PM&AL 2011;5(3)85-87.html

L’incapacità temporanea al lavoro e la certificazione di malattia

Giuseppe Vitiello 1

1 Coordinatore medico legale regionale INPS del Piemonte

Come abbiamo avuto modo di osservare più volte, anche su questa stessa rivista, l’atto del certificare è spesso per il medico un’incombenza causa di dubbi, perplessità e preoccupazioni. Negli anni, inoltre, questa incombenza è diventata sempre più gravosa, tanto che ormai il rilascio di un certificato di malattia è uno degli atti medici più richiesti.

In relazione al rapporto di lavoro, la malattia si qualifica come l’evento da cui deriva un’impossibilità allo svolgimento dell’attività lavorativa non imputabile al lavoratore; con la conseguenza che questi, assolto l’onus probandi mediante l’invio del certificato medico attestante l’esistenza della malattia, ha diritto alle prestazioni previste all’art. 2110 cc, e cioè la conservazione del posto di lavoro, l’accredito figurativo della contribuzione, il trattamento economico.

Per quanto riguarda il rapporto previdenziale, il certificato di malattia consente al lavoratore di ottenere l’indennità economica di malattia, giusto il disposto dell’art. 2 della Legge 29 febbraio 1980 n. 29 a mente del quale «nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa il medico curante redige il certificato di diagnosi e l’attestazione sull’inizio e la durata presunta della malattia».

Per il curante rilasciare un certificato medico rappresenta un obbligo (l’art. 24 del Codice Deontologico stabilisce infatti che «il medico è tenuto a rilasciare al cittadino certificazioni relative al suo stato di salute, che attestino dati clinici direttamente constatati e/o oggettivamente documentati»; nel fare ciò, il medico è tenuto alla “massima diligenza”, che si esprime con un’attenta “registrazione dei dati” e con la formulazione di giudizi “obiettivi e scientificamente corretti”). Il certificato è dunque una testimonianza scritta di fatti personalmente rilevati dal medico nell’esercizio della professione e deve rispondere a particolari requisiti di chiarezza, completezza e veridicità.

Alcuni di questi requisiti sono ovvi quanto irrinunciabili: la firma del medico, la data del rilascio (che non può che essere quella in cui è stata effettuata la visita) e le generalità del soggetto cui si riferisce.

Tra i requisiti formali vanno richiamati anche quelli che ineriscono la chiarezza: es. la calligrafia (che deve essere leggibile e non prestarsi a equivoci interpretativi), la terminologia usata (che deve essere comprensibile, evitando l’uso di sigle e/o abbreviazioni), l’assenza di correzioni (non controfirmate dal medico).

Ma gli elementi sostanziali su cui è particolarmente opportuno soffermarsi sono la diagnosi e la prognosi.

Il certificato medico, secondo il Codice Deontologico, è «una testimonianza scritta di fatti di natura tecnica constatati dal medico nell’esercizio professionale e dei quali esso è destinato a provare la verità»: nel nostro caso, i “fatti” di natura tecnica sono rappresentati dalla malattia, che come sappiamo tutti è la «modificazione peggiorativa dello stato anteriore a carattere evolutivo», ovvero è la disfunzionalità evolutiva.

Tutti sappiamo però che oggetto della tutela non è la “malattia” in quanto tale, ma solo la malattia che causa un impedimento lavorativo, tanto che possiamo concordare con l’affermazione secondo cui «la malattia indennizzabile è quell’alterazione dello stato di salute che richiede cure mediche e comporta una temporanea incapacità lavorativa specifica».

Su questo punto penso non vi possano essere incertezze o equivoci. L’art. 2110 considera come malattia degna di tutela solo quella che produce un impedimento lavorativo, che cioè pone il lavoratore nella condizione di non potere adempiere, per causa a lui non imputabile, all’obbligazione contrattuale di fornire le prestazioni lavorative richieste.

Sul punto è chiara la stessa Legge 29 febbraio 1980 n. 33, quando all’art. 2 esplicitamente richiama le «infermità che comportano incapacità lavorativa». Né la Legge afferma un principio “nuovo”: infatti, già la Legge 11 gennaio 1943 n. 138 – che aveva istituito l’INAM – prevedeva l’erogazione di un’indennità economica in caso di malattia che impedisca lo svolgimento del lavoro.

La giurisprudenza non è stata da meno, fissando il principio generale secondo cui «la nozione di malattia è funzionale ai diversi istituti giuridici». In altri termini, non esiste “una” definizione di malattia, ma più definizioni, in funzione dello specifico bene tutelato.

Tutti sappiamo che in ambito previdenziale il bene tutelato non è l’integrità psicofisica in sé considerata, ma la capacità lucrativa (art. 38 Cost.); ragione per cui le tutele previdenziali si estendono a coprire quei rischi – analiticamente indicati all’art. 38 Cost. – come ad esempio l’invalidità o la malattia, che possono compromettere permanentemente o temporaneamente la capacità di produrre reddito creando una situazione di bisogno.

L’affermazione di questo principio ha comportato, tra l’altro, che sia riconosciuto il diritto all’indennità di malattia anche nei casi in cui non sussista una vera e propria “malattia” secondo i criteri medico-legali, bensì una «impossibilità alla prestazione lavorativa non imputabile al lavoratore, connessa mediante un nesso di causalità anche mediato ed indiretto ad uno stato patologico che richiede per effettive esigenze curative o riabilitative la sottoposizione a cure»: così Cassazione 17 ottobre 1988 n. 5634.

Sulla base di tale principio, è stata riconosciuto come “indennizzabile” il periodo di malattia dovuto a ricovero che si concluda con il mancato accertamento di condizioni morbose; il periodo di allontanamento dal lavoro del portatore sano di agenti patogeni; il periodo di ricovero del donatore d’organo.

Con questo si vuole sottolineare come venga posto in primo piano soprattutto il concetto di “incapacità lavorativa”, mentre la malattia in tanto rileva, in quanto causa, anche indiretta o mediata, di tale incapacità.

A fortiori si ricorda la sentenza 23 febbraio 1998 n. 1947, con cui la Cassazione dipanò l’intricata matassa del rapporto tra malattia e ferie. Orbene, in tale pronuncia la Suprema Corte ha stabilito che la malattia insorta durante le ferie ne interrompe il godimento nel caso in cui si sostanzi in un’alterazione dello stato di salute incompatibile con la funzione propria del periodo feriale. Come si vede, anche in tale caso non assumono rilevanza “tutte” le malattie, ma solo quelle che sono tali da risultare incompatibili con il godimento delle ferie. Anche in tale contesto il bene tutelato non è quindi l’integrità psicofisica, ma il diritto del lavoratore alle ferie, a godere della funzione ristoratrice del periodo feriale.

Questo per dire che è evidente che nel momento in cui al medico si chiede il rilascio di malattia, in realtà si chiede, o comunque si chiede anche, un’attestazione di temporanea incapacità lavorativa. In altri termini, il medico curante con il rilascio del certificato di malattia in realtà viene chiamato a svolgere un duplice ruolo: diagnostico-clinico per quanto attiene alla diagnosi, cioè all’accertamento della malattia; ma valutativo-medico-legale, per quanto attiene al giudizio sull’incapacità lavorativa.

Il certificato, in quanto testimonianza scritta di fatti personalmente constatati dal medico, non può di norma presentare dizioni diagnostiche che facciano riferimento a elementi solo sintomatologici riferiti dal paziente, ma privi di rilievi obiettivi. Con questo non si intende certo negare che nella patologia umana esistano sindromi soggettive, o che esse siano spesso verosimili ancorché non dimostrabili con le comune metodiche: tuttavia, considerando che il certificato è destinato a dare per certa una realtà che il medico personalmente accerta, appare prudente il comportamento del sanitario che in siffatte evenienze si limita a certificare “asserita astenia” o “asserita cefalea”, eventualmente aggiungendo ciò che sul piano storico-clinico egli conosce.

L’attuale sistema di tutela della malattia prevede uno specifico potere di certazione in ordine al diritto alle prestazioni derivanti dall’evento malattia sia al datore di lavoro, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, sia all’INPS, per quanto riguarda il rapporto giuridico previdenziale.

Tale sistema di controllo è basato sulle visite medica di controllo domiciliari, che il datore di lavoro può direttamente chiedere alle ASL o all’INPS, e che l’INPS a propria volta può disporre d’ufficio sulla base di alcuni criteri generali, prognostico e diagnostico in primo luogo. La visita medica di controllo è un’attività medico-legale a tutti gli effetti, trattandosi di un accertamento sanitario eseguito per controllare le condizioni di salute di una persona attribuitive di particolari diritti e ostative di determinati doveri. Oggetto dell’accertamento non è tanto la sussistenza di uno stato di malattia, quanto di un’incapacità lavorativa assoluta, temporanea e specifica derivante dalla malattia stessa: ragione per cui la visita medica di controllo non può che concludersi con un giudizio prognostico, in ordine non tanto alla durata della malattia, quanto dell’incapacità lavorativa. Il medico di controllo si distingue dal semplice osservatore del fenomeno per la capacità tecnica di valutare sotto il profilo medico-legale lo stato di malattia: nessun limite può essere posto quindi alla sua potestà prognostica, se non quello suggerito dalla ragionevolezza, dalla congruità tra la mansione e l’incapacità al lavoro riscontrata.

Il medico di famiglia e il medico di controllo oggi hanno maturato ben salda la consapevolezza di partecipare con la loro attività certificativa a un preciso dovere sociale, che talora può produrre stridenti contrasti tra la relazione medico-paziente e la sua inevitabile proiezione sociale e amministrativa. Emerge allora un nuovo modo di intendere l’atto della certificazione, da vedersi come momento di arricchimento e di completamento dell’agire del medico, rispettoso dei diritti del paziente e della sua libertà, ma profondamente consapevole dell’esistenza della dimensione sociale della sua attività, acquisita ormai a punto fondamentale di riferimento per lo stesso concetto di salute; si afferma un dovere di lealtà a un tempo verso le Istituzioni e verso i pazienti, in cui non c’è posto né per intenti speculativi, né per attentati al legittimo esercizio di diritti e doveri, nella consapevolezza che il medico partecipa a un indirizzo pubblico che non può non esprimersi attraverso testimonianze coerenti con i doveri di solidarietà sociale. Si tratta di quella che è stata definita “etica della responsabilità”, fondata su una riflessione responsabile e severa, la stessa che illumina le decisioni mediche e le rende attuose e provvide.

Corresponding author

Giuseppe Vitiello

giusepp.vitiello@inps.it

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