché la Corte di Cassazione avrebbe superato le interpretazioni letterali, più restrittive e aderenti al dettato della norma. Tale superamento sarebbe avvenuto soprattutto per i criteri medico-legali per l’accertamento dell’incapacità a compiere gli “atti quotidiani della vita” in quanto la Corte avrebbe introdotto un chiaro standard esemplificativo: «sopravvivenza dignitosa senza l’aiuto costante del prossimo» [47].

Appare evidente che l’orientamento giurisprudenziale che afferma il concetto di sopravvivenza per la quale si rende necessario l’aiuto costante del prossimo, ormai risalente ma anche più di recente riaffermato [48], determina importanti implicazioni non solo nel contenzioso giudiziario, ma anche sul piano valutativo.

Tuttavia, non si può fare a meno di osservare che sono comunque presenti indirizzi della Suprema Corte di segno differente, che impongono l’accertamento di requisiti diversi e più rigorosi della semplice difficoltà di deambulazione o di compimento degli atti della vita quotidiana e “configuranti impossibilità” attuale e non meramente ipotetica [49].

La compresenza di indirizzi interpretativi non uniformi, oltre a far venir meno la certezza del diritto e la funzione nomofilattica della giurisprudenza [50], creano ulteriori perplessità e difficoltà in sede applicativa, che non possono più essere risolte se non con opportuni provvedimenti legislativi che adeguino definitivamente le disposizioni di legge in aderenza con le attuali esigenze di tutela dei diritti del disabile e della sua dignità, nonché per rendere effettiva la sua partecipazione ed inclusione nella vita sociale. L’I.A. in relazione ai diritti statuiti nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, già citata, si presenta proprio come un importante strumento per realizzare la de-istitualizzazione del disabile, pietra angolare della Convenzione stessa (art. 19 «Vita indipendente ed inclusione nella società») nell’ambito di quei «servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione».

La valutazione dei requisiti per l’indennità di accompagnamento negli “ultra67enni” e i problemi derivanti dalla valutazione multidimensionale geriatrica

L’incertezza a livello normativo e interpretativo, specie per il concetto riguardante i compiti e le funzioni proprie dell’età, dove nessuna indicazione istituzionale appare essere del tutto soddisfacente, si ripercuote inevitabilmente in ambito applicativo, non solo a livello delle Commissioni ASL e Inps preposte all’accertamento, ma anche nel contenzioso giudiziario, dove peraltro è possibile imbattersi in consulenti d’ufficio non propriamente qualificati.

La valutazione del soggetto anziano è in ogni caso impegnativa, date le sue caratteristiche particolari e complesse. Ciò è dovuto alla frequente presenza di molteplici patologie concomitanti e alla peculiare incidenza sulla prognosi e sulla qualità della vita di fattori quali la condizione cognitiva, la situazione sociale e quella ambientale, fattori che nell’insieme non possono essere affrontati con strumenti e metodologie di carattere esclusivamente biomedico [51]. Perciò si è andata sempre più affermando una disciplina specialistica, la Geriatria, che ha sviluppato nuovi modelli assistenziali, come le Unità di Valutazione Geriatrica previste nelle divisioni di geriatria sin dal lontano 1994 [52]. In tale contesto, con un approccio collegiale e multidisciplinare, è stata da tempo adottata la valutazione multidimensionale (VMD) che è stata definita da chi l’ha introdotta come «un procedimento multidimensionale ed interdisciplinare atto a determinare le capacità mediche, psicologiche e funzionali di una persona anziana fragile, al fine di sviluppare un programma coordinato ed integrato per il trattamento ed il follow up a lungo termine» [53].

La VMD, nella letteratura anglosassone conosciuta come Comprehensive Geriatric Assessment (CGA) [54], riguarda in particolare le aree seguenti:

  1. le condizioni cliniche (ad es.: comorbilità, severità delle patologie);
  2. lo stato mentale (ad es.: depressione, demenza);
  3. i problemi funzionali (ad es.: mobilità, equilibrio, cura della persona, ecc.);
  4. le condizioni sociali ed economiche (ad es.: vive in famiglia oppure da solo);
  5. i problemi ambientali (ad es.: comfort e sicurezza dell’appartamento).

La valutazione di un soggetto anziano inizia comunque con un preliminare esame clinico che cerchi in primo luogo di fissare le priorità, ovvero i problemi più importanti che affliggono il paziente, al fine di identificare le cause e stabilire una diagnosi, e perciò non può prescindere da un’accurata anamnesi ed esame obiettivo, seguito eventualmente da accertamenti specialistici, strumentali e di laboratorio. La valutazione geriatrica può essere limitata all’identificazione dei problemi e delle disabilità funzionali di una persona anziana (screening), oppure essere molto più approfondita e finalizzata. In tal caso è condotta da un geriatra o da un team multidisciplinare (valutazione geriatrica completa). Questa valutazione, facendo emergere e obiettivando il rischio costituito dalla perdita di autonomia personale dell’anziano, ha lo scopo di andare oltre la semplice diagnosi clinica per elaborare lo sviluppo di piani di trattamento e di follow-up e per determinare le necessità di assistenza a lungo termine. Si tratta di una collaborazione interdisciplinare (oltre al geriatra, partecipano infatti l’infermiere, l’assistente sociale, il riabilitatore, più eventuali altre figure specialistiche necessarie) che ha per obiettivo primario il mantenimento dell’autosufficienza e di una buona qualità di vita del soggetto anziano [55]. Un’ampia letteratura ha documentato il successo di tale approccio, che ha portato ad una valutazione più dettagliata ed a una migliore pianificazione e qualità complessiva dell’assistenza. Tale modalità di valutazione continua ad evolversi, per adeguarsi ai più diversi contesti e necessità (pazienti ambulatoriali, con o senza deterioramento cognitivo, risiedenti in comunità o al proprio domicilio, ricoverati o nel post-ricovero, in cura palliativa, ecc.) sia in risposta alle pressioni per il contenimento dei costi e la riduzione dei ricoveri e per le crescenti richieste dei pazienti per l’efficacia e la sicurezza delle cure [56].

Con la VMD si può valutare lo stato funzionale e quindi il livello di autonomia e le abilità residue, che vengono dedotte dalla capacità della persona a svolgere le attività quotidiane sia ordinarie (basilari) che strumentali. A tal fine sono utilizzate delle scale di valutazione che sono strumenti ormai universalmente accettati, già sviluppati e ampiamente utilizzati in campo riabilitativo e neurologico. Alcune scale quantificano la disabilità (stato funzionale) e risultano molto utili nei casi di comorbilità, i più frequenti nel paziente anziano. Ne sono state sviluppate in numero veramente elevato; tra le più note, anche se datate, quella di Barthel [57] e quella di Katz [58] già citate. In relazione alla complessità e alla difficoltà di esecuzione, le attività della vita quotidiana possono essere definite di base (BADL, Basic Activities of Daily Living), strumentali (IADL Instrumental Activities of Daily Living), e avanzate (AADL Advanced Activities of Daily Living).

La scala ADL (Index of Independence in Activities of Daily Living) venne presentata da Katz nel 1963 [58] in ambito riabilitativo. Nella scala sono considerati 6 parametri (lavarsi, vestirsi, uso del gabinetto, mantenere la continenza, alimentarsi e capacità di trasferimenti) con una valutazione progressiva del grado di dipendenza. La scala di valutazione quantitativa proposta da Barthel nel 1965 [57] fu sviluppata per la stima delle attività quotidiane della vita in pazienti con esiti di ictus cerebrale. Di essa esistono alcune differenti versioni, più o meno semplificate. In questa scala sono considerate 10 attività della vita quotidiana comprese la continenza vescicale e quella intestinale. Consente di graduare la dipendenza (le difficoltà persistenti) all’interno di uno score da 0 a 100 (100 punti attestano uno status di autosufficienza). L’indice di dipendenza nelle attività strumentali della vita quotidiana – IADL –include le attività che sono necessarie affinché l’individuo possa vivere in modo indipendente nella propria abitazione [54] ed è generalmente valutato con la scala di Lawton [59]. Questa scala presenta un elenco di otto attività complesse (capacità di usare il telefono, fare acquisti, preparazione del cibo, governo della casa, lavare la biancheria, uso mezzi di trasporto, responsabilità nell’uso dei farmaci, capacità di maneggiare il denaro) per ciascuna delle quali si debbono rilevare quattro livelli di competenza o la non applicabilità (nella forma originaria si rileva solo la dicotomia dipendenza-indipendenza). Questo test deve essere maggiormente individualizzato rispetto alle attività basilari, comuni a tutti, anche in riferimento al genere. Infatti vi sono attività che non sono mai state svolte anche quando la persona era autonoma, oppure non lo sono per cause ambientali o sono da considerare prevalentemente femminili (preparazione del cibo, governo della casa, biancheria). Pertanto dovrebbe essere sempre evidenziato quando esistano condizioni non applicabili, per cui il punteggio di riferimento andrebbe sempre adeguatamente ridotto.

Per una valutazione di base, a queste scale si debbono aggiungere i test per la valutazione cognitiva e per rilevare la presenza di depressione. Per valutare le capacità cognitive è comunemente usato il MMSE [60] che prende in considerazione l’orientamento temporo-spaziale, la memoria di fissazione, attenzione e calcolo, la memoria recente, il linguaggio, la prassia costruttiva. Altra scala correntemente utilizzata è lo Short Portable Mental Status Questionnaire (SPMSQ) [61]. Questi test, validati per discriminare le funzioni cognitive (dall’assenza di danno, al grave danno organico), devono essere considerati utili per lo screening di base ma, come già evidenziato nelle linee guida Inps, non dovrebbero essere usati isolatamente per confermare o escludere una diagnosi di demenza [62]. Per la valutazione del tono dell’umore esistono pure vari strumenti, tra cui quello di uso più comune è la Geriatric Depression Scale [63].

Le VMD più complete, da riservare a soggetti che presentano disabilità più severe e progressive, contengono ulteriori test mirati per lo stato di nutrizione e per il rischio di cadute. Nel primo caso si possono utilizzare anche strumenti appositamente elaborati, quali il Mini Nutritional Assessment (MNA) che permette di determinare un indice di malnutrizione e quindi di impostare eventuali piani di trattamento [64]. Per il problema delle cadute, assai comune, sono disponibili diverse scale, tra le quali la più diffusa è la Tinetti per l’equilibrio e l’andatura che permette di valutare il rischio e di individuare interventi atti a prevenirlo [65]. Strettamente correlata a questi test è la valutazione del substrato biologico più importante nella condizione di fragilità, attraverso il quale derivano gli esiti negativi sulla salute della fragilità, ovvero la sarcopenia [66]. Completano l’esame le indispensabili valutazioni specialistiche di screening della vista e dell’udito.

Generalmente le scale di valutazione multi-dimensionale sono formate da una serie di elementi (“items”) che riportano il risultato dell’intervista fatta al soggetto interessato o ai suoi familiari. Solo alcune possono richiedere l’effettuazione di veri e propri test di performance. Rispetto alle funzioni elencate l’indipendenza è considerata la capacità del soggetto di svolgere le diverse attività senza una supervisione o l’aiuto di altri.

Conclusioni

Non possiamo concludere questo breve excursus senza affrontare gli inevitabili riflessi che comporta la VMD in ambito medico-legale, in quanto l’esibizione di certificazioni di tale tipo da parte dei richiedenti la I.A. è ormai pressoché la norma.

In primo luogo, occorre sottolineare che una scala di valutazione multidimensionale utilizzabile ai soli fini medico-legali per valutare il grado di (dis)autonomia ancora non esiste e non potrà mai esistere in quanto il Legislatore, come abbiamo detto, non ha definito gli atti quotidiani della vita. Non si può analizzare qualitativamente e quantitativamente quello che non è stato definito esaustivamente e con chiarezza, né appare opportuno il ricorso ad una scala di valutazione già esistente, sia pure al solo fine di standardizzare e rendere omogenee le proprie valutazioni, in quanto la scelta di uno strumento piuttosto che di un altro è in grado di selezionare diversamente e più o meno restrittivamente i soggetti esaminati. Infatti è evidente che una scala che esamini il grado di autonomia nelle attività quotidiane della vita (ADL) seleziona il campione in esame in maniera alquanto differente rispetto alla scelta di una scala che prenda in esame anche le attività strumentali della vita (IADL) o perfino le attività avanzate (AADL). Si tratta di scelte di carattere eminentemente strategico e che quindi devono essere eventualmente demandate e decise a livello politico, come è avvenuto ad esempio nella Provincia autonoma di Trento, che ha potuto introdurre un percorso di accertamento estremamente semplificato ma non per questo meno rigoroso [21].

Altra problematica riguarda la veridicità del quadro emergente dalla VMD. Infatti tutte le scale di valutazione oggi utilizzate si basano in gran parte su quanto riferito dall’esaminato stesso e/o dai suoi familiari, cioè sul racconto anamnestico fornito dagli interessati. Ma tutto quello che è riportato e diagnosticato deve essere dimostrato obiettivamente o almeno comprovato da una esauriente documentazione sanitaria, coerentemente con la metodologia medico-legale e con la legge vigente (D. Lgs. 509/1988, art. 1 c.2 [15]).

In fase accertativa, un aspetto rilevante dal punto di vista medico-legale è in primo luogo la finalità e il metodo utilizzato per l’apprezzamento delle varie componenti della valutazione geriatrica, soprattutto in relazione al rilevamento obiettivo dello stato funzionale e delle capacità cognitive. Le VMD elaborate magari dopo un ricovero per un fatto acuto, aventi finalità riabilitativa e assistenziale e perciò dotate di tutte le caratteristiche che le sono proprie, cioè quelle di essere un procedimento diagnostico multidisciplinare finalizzato alla valutazione globale dell’anziano, non pongono problemi di affidabilità e attendibilità. Tali accertamenti, qualora formati presso una Unità Valutativa Geriatrica di una struttura pubblica o a questa assimilata, hanno tutti i crismi di un atto pubblico fidefaciente nei riguardi della provenienza del documento, delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (art. 2700 c.c.). Si noti però che la fidefacenza non si estende al giudizio diagnostico e prognostico «sia perché è basato sulle conoscenze scientifiche del pubblico ufficiale, sia perché costituisce una valutazione dei fatti accertati, insuscettibile di documentazione fidefaciente» [67]. Ricordiamo che la legislazione vigente nel settore dell’invalidità civile dispone che la documentazione avente valore ai fini della diagnosi delle infermità – conseguentemente anche della valutazione – deve provenire da strutture pubbliche del SSN o assimilate e di conseguenza il medico certificatore assume la qualifica di pubblico ufficiale [16]. In ambito medico-legale tali accertamenti possono essere tenuti presenti come utili strumenti di ausilio valutativo, per una disamina del grado di compromissione dell’autonomia dei soggetti esaminati. Vediamo invece sempre più spesso cosiddette VMD che in realtà sono effettuate esclusivamente ai fini della presentazione della domanda di I.A. ed elaborate da un singolo specialista, spesso scarsamente o per nulla supportate da esami o accertamenti. Il valore di queste attestazioni – che non sono vere VMD e che quindi si devono definire al massimo valutazioni geriatriche di base – non supera quello di un comune certificato medico, con tutte le conseguenze del caso. In tal evenienza, la valutazione geriatrica assume i caratteri di un certificato facoltativo (art. 24 Codice Deontologico), che però non può essere esclusivamente di tipo anamnestico – cioè basato soltanto su quanto riferito dal soggetto interessato – ma deve contenere e descrivere fatti constatati personalmente dal geriatra o almeno supportati da riscontri oggettivi e possibilmente privo di pleonastiche espressioni di stile ricavate dalle norme di settore. Si riscontra, infatti, nelle certificazioni geriatriche più articolate, ma anche in quelle specialistiche in generale, la tendenza a concludere apoditticamente con locuzioni tratte direttamente dal testo delle norme, quasi a voler vincolare il valutatore in sede medico-legale al riconoscimento del beneficio richiesto dal soggetto in esame. Che ci sia qualche problema nell’affidabilità delle certificazioni d’invalidità esibite ai fini della I.C. è esperienza comune e non a caso la normativa di settore ha previsto con l’art. 10 c.3 del D.L. 78/2010 l’applicazione delle sanzioni penali e disciplinari previste dall’art. 55-quinquies del D.Lgs n. 165/2001 per il medico che rilascia false attestazioni o certificazioni riguardanti uno stato di malattia o di handicap.

Tuttavia, anche di fronte all’esibizione di VMD elaborate da centri qualificati e dotate di tutte le caratteristiche di affidabilità e di attendibilità il medico accertatore, sia nell’ambito dell’attività delle commissioni di prima istanza che in quella di consulente tecnico d’ufficio, non deve assumere acriticamente le conclusioni ivi riportate. Infatti in tal modo si avrebbe un effetto di traslazione dell’incarico della valutazione dal medico-legale allo specialista geriatra. Il medico valutatore, invece, deve elaborare un proprio convincimento che tenga conto di tutti gli elementi derivanti dall’indagine da lui stesso effettuata, tra i quali ovviamente anche le risultanze delle certificazioni geriatriche che sono oggi un indispensabile strumento per stabilire i bisogni assistenziali dell’anziano fragile, ma non possono sostituirsi alla specifica professionalità medico-legale che, anche in questo settore, può e deve garantire la massima oggettività del giudizio.

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