Valutazione dei rischi connessi all’utilizzo di prodotti farmaceutici e parafarmaceutici contenenti piante medicinali
Cristiano Colalto 1
1 Farmacista, Specialista in Farmacologia. Ordine dei Farmacisti di Verona
Abstract
The increasing interest in natural and complementary products for the treatment of many different diseases leads to important concern about their safety. Phytotherapy and dietary supplementation with herbal products can be useful in clinical practice, but health care professionals should carefully consider a comprehensive clinical risk assessment. Recognition of adverse events related to the use of medicinal herbs should involve a complete analysis of their main characteristics, together with the assessment of patients’ clinical conditions, concomitant drug intake and history of use. This process is important, not only because it may prevent adverse events, but also to improve pharmacovigilance reports.
Keywords: Phytotherapy; Herbal medicines; Pharmacovigilance; Clinical risk assessment
Evaluation of risks related to the use of pharmaceutical and parapharmaceutical herbal products
Pratica Medica & Aspetti Legali 2012; 6(1): 31-37
Introduzione
Negli ultimi anni si sta assistendo a un crescente aumento del consumo di prodotti erboristici a base di piante medicinali. La definizione di prodotto erboristico non è precisata in alcuna legge, ma si possono intendere principalmente due categorie di prodotti: quelli di qualità “farmaceutica”, registrati al Ministero della Salute come farmaci, e i prodotti “salutistici”, registrati presso il Ministero della Salute come integratori. Volendo compiere una distinzione netta, i primi rappresentano un’indicazione d’uso per il trattamento curativo di stati patologici, e rispondono alle stesse rigide regolamentazioni per la produzione dei farmaci attraverso il rispetto delle Good Manifacturing Practice (GMP). Gli integratori erboristici, invece, dovrebbero rappresentare esclusivamente una supplementazione dietetica per il “mantenimento di uno stato di salute”, e devono garantire nella fase di fabbricazione le stesse norme igienico-sanitarie necessarie per la produzione degli alimenti. Sebbene vi siano maggiori garanzie di qualità ed efficacia con la classificazione a “farmaco” del prodotto erboristico, praticamente però gli “integratori” erboristici rappresentano la maggiore quota di mercato. Questi ultimi si propongono di fatto a livello commerciale come prodotti recanti effetti curativi. Questa paradossale contraddizione accade per una serie di problematiche connesse al nebuloso inquadramento legislativo che da oltre un decennio tenta una definitiva collocazione dei prodotti erboristici.
Volendo compiere una valutazione del rischio clinico connesso all’uso di questi prodotti, si possono distinguere tre principali aree in cui compiere analisi e adottare azioni e considerazioni utili al miglioramento della pratica clinica. La prima rappresenta l’analisi dei prodotti assunti dal paziente, la seconda area analizza i rischi intrinseci connessi al paziente/consumatore, la terza riguarda la corretta gestione clinica da parte dell’operatore sanitario.
Valutazione del rischio clinico
La valutazione del rischio clinico connesso all’utilizzo dei prodotti a base di piante medicinali è già stato descritto da De Smet, per quanto riguarda il rischio di interazioni tra prodotto erboristico e farmaci [1]. Un processo di valutazione del rischio clinico è generalmente diviso in tre fasi:
- il riconoscimento;
- l’eliminazione o la riduzione del rischio individuato;
- la valutazione della correttezza del procedimento adottato.
La corretta identificazione e valutazione dei rischi data dall’analisi delle evidenze disponibili e dalle probabilità e significatività di un evento è il passaggio più importante e difficile nel caso si volessero valutare degli effetti clinici non voluti correlati all’uso di prodotti erboristici. Questo perché vi è la presenza di fattori di rischio relativamente al prodotto erboristico e al paziente che sono di difficile determinazione, e possono condizionare la severità e l’incidenza di un fenomeno [1].
A tal proposito un documento dell’US Department of Health and Human Service riporta come il sistema di farmacovigilanza connesso all’utilizzo degli integratori alimentari rilevi in minima parte gli eventi avversi connessi all’utilizzo degli stessi, compresi quelli a base di piante medicinali [2].
I pochi dati disponibili illustrano come siano addirittura i pazienti a non segnalare al professionista sanitario gli eventi avversi connessi all’uso di prodotti erboristici. A tal proposito, uno studio inglese condotto da Barnes e collaboratori riferisce che il 69% dei pazienti non si rivolge al medico per segnalare un evento avverso associato all’uso di prodotti erboristici [3], percentuale simile a quella del 61,7% riportata in un analogo studio italiano [4]. Altrettanto negativi sono i numeri che riguardano la qualità delle segnalazioni di eventi avversi associati a questi prodotti, e compilate dai professionisti sanitari. Uno studio inglese, infatti, indica che il 68,5% di queste segnalazioni non fornisce abbastanza informazioni per consentire una valutazione dell’evento [5]. Non si deve rimanere sorpresi da queste percentuali: secondo il report dell’ US Department of Health and Human Services, è la stessa mancanza di informazioni farmacologiche cliniche e pre-cliniche a disposizione di medici e farmacisti a limitare le segnalazioni di eventi avversi associati a prodotti erboristici [2]. Contemporaneamente si assiste a un aumento continuo dei volumi di vendita e della diffusione di questi prodotti attraverso i più diversi canali di commercializzazione, con il conseguente instaurarsi di un circolo vizioso. Infatti, se al continuo aumento della commercializzazione di questi prodotti erboristici non corrisponde un incremento della loro conoscenza scientifica da parte dei professionisti sanitari, vi è un crescente rischio di errate valutazioni cliniche di eventi avversi o interazioni farmacologiche nei pazienti che si curano con le piante medicinali.
Valutazione di un prodotto erboristico
La fitoterapia è una valida strategia farmacologica nel trattamento di molte malattie. Essa rappresentava il primo rimedio nelle più comuni patologie fino a poco meno di un secolo fa, soppiantata solo dall’introduzione dei farmaci di sintesi che, essendo purificati e standardizzati, portarono maggior sicurezza ed efficacia nei trattamenti farmacologici. Non solo. Molti dei farmaci di sintesi prodotti oggi, come l’acido acetilsalicilico, furono scoperti grazie all’utilizzo di estratti di piante medicinali che vantavano effetti terapeutici dovuti a quel principio attivo [6].
Come già riportato nell’introduzione, si possono distinguere varie tipologie di prodotti erboristici. Il primo è il farmaco fitoterapico, prodotto con le rigide norme di Good Manifacturing Practice che ne assicurano la qualità del processo di produzione e una certificazione dei processi da parte degli enti di regolamentazione internazionalmente riconosciuti come Food and Drug Administration (FDA) o European Medicines Agency (EMA). La caratteristica principale di questi farmaci è che sono costituiti da estratti di piante medicinali, altamente standardizzati e titolati nel contenuto del principale principio attivo presente nella pianta e con caratteristiche farmacologicamente attive. In Europa questi farmaci seguono un processo di autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) facilitato rispetto ai farmaci di sintesi poiché a questo tipo di prodotti, in quanto presenti da secoli nelle farmacopee europee, è riconosciuto un utilizzo “tradizionale” e perciò esente dalla presentazione di dossier farmacologici e tossicologici, obbligatori per i nuovi farmaci di sintesi [7]. Questo tipo di informazioni, ricavate da dati di letteratura, sono contenute nelle monografie comunitarie stilate dall’EMA per le piante medicinali che sono riconosciute avere un utilizzo “tradizionale” [8]. Sebbene questa tipologia di prodotti rappresenti quella a maggiore efficacia farmacologica e qualità dei processi di produzione, è anche la tipologia meno presente nel mercato dei prodotti erboristici. Questo principalmente per i lunghi tempi burocratici per l’approvazione dell’AIC, oppure per i costi della produzione nel rispetto delle norme GMP e quindi dell’utilizzo di estratti altamente purificati, standardizzati e certificati, certamente i più costosi presenti nel mercato.
La seconda tipologia di prodotti erboristici è quella inserita nella categoria degli integratori alimentari, ed è vendibile in ogni esercizio commerciale di tipo alimentare oltre che nelle farmacie ed erboristerie. Per produrre questo tipo di prodotti in Italia è sufficiente allestire un laboratorio, darne notifica all’ULSS di zona e al Ministero della Salute, e rispettare le norme dell’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) [9]. Questi integratori non possono vantare funzioni terapeutiche, ma solo effetti nutritivi e fisiologici. Le anomalie nel sistema legislativo che stanno dietro la registrazione e classificazione di questi prodotti, fanno sì che in Italia alcuni dei prodotti registrati come integratori siano invece classificati in altri Paesi europei come “farmaci”. In questo caso è sufficiente infatti evitare di esplicitare le possibili proprietà curative in etichetta.
La presenza di questa zona grigia per i prodotti erboristici non “farmaci” fa sì che in pratica vi siano due tipologie di “integratori alimentari”. Il primo tipo è quello di un prodotto qualitativamente ottimo che, sebbene la normativa non lo richieda, viene prodotto con sistemi di qualità più sicuri ed efficaci della HACCP e con estratti standardizzati altamente purificati e controllati. Questi integratori sono prodotti da aziende che, per motivi commerciali e burocratici, scelgono un iter autorizzativo piuttosto che un altro. La seconda tipologia è quella caratterizzata da prodotti che contengono estratti non standardizzati e di qualità non equivalente a quella della prima tipologia. Il prodotto finale di questi estratti non potrà avere lo stesso livello di qualità, sicurezza ed efficacia.
Vi è anche una terza tipologia di prodotti erboristici che è rappresentata dalle preparazioni estemporanee e miscele di erbe preparate in farmacia ed erboristeria, come le tisane e decotti. Le preparazioni di questi prodotti devono avvenire in condizioni di igiene e HACCP e la qualità delle materie prime usate è stabilita dal titolare dell’esercizio commerciale.
Nella valutazione del rischio clinico di effetti avversi, interazioni o tossicità del prodotto, l’operatore sanitario deve analizzare la tipologia di prodotto attraverso lo studio dell’etichetta. In questo senso è importante definire come “principale componente fitochimico” la molecola o la famiglia chimica presente nell’estratto e che esercita un effetto farmacologico. Nei prodotti erboristici il dato quantitativo del principale componente fitochimico è espresso nel titolo dell’estratto, cioè dalla concentrazione di questa molecola espressa in peso o percentuale rispetto all’intero estratto. La presenza di questo dato consente innanzitutto la certezza che si sta utilizzando un estratto standardizzato, cioè analizzato quali-quantitativamente. Il titolo dell’estratto consente quindi di calcolare il dosaggio giornaliero assunto dal paziente e confrontarlo con i dati farmaco-tossicologici presenti in letteratura. L’assenza di questo dato, al contrario, impedisce un’accurata valutazione delle dosi dei principali componenti fitochimici presenti nell’unità posologica assunta dal paziente e rende difficile ogni tipo di anamnesi. Infine, uno dei rischi tossicologici di un estratto non controllato a base di piante vegetali è la presenza di inquinanti ambientali, chimici o microbici che possono essere un’importante causa di effetti avversi nel consumatore. Importante è quindi, nel caso in cui si manifestino eventi avversi riconducibili all’assunzione di prodotti erboristici, sottoporre questi a controlli chimico-biologici. Questo controllo ha ragione di essere svolto alla luce di quanto dimostrato da tanti lavori pubblicati in letteratura [10-13], in cui i dati dichiarati in etichetta a volte non sono corrispondenti all’effettivo contenuto della confezione.
Eventi avversi associati all’uso di prodotti erboristici
Il ricorso alla fitoterapia e all’uso di integratori erboristici può rappresentare una valida scelta terapeutica nel trattamento di un’ampia varietà di patologie, se compiuta con la conoscenza e il parere di un esperto professionista sanitario. Tuttavia spesso il consumatore ricorre all’auto-somministrazione di questi prodotti nella convinzione che, in qualsiasi caso, “naturale” significhi “sicuro” e sinonimo di “benessere”. Al contrario, non ci si ricorda mai che i veleni più potenti sono, appunto, quelli naturali.
Gli effetti avversi che possono provocare i prodotti erboristici derivano da due cause. La prima può essere intrinseca all’azione farmacologica dei componenti presenti nell’estratto, o dai loro metaboliti. Oppure gli effetti avversi possono dipendere da problematiche esterne all’estratto della pianta, come ad esempio nel caso di presenza di contaminazione microbica o chimica, dovuta a un’errata preparazione o conservazione, o effettuate anche attraverso sofisticazioni o adulterazioni. Nell’ultimo caso rientra, ad esempio il caso del ritiro commerciale dei prodotti a base di Coleus forskohlii, pianta con proprietà dimagranti, effettuato dal Ministero della Salute a causa della presenza nel prodotto di alcaloidi del tropano di origine vegetale (solanaceae) aventi proprietà allucinogene, scopolamina e atropina [14,15].
Come accade per i farmaci, anche i prodotti erboristici possono provocare diversi tipi di eventi avversi. Un serio evento avverso provocato da un prodotto erboristico può essere di tipo B (secondo la classificazione delle reazioni avverse stilata dalla Farmacovigilanza), cioè collegato a eventi rari, non prevedibili, e perciò difficili da studiare. Gli effetti possono essere di natura immunologica e non, e si possono avere su pazienti con condizioni predisponenti sconosciute. Rientrano a pieno titolo in questa categoria le epatiti fulminanti provocate dall’assunzione di prodotti a base di tè verde. Sembra infatti che alcuni metaboliti dell’epigallocatechina-3-gallato possano provocare notevole stress epatico, richiedendo a volte addirittura il trapianto dell’organo [16,17]. In particolare si sospetta che a provocare tali reazioni possa essere, oltre che un’ignota predisposizione genetica, anche un effetto additivo di farmaci assunti contemporaneamente.
L’evento avverso può invece essere prevedibile perché intrinseco nel meccanismo d’azione, come nel caso dei lassativi a base di senna o cascara, che agiscono attraverso l’irritazione che i derivati antrachinonici provocano sulle pareti intestinali. L’uso continuato di questi prodotti può indurre un danno epiteliale e causare alterazioni elettrolitiche: nei pazienti che ne fanno uso prolungato si ha spesso la presenza di flatulenza, crampi e dolore addominale, sintomi del tutto simili a quelli dovuti all’eccessiva costipazione per cui sono stati assunti i rimedi erboristici, e quindi di difficile diagnosi differenziale [18].
Un’altra problematica riguardante la sicurezza d’uso dei prodotti erboristici, e quindi importante nella valutazione del rischio clinico, è rappresentata dal rischio di interazioni farmacologiche dovute all’uso concomitante di farmaci di sintesi e prodotti erboristici. L’evidenza più famosa e ripresa in tutti i manuali di farmacologia è quella provocata dai prodotti a base di iperico per uso orale, efficaci nel trattamento di depressioni lievi e moderate e con un profilo tossicologico decisamente migliore rispetto ai farmaci di sintesi con la stessa indicazione d’uso [19]. La sua unica limitazione sta nella proprietà del derivato acilfluoroglucinolo iperforina nell’interagire col recettore PXR (Pregnane X Receptor) presente nell’epitelio intestinale ed epatico, provocando così un aumento significativo del metabolismo di altri farmaci. Il principale farmaco in cui è stato studiato questo tipo di interazione è ciclosporina, la cui mancata azione farmacologica associata al ristretto indice terapeutico provoca pericolose reazioni di rigetto d’organo in pazienti trapiantati. Da qui si sono studiati altri estratti di iperico in grado di esplicare l’azione antidepressiva ed evitare gli spiacevoli effetti collaterali. Si è visto così che l’estratto deprivato di iperforina aveva un’azione quasi nulla sul metabolismo di ciclosporina, rispetto all’estratto con iperforina, garantendo le stesse azioni antidepressive [20]. Ad oggi, l’eccessiva attenzione verso questo effetto collaterale prevedibile dell’estratto di iperico ha fatto sì che i farmaci a base di questa pianta vengano scarsamente utilizzati, sebbene sia noto il loro vantaggio clinico rispetto a farmaci di sintesi con stessa indicazione terapeutica (non certo privi di importanti effetti collaterali) [19].
L’utilizzo di prodotti erboristici nella pratica clinica può essere contemporaneo all’utilizzo di altri farmaci, sia per migliorarne il risultato finale, sia per mitigarne gli effetti collaterali. Un interessante esempio in questo senso è quello riportato in uno studio clinico retrospettivo con analisi multivariata pubblicato recentemente su PLoS One che analizza gli effetti dell’associazione di farmaci antipsicotici ed erbe tradizionali cinesi su pazienti schizofrenici [21]. Il 34,6% dei 1795 pazienti inclusi nello studio, infatti, associava rimedi erboristici alla terapia tradizionale farmacologica per il trattamento della schizofrenia. Gli outcome misurati dai ricercatori hanno evidenziato un miglioramento statisticamente significativo degli outcome clinici primari nel gruppo che usava i rimedi erboristici in associazione alla terapia farmacologica rispetto al gruppo di controllo che utilizzava solamente i farmaci antipsicotici (61,1% vs 34,3%; OR = 3,44; IC95% = 2,80-4,24). Tuttavia nello stesso studio è emersa una maggiore incidenza di outcome negativi (cioè di eventi clinici che hanno richiesto ospedalizzazione) associati alla malattia psicotica nel gruppo che usava i prodotti erboristici rispetto al gruppo di controllo (7,2% vs 4,4%; OR = 2,06; IC95% = 2,06-4,83) [21]. Questo a dimostrazione del fatto che l’associazione di prodotti erboristici può favorire il miglioramento clinico della patologia, provocando però un aumentato rischio clinico di effetti avversi.
Un fattore importante che determina in maniera significativa l’incidenza di eventi avversi nei pazienti in terapia farmacologica è il numero di farmaci assunti [22]. In particolare la popolazione anziana è quella a maggior rischio di eventi: più del 40% degli anziani (> 65 anni) assume settimanalmente 5 o più farmaci differenti con una probabilità del 35% di sperimentare una reazione avversa, mentre il 12% della popolazione anziana impiega 10 o più tipi di farmaci durante la settimana [22-27] con un conseguente aumento del rischio clinico. Un fattore importante da tenere sempre in considerazione nella pratica medica è quindi la polifarmacoterapia, che aumenta la suscettibilità del paziente nei confronti di eventi avversi.
Gli studi clinici che analizzano le interazioni farmacologiche tra erbe e farmaci avvengono tramite l’utilizzo del disegno crossover su un numero limitato di soggetti e con una serie di farmaci “sonda” specifici per analisi farmacocinetiche. Si ottengono così indicazioni sulla via metabolica con cui l’estratto interferisce. In questo modo si hanno indicazioni precise che aiutano la determinazione del rischio di interazioni farmacocinetiche con terapie farmacologiche in atto. Negli studi pubblicati, tuttavia, emerge un’alta eterogeneità di risultato finale tra i soggetti. Approfonditi studi di farmacogenetica hanno infatti associato un diverso rischio di interazioni con differenti polimorfismi genetici di proteine coinvolte nel metabolismo di primo passaggio dei farmaci assunti per via orale. Il principale risultato evidenziato è che ci sia una possibile predisposizione genetica a interazioni con estratti erboristici, dimostrata in alcuni studi per l’iperico e ginkgo biloba [28,29]. Se questo rende ancora più complicato il quadro clinico per la determinazione del rischio clinico, e quindi della sicurezza del paziente, si devono sempre tenere in considerazione altri fattori critici, come le caratteristiche dei farmaci assunti contemporaneamente e le caratteristiche cliniche generali del paziente.
Nella valutazione del rischio clinico rientra anche il rischio teratogeno legato all’uso di prodotti erboristici. Ad oggi pochissimi studi hanno affrontato la questione dell’utilizzo di prodotti erboristici nelle donne in gravidanza [30]. Ciononostante il binomio naturale = sicuro è applicato anche in questo delicatissimo contesto clinico, in cui i meccanismi tossicologici sono vari, complessi e di difficile determinazione.
Indicazioni per il professionista sanitario
Nella valutazione del rischio clinico, il primo passaggio è quello di identificare il rischio. Di fronte alla modalità di assunzione di questi prodotti, che per lo più avviene in maniera autonoma da parte del paziente, molti studi presenti in letteratura hanno evidenziato diverse percentuali di incidenza dell’uso di questi prodotti. Un interessante studio canadese ha preso in considerazione una popolazione di 373 pazienti in cura per problemi osteoarticolari, il 42,9% della quale riferisce di assumere prodotti erboristici [31]. Solamente il 19,8% di questi ultimi ha riferito di essere seguito da un professionista sanitario con specializzazione a riguardo. Della popolazione iniziale, 282 pazienti fanno uso di farmaci su prescrizione medica, e il 56% di questi pazienti prende farmaci per il sistema cardiocircolatorio. In questo caso i ricercatori hanno evidenziato come il 28,6% dei pazienti che assumono farmaci anticoagulanti contemporaneamente utilizzino prodotti erboristici che possono variare l’INR (International Normalized Ratio). Dei pazienti che assumono anticoagulanti, il 50% circa ha avuto un evento ischemico passato e quindi presenta un aumentato rischio di eventi ischemici futuri. I ricercatori che hanno compiuto questo studio hanno altresì evidenziato come ci sia una scarsa comunicazione medico-paziente sul tipo di prodotti assunti [31].
La scarsa comunicazione tra il professionista sanitario e il paziente è ripresa come fattore critico anche in una recente pubblicazione che propone dei suggerimenti rivolti al medico per la valutazione degli integratori alimentari [32]. Per meglio “identificare un possibile rischio”, gli Autori infatti consigliano di “incontrare” il paziente in un terreno neutro, senza pregiudizi riguardo questo tipo di prodotti. Dopo tale approccio il medico deve scoprire le ragioni che hanno portato il paziente a questa scelta, e deve essere preparato a valutare criticamente l’uso di questi prodotti. Un’altro consiglio riportato è quello di domandare sempre ai pazienti se assumono integratori, ed eventualmente valutare il prodotto tramite l’etichetta. Fondamentale è quindi per gli stessi autori avere una formazione sulla fitoterapia, sugli utilizzi e sul rischio tossicologico delle piante più note, così da poter individuare eventuali rischi di reazioni avverse. Nel caso in cui si debba segnalare il sospetto di una reazione avversa agli uffici di farmacovigilanza, è di estrema utilità indicare il lotto del prodotto e avere a disposizione un campione per eventuali analisi.
Un elemento di complicazione è certamente rappresentato dalla grande quantità di proposte commerciali, differenti spesso nella qualità delle materie prime e metodi di produzione. In questo contesto è eticamente inaccettabile che il paziente e il professionista sanitario non possano ricevere un’adeguata informazione sul prodotto “avente effetti fisiologici” che ne evidenzi i limiti “curativi”. Altrettanto negativo è il fatto che non vi siano enti pubblici che svolgano compiti di garante attraverso controlli continui, come le agenzie nazionali del farmaco per le industrie farmaceutiche.
Conclusioni
La fitoterapia e l’utilizzo di piante medicinali nella pratica clinica possono rappresentare una strategia efficace nel trattamento di numerose patologie.
La continua crescita del mercato di prodotti erboristici evidenzia la necessità di una continua conoscenza a riguardo da parte degli operatori sanitari. Infatti, sia il grande numero di piante proposte a livello commerciale, sia la relativa mancanza di dati clinici sulla sicurezza e l’uso, unita alla grande eterogeneità nella garanzia di qualità e di produzione che è presente tra questi prodotti, rendono ancor più difficile una valutazione uniforme di questi da parte degli operatori sanitari.
In particolare, il rischio clinico connesso all’uso di questi prodotti deve essere noto agli operatori sanitari, che devono essere in grado di identificarlo nelle varie tipologie di paziente attraverso un’opportuna comunicazione, di riconoscerne la causa attraverso un’adeguata educazione e informazione continua, mettere in atto le strategie di riduzione del rischio, ed essere protagonisti attivi del sistema di farmacovigilanza dei prodotti erboristici.
Disclosure
L’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.
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