Farmeco 2014;15(4)129-138.html

Farmeconomia. Health economics and therapeutic pathways 2014; 15(4): 129-138

http://dx.doi.org/10.7175/fe.v15i4.976

Review

Nuovi concetti su costo-efficacia della terapia intravitreale nella degenerazione maculare legata all’età (AMD): dallo schema fisso alla terapia sequenziale multifarmaco

Cost-effectiveness of intravitreal therapy in Age-Related Macular Degeneration

Piergiorgio Neri 1, Ilir Arapi 1, Chiara Maria Eandi 2, Vittorio Pirani 1, Cesare Mariotti 1, Alfonso Giovannini 1

1 Università Politecnica delle Marche, Ancona

2 Università degli Studi di Torino, Clinica Oculistica, Torino

Abstract

Age-related macular degeneration (AMD) is still referred to as the leading cause of severe and irreversible visual loss world-wide. Advances in medical research have identified vascular endothelial growth factor (VEGF) as an important pathophysiological player in neovascular AMD and intraocular inhibition of VEGF as one of the most efficient therapies. Anti-VEGFs currently used to treat AMD included a monoclonal antibody (bevacizumab), an antibody fragments (ranibizumab), a fusion protein (aflibercept), and an aptamer (pegaptanib). The wide introduction of anti-VEGF therapy has led to an improvement in the prognosis of patients affected by AMD, with a consequent effects on the burden of care due to highly priced drugs, increasing patient numbers, and long-term disease chronicity. Aim of this review is to present an overview of available therapeutic strategies in AMD in term of clinical efficacy and economic sustainability.

Keywords

Age-Related Macular Degeneration; Anti-VEGF; Intravitreal injection

Corresponding author

Piergiorgio Neri

p.neri@univpm.it

Disclosure

Gli Autori non hanno conflitti di interesse da dichiarare

Introduzione

Nell’epoca moderna, una rivoluzione Copernicana ha modificato radicalmente l’approccio alla terapia della malattia che rappresenta la prima causa di cecità legale nei paesi industrializzati: la degenerazione maculare legata all’età (AMD). Tale patologia riconosce due forme: la forma secca (90% dei casi), che conduce ad un lento deterioramento della funzione visiva e che non identifica ad ora alcuna soluzione terapeutica, e la forma umida (10% dei casi), nota anche come neovascolare, la cui fisiopatologia è meglio conosciuta e riconosce diverse tecniche farmacologiche per la sua terapia.

La vera rivoluzione a cui si faceva riferimento, è incentrata sull’introduzione di farmaci intravitreali con target specifico per il “carburante biologico” della neo-angiogenesi: il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF).

Nella letteratura moderna si identificano i seguenti farmaci: un farmaco pan-anti-VEGF on label (ranibizumab – LucentisTM, Fragment Antibody Binding (FAB) di anticorpo monoclonale), un farmaco pan-anti-VEGF off label (bevacizumab – AvastinTM, anticorpo monoclonale categoria IgG1), un farmaco pan-anti-VEGF e anti-placental growth factor (aflibercept – EyeleaTM, proteina di fusione) e un solo farmaco anti-VEGF selettivo per la isoforma 165 del VEGF (pegaptanib – MacugenTM, aptamero), che è stata identificata come l’unica inserita stabilmente nel contesto della fisiopatologia della processo neoangiogenico patologico in corso di AMD. Nel presente lavoro viene presentata una panoramica da un punto di vista sia dell’efficacia clinica sia della sostenibilità economica, delle strategie terapeutiche a schema fisso e di combinazione.

Terapia intravitreale

Schema fisso

Se da un lato la querelle che ha visto bevacizumab, ovvero il progenitore di ranibizumab, scontrarsi con i regulatory per il suo utilizzo a basso costo, poco tuttavia si può obiettare sull’efficacia di ranibizumab stesso nella terapia dell’AMD neovascolare, del diabete, dell’edema secondario a occlusione venosa retinica. Ciò si evince dai numerosi studi pubblicati nella letteratura medica, come MARINA [1], ANCHOR [2], PIER [3] SAILOR [4] e PrONTO (5) per citare i maggiori, e un numero di articoli pubblicati in letteratura pari a 1535 eseguendo una ricerca su Medline con il termine “Lucentis”.

Negli studi MARINA [1] e ANCHOR [2], i pazienti trattati con ranibizumab con una dose fissa mensile per 12 mesi hanno ottenuto un guadagno ≥15 lettere in acuità visiva (AV) nel 24,8% (ranibizumab 0,3 mg) e nel 33,8% (ranibizumab 0,5 mg) [1] e in nel 35,7% (ranibizumab 0,3 mg) e nel 40,3% (ranibizumab 0,5 mg) [2], rispettivamente. Dopo un anno il miglioramento medio dell’AV è stato di 8,5 e 11,3 lettere vs baseline nello studio ANCHOR e di 6,5 e 7,2 lettere nello studio MARINA (pazienti trattati rispettivamente con ranibizumab 0,3 mg e 0,5 mg) [1,2]. L’assenza di differenze clinicamente significative tra le due dosi valutate e il rapido miglioramento medio dell’AV nei tre mesi iniziali, mantenutosi poi nei mesi successivi, suggeriscono che il dosaggio mensile è in grado di raggiungere un ceiling effect senza che siano possibili ulteriori miglioramenti dell’AV. Sulla scorta di queste importanti osservazioni, i successivi trial clinici hanno esplorato la possibilità che simili guadagni nell’AV potessero essere raggiunti con dosi meno frequenti di ranibizumab.

Nello studio PIER [3], è stata quindi esplorata la possibilità di trattare i pazienti con una loading phase di 3 iniezioni di ranibizumab nella fase d’induzione, seguite da una somministrazione ogni tre mesi. Tuttavia, la ridotta frequenza di trattamento ha determinato una minor efficacia del trattamento stesso al dodicesimo mese, con perdita di 1,6 e 0,2 lettere se paragonato al baseline (ranibizumab 0,3 mg e 0,5 mg, rispettivamente) [3].

Ancor più innovativo è lo studio SAILOR [4] dove invece si sperimentava la possibilità di trattamento con ranibizumab al bisogno dopo una iniziale loading phase di 3 iniezioni in 3 mesi, e la decisione sul re-treatment veniva basata sulla valutazione dell’acuità visiva e/o dell’OCT. Tuttavia, malgrado alcune perdite di efficacia del trattamento evidenziate nello studio PIER siano state prevenute dalla terapia al bisogno, la media del miglioramento dell’AV è stata comunque modesta (0,5 e 2,3 lettere dal baseline al 12˚ mese; con ranibizumab 0,3 mg e 0,5 mg, rispettivamente) se paragonata ai risultati ottenuti negli studi ANCHOR e MARINA.

Traslitterando le metodiche suggerite nella real life, si osserva che le pratiche correnti tendono ad utilizzare strategie di dosaggio che differiscono dal trattamento mensile raccomandato in precedenza e sono più simili a quelle utilizzate nello studio PrONTO [5] in cui si è seguito uno schema pro re nata (PRN) guidato da rivalutazioni dell’AV e dell’OCT secondo un monitoraggio mensile e uno schema Treat-and-Extend guidato dall’OCT, ma con intervalli tra le visite più lunghi in modo progressivo nel caso in cui il paziente non avessero presentato segni di attività di malattia con l’obiettivo di massimizzare l’AV riducendo il numero di iniezioni intravitreali e di visite al paziente.

L’iniezione intravitreale (IV) di ranibizumab nello studio PrONTO ha comportato un rapido miglioramento dell’AV e delle misurazioni dell’OCT. Dopo 12 e 24 mesi i risultati dello studio sono stati simili a quelli ottenuti nei trial di fase 3 MARINA e ANCHOR ma con una media di frequenza delle dosi ridotta della metà (circa 5 IV per anno) [5]. Sulla base di questi risultati l’OCT si è confermata un’utile pratica per valutare quando ritrattare il paziente con AMD neovascolare, anche se sarà necessario un trial clinico randomizzato per confermare i risultati di questo studio open-label.

Due studi indipendenti, prospettici, multicentrici e randomizzati, il CATT (Comparison of AMD Treatments Trials) e l’IVAN (Inhibition of VEGF in Age-related Choroidal Neovascularisation) [6,7], hanno confrontato ranibizumab e bevacizumab a 104 settimane in differenti regimi terapeutici (28 gg e PRN, rispettivamente) confermando risultati paragonabili tra pazienti trattati con lo stesso farmaco, ma sottoposti a diverso schema posologico. A due anni nello studio CATT il numero medio di trattamenti è risultato 22,4 nel gruppo ranibizumab (28 gg) contro 23,4 del gruppo bevacizumab trattati mensilmente e 12,6 con ranibizumab PRN contro 14,1 con bevacizumab PRN [6]. Un leggero miglioramento dell’AV (- 2,4 lettere) è stato evidenziato nel gruppo con regime mensile vs PRN a conferma che un trattamento continuativo e più frequente è in grado di massimizzare i risultati a lungo termine, aspetto confermato anche dallo studio IVAN. I due studi hanno evidenziato anche un più alto numero di eventi avversi di tipo sistemico nel gruppo bevacizumab, così come una più elevata frequenza di atrofia geografica associata a somministrazione mensile di ranibizumab [6,7]. D’altro canto, se da un lato gli studi controllati hanno fornito un quadro sufficientemente chiaro dell’efficacia degli anti-VEGF, l’analisi degli studi condotti in condizioni di real life mostra come i pazienti che mantengono o migliorano l’AV durante la fase di mantenimento nella routine clinica siano al di sotto dell’atteso, rispetto a quanto emerso negli studi condotti con maggiore rigore tecnico-scientifico. Questo potrebbe essere parzialmente spiegato dal considerevole numero di pazienti che ricevono un più basso numero di ritrattamenti e dal più alto numero di pazienti con scarsa risposta confermata dal controllo dell’AV [8].

Interessanti anche gli output emersi da un studio osservazionale internazionale, multicentrico, condotto su ranibizumab e noto come studio AURA [9]. Dopo aver analizzato il numero di visite annuali, esami e controlli OCT effettuati, numero di iniezioni ricevute annualmente, risultati su mantenimento e miglioramento dell’AV, è emerso come il numero medio delle visite e delle iniezioni in un periodo di 24 mesi si attesti su valori decisamente bassi rispetto agli standard previsti dai protocolli di studio [9]. Tutto ciò ha determinato un notevole calo dell’AV nei mesi successivi alla fase di induzione in cui si verificava il massimo recupero. Gli esiti dello studio AURA portano quindi ad importanti riflessioni: innanzitutto la terapia con anti-VEGF presenta il massimo delle proprie potenzialità quando le indicazioni previste negli studi vengono seguite nel modo più vicino allo schema proposto, inoltre esiste una reale difficoltà nell’applicare controlli e terapie regolari per difficoltà attuative concrete nei centri, legati alla complessità della routine clinica che non riesce a seguire in maniera fedele il modello sperimentale. Infine, anche gli aspetti legati al costo impegnativo dei farmaci e degli esami di controllo può rappresentare un fattore limitante in una fase caratterizzata da risorse economiche limitate

Gli studi HELIOS (Health Economics with Lucentis In Observational Settings) Holland e Belgium [10] hanno fornito interessanti spunti sulla sicurezza nella real life e hanno mostrato come la terapia con Lucentis nella real life abbia lo stesso profilo di sicurezza riportato negli studi di registrazione sopra menzionati.

Se è vero che la quantità di articoli su ranibizumab contribuisce a confermare l’efficacia terapeutica della molecola, l’attenzione è rivolta anche all’ultima novità terapeutica giunta nel mercato Europeo, aflibercept, con una letteratura medica consistente a supporto di dati di ricerca di base promettenti. Aflibercept rappresenta una molecola innovativa sia per le caratteristiche bio-immunologiche sostanzialmente differenti rispetto agli altri anti-VEGF (è una proteina di fusione caratterizzata da concomitante azione inibitoria nei confronti del Placental Growth Factor – PGF), sia per il suo impiego sistemico per il cancro colon rettale metastatico.

Aflibercept possiede ad oggi una letteratura che offre spunti di riflessione interessanti, caratterizzata da un numero complessivo di articoli pari a circa 50 (ricerca su Medline con matching: Aflibercept and eye). Gli studi di registrazione eseguiti su AMD sono noti come VIEW-1 e VIEW-2 (VEGF trap: Investigation of Efficacy and safety in Wet AMD) [11]), quelli per l’edema secondario ad occlusione della vena centrale della retina come COPERNICUS [12] e per l’edema maculare diabetico come DA VINCI (13). Inoltre, si inizia ad osservare anche letteratura relativa all’impiego del farmaco nei casi in cui, sia ranibizumab, sia bevacizumab non hanno ottenuto un risultato soddisfacente sul controllo della patologia [14,15].

Il VIEW si compone di due studi clinici di fase 3 randomizzati, in doppio cieco, per la valutazione di aflibercept nel trattamento della forma neovascolare della degenerazione maculare legata all’età (wet AMD) con un numero consistente di pazienti arruolati pari a circa 2500 unità complessive.
Durante il primo anno di studi VIEW-1 e VIEW-2, i pazienti sono stati trattati con tre diversi regimi di dosaggio di aflibercept: 0,5 mg ogni quattro settimane, 2 mg ogni quattro settimane, e 2 mg ogni otto settimane (dopo tre iniezioni mensili iniziali); rispetto a ranibizumab 0,5 mg ogni quattro settimane. Ogni regime di otto settimane con aflibercept 2mg è stato recentemente approvato dalla US Food and Drug Administration (FDA), sulla base dell’efficacia (mantenimento della visione) clinicamente equivalente ad un anno con il regime mensile di ranibizumab. Nel secondo anno di studi, i pazienti sono stati trattati con la stessa dose per iniezione come nel primo anno e sono stati valutati mensilmente per determinare necessità di ritrattamento. I pazienti sono stati trattati almeno ogni 12 settimane.
In un’analisi integrata degli studi VIEW-1 e VIEW-2 [11], il guadagno di AV rispetto al basale nel gruppo aflibercept 2 mg trattato ogni otto settimane, alla settimana 96 è stato pari a 7,6 lettere rispetto alle 8,4 lettere alla settimana 52, con una media di 11,2 iniezioni in oltre due anni e 4,2 iniezioni nel secondo anno. Il guadagno di acuità visiva rispetto al basale nel gruppo ranibizumab mensile alla settimana 96 era 7,9 lettere rispetto a 8,7 lettere alla settimana 52, con una media di 16,5 iniezioni nell’arco di due anni e 4,7 iniezioni nel secondo anno. I risultati degli studi VIEW-1 e VIEW-2 erano coerenti con l’analisi integrata.
Il numero complessivo medio inferiore di iniezioni nel secondo anno del gruppo trattato con aflibercept 2 mg ogni otto settimane rispetto al gruppo ranibizumab (4,2 contro 4,7) è stato determinato dal fatto che un minor numero di pazienti hanno mostrato la necessità di una terapia più intensa nel gruppo di aflibercept e quei pazienti hanno richiesto un minor numero di iniezioni.

Un aspetto importante è rappresentato dall’evidenza che la proporzione di pazienti che hanno richiesto iniezioni frequenti (sei o più) durante il secondo anno è stata inferiore nel gruppo di aflibercept 2 mg trattato ogni otto settimane, rispetto al gruppo ranibizumab (15,9% contro 26,5%). Nel 25% dei pazienti che hanno richiesto la terapia più intensa, i pazienti che ricevevano aflibercept 2 mg ogni otto settimane hanno presentato un numero medio di iniezioni inferiore, pari a 1,4 nel secondo anno, rispetto al gruppo ranibizumab (6,6 contro 8,0). Nel 25% dei pazienti in ciascun gruppo che ha avuto il minor numero di iniezioni nel secondo anno, il numero medio di iniezioni era simile (circa 3 per entrambi i gruppi, corrispondenti al numero minimo di iniezioni previsto dal protocollo) [11].

Nonostante i risultati degli studi non mettano in discussione il potenziale di efficacia di aflibercept, risulta ad oggi poco chiaro il placement del prodotto: eseguire subito terapia nei pazienti naive come protocollo da studio di registrazione, oppure riservare tale terapia a coloro che non sono responder, per evitare di avere già sfruttato l’arma terapeutica di apparente maggiore efficacia?

Si potrebbe applicare, poi, il principio che vige nei farmaci biologici anti-TNF-alpha sullo switch tra un farmaco della medesima categoria come alternativa nei casi non-responder? Semplificando il concetto, sarebbe ranibizumab capace di essere parimenti efficace in caso di non-responder ad aflibercept? Per ora, non vi sono studi che provino tali ipotesi, ma questo argomento sarà sicuramente oggetto di acceso dibattito scientifico.

Terapia sequenziale multifarmaco

La AMD è una patologia cronica e degenerativa, cosa potrebbe accadere a lungo termine nella struttura retinica, sotto l’azione di una molecola pan-VEGF inibitrice? Proprio questo legittimo interrogativo costituisce la chiave di rilettura di quanto riportato dalla letteratura medica al momento. Se è vero che gli inibitori pan-VEGF hanno una provata, indubbia efficacia nel controllo della malattia, tuttavia non sono ancora chiari gli effetti a lungo termine del loro trattamento, con il rischio di complicanze loco-regionali a carattere funzionale, quali l’atrofia geografica, che renderebbero vano lo sforzo di controllare la patologia di base. Converrebbe avere una neovascolarizzazione blandamente attiva oppure una neovascolarizzazione ben controllata e spenta nella sua attività ma con un residuo funzionale povero a seguito delle conseguenze della terapia? Viene alla luce, quindi, la necessità di trovare nuove strategie terapeutiche combinate, non solo rivolte alla soluzione del controllo della patologia hic et nunc, ma anche a lungo termine. Questo è quindi un punto di dibattito che rivaluterebbe in modo considerevole il ruolo giocabile da parte di pegaptanib, molecola che certamente tra i punti di forza non vanta un’azione VEGF inibitrice potente, ma che in realtà potrebbe essere utilizzata come farmaco di mantenimento prono alla manifesta minimizzazione dei rischi biologico-funzionali espressi dagli inibitori pan-VEGF.

Infatti, pegaptanib proprio per il suo targeting altamente specifico per il VEGF165, l’elemento da tempo identificato come il principale attore nella fisiopatologia della neovascolarizzazione, non implica blocco dei survival factor come il VEGF120, che sono essenziali per la normale fisiologia del tessuto retinico.

Se poi fossero confermati dati che vedono gli anti-VEGF ad azione non selettiva come potenziali promoter del rischio di eventi tromboembolici in popolazioni già suscettibili e se venisse riconosciuto che le iniezioni multiple possano portare ad un‘ipotrofia retinica o ancor peggio all’atrofia geografica – come emerso dagli studi CATT e IVAN [6,7] come potrebbero non essere considerate nella daily practice le caratteristiche di selettività di pegaptanib? Da aggiungere poi come ciò abbia potenziali risvolti medico legali: come potrebbe essere interpretata l’evidenza di un rischio potenzialmente evitabile con una strategia differente, a fronte di un metodo standardizzato che reca come unica indiscutibile qualità il fatto che sia figlio di studi di registrazione?

L’ipotesi di terapia combinata inibitori pan-VEGF e anti-VEGF selettivo è stata già esplorata in 2 studi che si sono distinti per l’aver pionieristicamente avanzato l’ipotesi che pegaptanib potesse essere un partner ideale per il controllo a lungo termine della CNV in AMD: quello di Huges e Sang del 2006 [16] e lo studio LEVEL del 2010 [17] che hanno ipotizzato l’uso sequenziale di un pan-anti-VEGF e pegaptanib per la terapia a lungo termine di tale affezione.

Dalla ricerca di base è evidente che il VEGF-A164, equivalente murino del VEGF-A165, sia necessario e sufficiente nel triggering e nel mantenimento del processo di neovascolarizzazione e della sua permeabilità patologica. Nel studio di Hugh [16] sono stati trattati 20 pazienti naïve con tutti i sottotipi di neovascolarizzazione coroidale secondaria a AMD con bevacizumab intravitreale. I pazienti avevano una AV di base estremamente eterogenea. I pazienti inclusi hanno ricevuto una iniezione di bevacizumab 1,25 mg seguita da una serie di nove iniezioni intravitreali di pegaptanib 0,3 mg somministrati ad intervalli di 6 settimane durante le 54 settimane successive. Lo studio ha evidenziato un miglioramento dell’acuità visiva media da 20/200 al baseline a 20/80 ad 1 anno di follow-up, così come un miglioramento dello spessore retinico. La pionieristica serie esplorativa di Huges et al. ha aperto le prospettive per studi di maggiore consistenza numerica quale il LEVEL study, il cui goal [17] era di determinare l’efficacia di pegaptanib come terapia di mantenimento per la wet AMD dopo induzione con inibitore pan-VEGF. Lo studio LEVEL presenta un’architettura più complessa, essendo un trial di fase IV, prospettico, open-label, non controllato. Lo schema di terapia comprende un’induzione con 3 iniezioni di inibitore pan VEGF seguite da iniezioni con anti-VEGF selettivo. Le lesioni nello studio potevano essere di qualsiasi tipo di grandezza inferiore a 12 dischi papillari con un postinduction Centre Point Thickness (CPT) non superiore a 275 mm o di riduzione di spessore di 100 mm o più all’OCT. L’AV poteva essere compresa tra 20/20 e 20/400. Pegaptanib 0,3 mg veniva somministrato come trattamento di mantenimento ogni 6 settimane per 48 settimane con follow-up a 54 settimane. Un trattamento fuori schema veniva permesso in caso di necessità rilevata dallo sperimentatore. Di 568 soggetti arruolati, l’86% hanno completato 1 anno di trattamento con pegaptanib. Il miglioramento medio dell’’AV ottenuto durante la fase di induzione (49,6 – 65,5 lettere) è stato mantenuto a 54 settimane con una media di 61,8 lettere. Il CPT medio rimaneva relativamente stabile, con un incremento di soli 20 mum durante lo studio. Alla settimana 54 il 50% dei soggetti non aveva ricevuto alcun trattamento aggiuntivo, mentre il 46% veniva trattato con un trattamento aggiuntivo (media pari a 147 giorni dopo l’inizio del trattamento di mantenimento). Sulla base di quanto osservato dagli autori, una strategia di mantenimento con inibitore selettivo, rappresenterebbe un metodo percorribile per la gestione della wet AMD, soprattutto se applicata a soggetti con co-morbidità a carattere cardiovascolare che limiterebbero potenzialmente l’uso di inibitori non-selettivi del VEGF.

Considerazioni farmacoeconomiche

Di carattere squisitamente economico è la speculazione che nasce sulla scorta dei risultati degli studi sopra citati: le conclusioni di questi studi non sono solo promettenti sotto il profilo biologico, come sopra evidenziato, ma renderebbero più sostenibili economicamente trattamenti che implicherebbero costi di gestione non propriamente inseribili nella daily practice.

Sulla base di un banale conteggio fondato su quanto rilevato dallo studio LEVEL, un farmaco anti-VEGF di mantenimento selettivo vanterebbe costi minori ed un planning di terapia ogni 6 settimane come si evince dallo studio di registrazione VISION [18], che fornirebbe la possibilità di un pan-anti-VEGF sparing effect.

In letteratura è possibile trovare numerose valutazioni farmacoeconomiche relative alle diverse alternative per la cura dell’AMD. Dagli studi disponibili emerge l’importanza sociale della patologia, l’efficacia e la sicurezza delle terapie disponibili oltre, in generale, il loro favorevole profilo di costo/efficacia.

Se per la realizzazione delle analisi pubblicate sono state impiegate metodologie piuttosto variegate al fine di simulare l’efficacia di lungo periodo e tentare di confrontare le terapie in assenza di studi head to head, dalle valutazioni di HTA condotte ad opera di vari enti governativi (Canada, UK, Australia) è comunque emerso in modo abbastanza omogeneo un profilo farmacoeconomico di ranibizumab più favorevole verso le alternative di confronto e moderatamente favorevole per pegaptanib, dipendentemente dallo stadio della malattia e dall’orizzonte temporale considerato. Lo Scottish Medicines Consortium (SMC) ad esempio ha raccomandato l’uso di pegaptanib in soggetti con VA compreso tra 6/12 e 6/60 e per ranibizumab in alcuni casi sono stati posti dei limiti al numero di fiale rimborsate [19].

Le pochissime evidenze disponibili specifiche per l’Italia risalgono al periodo prossimo alla autorizzazione e rimborso nel nostro Paese degli anti-VEGF, quindi basate su dati dei trial registrativi e non su dati di confronto diretto.

L’unico studio farmacoeconomico di rilievo condotto è stato pubblicato nel 2009 da Cicchetti e colleghi [20], adattando alla realtà italiana un modello sviluppato per il contesto britannico sulla base dei dati MARINA, ANCHOR, TAP e PIER. Adottando la prospettiva del SSN e della società, gli autori hanno confrontato ranibizumab a pegaptanib e verteporfina/PDT. Se al baseline è emerso un profilo favorevole per ranibizumab, all’analisi di sensibilità sono emersi alcuni aspetti critici riguardanti la frequenza di trattamento con ranibizumab, il costo di ranibizumab e di pegaptanib e la loro influenza sul risultato finale. Più in particolare l’incremental cost-effectiveness ratio (ICER), al baseline favorevole a ranibizumab, è risultato peggiorare sensibilmente qualora venissero impiegati nell’analisi i dati di efficacia derivati dallo studio PIER, ovvero dalla somministrazione di ranibizumab al bisogno nonché alla riduzione del costo di pegaptanib. Tra i punti di debolezza discussi dagli autori emergono inoltre la mancanza di dati di efficacia italiani e l’impiego di utilità riferite al contesto britannico.

Queste analisi, in particolare quella riferita al contesto italiano, non sembrerebbero però essere particolarmente attuali. Negli ultimi tempi infatti si sono verificati alcuni accadimenti specifici proprio riguardo l’efficacia e i costi delle opzioni terapeutiche disponibili in Italia per l’AMD.

Sono stati infatti pubblicati nuovi dati di real life [8,10,21] che indicano come l’impiego reale di ranibizumab sia subottimale e che la sua efficacia reale (effectiveness) sia sensibilmente inferiore all’efficacia teorica (efficacy), cioè al dato utilizzato nel contesto internazionale e nazionale per stimare il rapporto di costo efficacia incrementale.

Anche i costi di trattamento hanno recentemente subito modifiche, sia per l’arrivo di nuovi prodotti sia per i nuovi prezzi di prodotti esistenti, in generale risultando più bassi e con mutate differenze relative.

Se infatti per esempio Lucentis ora ha un costo fiala ridotto per effetto di nuovi sconti negoziati con AIFA, Eylea è disponibile a un costo fiala ad esso di poco superiore e Macugen è ora disponibile a un prezzo per fiala notevolmente inferiore al passato e alle due alternative disponibili registrate. Bevacizumab nelle more della legge 648 e per i soli ospedali pubblici è tornato ad essere disponibile teoricamente al prezzo più basso e, altrettanto teoricamente, in tutte le strutture che ne vogliono fare uso, fatto salvo l’onere di preparazione a carico delle farmacie ospedaliere, difficile da quantificare soprattutto nella sua componente di rischio associato che viene tentativamente limitato con l’adozione di alcune precauzioni relative alla preparazione, alla somministrazione e al controllo d’uso.

Quindi, considerando le evidenze farmacoeconomiche disponibili che, relativamente all’Italia al momento riguardano i soli Lucentis e Macugen, alla luce del fatto che il differenziale di costo tra i due è ora sensibilmente diverso dal passato, ed il potenziale di efficacia del secondo sembrerebbe essere molto ridotto nella vita reale, è ipotizzabile che il profilo farmacoeconomico dei due prodotti sia variato, nei fatti avvicinandone le performance. Tale situazione troverebbe possibile conforto anche nella ridotta variabilità tra efficacy ed effectiveness più probabile nei prodotti il cui impiego richiede uno schema fisso (Macugen, Eylea), rispetto a quello di prodotti come Lucentis e Avastin che prevedono un impiego al bisogno e nei quali entrano in gioco aspetti organizzativi, economici e di variabilità diagnostica ad influenzare ed ampliare il gap tra efficacy ed effectiveness.

Sul fronte dei prezzi e dei costi di trattamento delle diverse opzioni disponibili registrate in Italia (Tabella I e Tabella II), Macugen risulta il prodotto più economico dopo Avastin, al lordo dell’accordo in essere con AIFA di Payment by Result (PbR) a 2 mesi. Analogo agreement esiste per Lucentis (PbR a 3 mesi), mentre né Eylea né Avastin hanno in essere accordi simili.

Prezzo al pubblico da GU (€)

Prezzo ex-factory da GU (€)

Prezzo max SSN# (€)

Rimborso

Lucentis

1.488,66

902,00

586,12

H/OSP

Eylea

1.287,31

780,00

619,48

H/OSP

Macugen

729,66

442,11

399,00

H/OSP

Avastin 100 mg*

531,18

321,84

290,46

L.648/OSP

Avastin fm°

-

-

29,05

L.648/OSP

Tabella I. Prezzi delle alternative disponibili

* Confezione 1 flaconcino 100 mg [GU Serie Generale n.300 del 23-12-2013]

° Ipotesi di 10 fiale monodose per singolo flaconcino 100mg (prezzo calcolato)

# I prezzi massimi all’SSN sono al netto di tagli temporanei e sconti negoziati non pubblicati. Lucentis e Macugen hanno un ulteriore Payment by Result pari a a 3 mesi e 2 mesi rispettivamente, non considerato nel computo del costo al SSN

Farmaco

Schema

Consumo fiale

€/fiale SSN

Costo (€)

Induzione

Mantenimento

Induzione

Mantenimento

Induzione

Mantenimento

Totale

Lucentis

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala/mese

3

9

586,12

1.758

5.275

7.033

1 fiala al bisogno

3

4

586,12

1.758

2.344

4.103

Eylea

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiale ogni 2 mesi

3

5

619,48

1.858

3.097

4.956

Macugen

1 fiala ogni 6 settimane

1 fiala ogni 6 settimane

3

6

399,00

1.197

2.394

3.591

Avastin 100 mg

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala/mese

3

9

290,45

871,38

2.614,14

3.486

1 fiala al bisogno

3

4

290,45

871,38

1.161,84

2.033

Avastin fm

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala/mese

3

9

29,05

87,14

261,41

349

1 fiala al bisogno

3

4

29,05

87,14

116,18

203

Tabella II. Schemi di trattamento e costo di 12 mesi di trattamento (gli schemi di trattamento sono tratti dagli studi registrativi e dallo studio CATT per ranibizumab e bevacizumab in modalità PRN)

Il quadro risulta quindi tutt’altro che chiaro ed aggiornato alle situazioni attuali di costo e di beneficio reale. Andrebbero pertanto eseguite indagini ad ampio spettro su tutte le strategie terapeutiche e diagnostiche utilizzate, anche in considerazione della notevole domanda a fronte della quale si oppone una crescente scarsità di risorse a disposizione dei centri di cura. Il problema, e la sua possibile soluzione, sembrano in questo caso essere più che mai in mano ai clinici che, oltre ad avere coscienza di quanto le proprie scelte terapeutiche, diagnostiche e organizzative possono condizionare gli esiti, i costi e le performance assistenziali in senso lato, richiedono di essere pienamente informati circa le caratteristiche e le potenzialità di cura nonché i rischi caratterizzanti le alternative disponibili. In questa logica dunque si rende necessario effettuare opportune considerazioni sul posizionamento in terapia delle alternative disponibili ed in particolare anche su prodotti (pegaptanib) che forse troppo facilmente e troppo velocemente sono stati posti in una condizione di totale “sudditanza” rispetto alle altre alternative, nella fattispecie ranibizumab.

Il recente studio di Nishimura e colleghi del 2012 [22] pur se la grandezza del campione risulti di ridotte dimensioni, apre a interessanti considerazioni relativamente al più corretto posizionamento di Macugen ed allo schema di trattamento più efficiente. Qualora infatti venga utilizzato in pazienti con lesioni di piccole dimensioni e con schema PRN (3 iniezioni di induzioni e mantenimento al bisogno) pegaptanib sembrerebbe risultare egualmente efficace a ranibizumab. Relativamente all’Italia, poiché il costo di pegaptanib è inferiore a quello di ranibizumab, in una logica di minimizzazione dei costi, il primo risulterebbe l’opzione da preferire in questo tipo di pazienti.

Analogamente, l’impiego secondo lo schema sequenziale dello studio LEVEL [17], sebbene richieda ulteriori approfondimenti, sembrerebbe offrire una opzione di gestione innovativa dal punto di vista clinico, in termini di efficacia e tollerabilità, nonché conveniente in un’ottica di tipo economico.

A seconda, infatti, che la fase di induzione venga effettuata con ranibizumab, aflibercept o bevacizumab, a fronte di un vantaggio clinico determinato dalle caratteristiche peculiari dell’unico inibitore VEGF selettivo, il pegaptanib, le conseguenze economiche rispetto agli schemi classici possono variare dalla produzione di risparmi importanti fino ad una spesa aggiuntiva verso bevacizumab (Tabella III), conservando un profilo di efficacia soddisfacente che, dato lo schema prefissato di mantenimento, ci si può attendere possa riscontrarsi anche nella pratica clinica reale.

Dal prospetto riportato in Tabella III, risulta sfavorevole il solo confronto con bevacizumab, ma nella valutazione complessiva sull’opportunità di effettuare una terapia con il solo bevacizumab andrebbero prese in considerazione, oltre all’aspetto economico anche valutazioni circa la sicurezza, l’effettiva disponibilità del prodotto, la convenience per il paziente nonché aspetti legati alla safety di medio-lungo periodo associabile all’uso di un pan-VEGF.

Prodotti

Schema

Consumo filae

€/fiala SSN

Costo (€)

Induzione

Manten.

Induzione

Manten.

Induzione

Manten.

Induzione

Manten.

Totale

Confronto*

Lucentys

Macugen

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala ogni 6 sett.

3

6

586,12

399

4.152

7033/4.103

Eylea

Macugen

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala ogni 6 sett.

3

6

619,48

399

4.252

4.956

Avastin 100 mg

Macugen

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala ogni 6 sett.

3

6

290,46

399

3.265

3.486/2.033

Avastin fm

Macugen

1 fiala/mese x 3 mesi

1 fiala ogni 6 sett.

3

6

29,05

399

2.481

349/203

Tabella III. Costi di diversi schemi di terapia sequenziale

* schema fisso o PRN

Manten. = Mantenimento

Discussione e conclusioni

Riassumendo i concetti trattati, se è vero che ranibizumab possiede un consolidato livello di evidenza di efficacia, aflibercept mostra tuttavia potenzialità terapeutiche di grande interesse, anche se la letteratura è ancora acerba e maggiori evidenze dovranno essere fornite. Tali proprietà sono da applicarsi alla CNV in AMD, all’edema maculare diabetico e all’edema secondario ad occlusione della vena centrale della retina. Interessante sarà vedere come aflibercept si collocherà nella flow chart terapeutica.

Pegaptanib, farmaco oggi rilanciato nello scenario delle opzioni terapeutiche possibili, potrebbe rappresentare invece il partner ideale per il mantenimento a lungo termine del controllo della patologia essudativa retinica o collocarsi nel trattamento delle forme della wet AMD caratterizzate da dimensioni della lesione < 4.500 μm come ha dimostrato lo studio di Nishimura et al. [22] che ha confrontato pegaptanib con ranibizumab entrambi somministrati con uno schema di induzione con 3 iniezioni intravitreali nei primi tre mesi, seguite da trattamento PRN, ottenendo risultati sugli outcome visivi assolutamente sovrapponibili a parità di numero di somministrazioni [22].

Questa logica è supportata da una review di Neri et al. [23] sui dati clinici sull’uso sequenziale del pan-VEGF non-selettivo (ranibizumab e bevacizumab) seguito dall’inibitore selettivo VEGF (pegaptanib) nel trattamento dell’AMD neovascolare. I dati degli studi suggeriscono che l’inibizione pan-VEGF offre sicuramente un controllo ottimale dell’attività neovascolare, ma sarebbe in realtà poco prona ad offrire un rapporto costo-efficacia favorevole rispetto al COMBO therapy con agenti anti-VEGF selettivi che offrono un rispetto dell’omeostasi biologica tissutale nel trattamento a lungo termine. È importante quindi come la potenza dei pan-anti-VEGF sortisca un controllo efficace, ma abbia ancora delle zone d’ombra su quanto potenzialmente osservabile nel lungo temine. Lo start up della terapia dovrebbe essere comunque eseguito tramite utilizzo di un pan-VEGF inibitore che reca nella propria architettura biologica il concetto di “tolleranza zero” nei confronti dell’azione patologica hic et nunc del VEGF sulla fisopatologia dell’affezione. Tuttavia, si vuole sottolineare come questo atteggiamento non sarebbe valido nel caso si volesse invece mantenere l’omeostasi biologica di quei tessuti che necessitano degli altri VEGF, che fungono da survival factor in una struttura già danneggiata nella sua architettura. Il razionale di vantaggio economico si sposerebbe quindi bene con quanto riportato in letteratura riguardo la safety di tali trattamenti. Infatti, la grande attenzione dedicata alla struttura della retina, ha di fatto distratto l’attenzione da altre strutture che potrebbero essere coinvolte nella patofisiologia del danno iatrogeno da VEGF-A blocking, come evidenziato dalla letteratura che descrive i potenziali rischi delle terapie pan-VEGF inhibitory [24]. Inoltre, accanto a tali evidenze, vi è una letteratura che prova la bontà di quanto ipotizzato sulla combinazione di pan-VEGF e anti-VEGF selettivo [17]. Nel dubbio, non si ritiene illogico adottare la procedura che garantisca il maggior grado di sicurezza, associata ad efficacia e miglior rapporto costo/beneficio.

Conseguentemente, la terapia di combinazione sembrerebbe essere la strategia più ragionevole in questo momento. A supporto di ciò, vi sono studi che dimostrano come non appena inizi il processo neovascolare patologico, il titolo di VEGF165 aumenta molto di più che durante la neovascolarizzazione fisiologica. In parallelo, questo stimolo spinge significativamente verso l’adesione leucocitaria che è espressione indiretta della neovascolarizzazione patologica. In modelli animali, pegaptanib ha efficacemente soppresso sia l’adesione dei leucociti e sia la neovascolarizzazione patologica. È interessante notare che pegaptanib ha avuto poco o nessun effetto sulla trama vascolare fisiologica. Al contrario, il blocco dei farmaci pan-VEGF causa cambiamenti significativi sia nella neovascolarizzazione patologica e sia sull’architettura fisiologica della trama vascolare retinica. Inoltre, l’uso di agenti selettivi, come pegaptanib in entrambe le fasi di induzione e di mantenimento può essere particolarmente importante nei pazienti con gravi comorbidità sistemiche, particolarmente quelle a carattere cardiovascolare, che necessitino di terapia anti-VEGF a lungo termine per la wet AMD.

In conclusione, si ritiene che nuovi concetti possano essere evincibili nei confronti della terapia anti-VEGF selettiva, che non appare un trattamento competitor degli inibitori pan-VEGF, ma si prefigura come un partner di mantenimento ottimale in termini di efficacia ed economicamente vantaggioso.

Si attendono, quindi, ulteriori dati dalla letteratura sulla bontà di metodiche precedentemente vagliate (LEVEL) al fine di validare e confermare tecniche a tutt’oggi identificate come promettenti, ma che potrebbero divenire il gold standard per il trattamento della AMD a carattere essudativo.

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