PM&AL 2014;8(1)25-36.html

I conflitti in ambito sanitario e l’istituto dell’ospitalità. La ragione/regione dell’etica

Paolo Girolami 1

1 Dipartimento di scienze psicologiche, umanistiche e del territorio. Università “Gabriele D’Annunzio”, Chieti

Abstract

In this work the author proposes the basis of a global ethical theory trying to understand and solve conflicts in healthcare organizations. The principles of hospitality, which since antiquity has a central place in social rules system, may be useful in analyzing the origins and in limiting the effects of this conflicts. Starting from the idea that the hospitality is the most realistic phenomenological expression of ethics, the conflicts ethical management in healthcare organizations should involve improving hospitality rules knowledge by healthcare professionals towards patients and colleagues, regarding medicine as a place of hospitality, where everybody is the guest of everybody, and setting hospitality above every other requirements in healthcare organizations.

Keywords: Medical ethics; Conflicts in healthcare organizations; Hospitality; Conflicts management

The conflicts in healthcare organizations and the principles of hospitality. The reason/region of ethics

Pratica Medica & Aspetti Legali 2014; 8(1): 25-36

Corresponding author

Paolo Girolami

gir33@libero.it

Disclosure

L'Autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.

Introduzione

Qual è la ragione dei conflitti in campo sanitario? È riconoscibile uno spazio di trattazione dell’argomento che prescinda dalla separazione dei saperi e da considerazioni di ordine squisitamente sociologico, psicologico, legale, economico o attuariale? È possibile fare riferimento all’uomo in quanto essere in relazione con l’altro e individuare nell’esame di questa realtà relazionale, che si dipana dai primordi secondo precise regole e rituali, un’univoca chiave di lettura dei conflitti con i rispettivi rimedi ? È cioè possibile delineare i principi di una teoria etica che ci permetta di spiegare, in maniera unitaria, semplice, ordinata e ragionevole, i differenti aspetti del problema? In altre parole, l’etica è in grado di fornire delucidazioni circa la ragione dei conflitti nella pratica sanitaria e soprattutto di offrirci la possibilità di circoscriverne la portata?

Il compito non sembra facile tenuto conto della complessità del quesito iniziale, sul quale peraltro si è accumulata ormai una mole eterogenea di studi, dimostrata dalla vastissima letteratura scientifica, che non staremo a richiamare in questa sede, consistendo la principale ambizione di questo scritto in un approccio innovativo, quello appunto dello studio del problema nella prospettiva etica.

Le relazioni in pubblico e l’istituto dell’ospitalità

Avendo già fatto riferimento all’uomo, in quanto essere sociale, ci limiteremo ad alcune considerazioni basilari circa i principi e le modalità con le quali egli interagisce con gli altri. Sembra opportuno a questo proposito ricordare con Erving Goffman (dal quale trarremo solo alcuni spunti di orientamento senza attenerci in maniera sistematica al suo insegnamento) che, nelle relazioni in pubblico, ciascuno di noi si atteggia come un attore che vanta delle aspettative nei confronti degli altri, che si muovono anch’essi come attori sulla scena [1]. Affinché tali aspettative vengano soddisfatte sono necessari due requisiti: una certa coerenza con il ruolo che ciascuno riveste in questo gioco teatrale, atteggiamento in genere classificato come “contegno”, il quale, a sua volta, garantisce un’aura di “rispettabilità”, quindi di deferenza, di positiva attesa, da parte degli altri, di comportamenti consoni al ruolo (status). La delusione di questa aspettativa comporta un sentimento di sconcerto, e quando questo sconcerto si estende a una pluralità di individui si parla di scandalo. Contegno e rispettabilità sono dunque gli ingredienti base per interagire preservando la propria dignità nel rituale delle relazioni sociali.

Benché nello scorrere della vita passino per lo più inosservate, ognuno si attiene a delle regole di comportamento che sono facilmente decifrabili da parte degli altri in quanto facenti parte di un codice comportamentale condiviso, il rituale sociale. È interessante notare in quale misura, nella vita di relazione, ciascun agente sia attentissimo a preservare la sua immagine e a difendere il proprio ruolo, in altri termini a salvare la faccia, perché ogni azione che l’uomo compie in pubblico può essere letta come un “metterci la faccia”. Questo sforzo per salvare la faccia è facilitato dal fatto che l’agente sociale, in ciascuna società data, si muove all’interno di un universo di regole condivise. La capacità di rispettare tali regole costituisce la sua competenza sociale. Nonostante siano numerose le famiglie di regole a cui ciascuno si attiene minuto dopo minuto nei rapporti con gli altri, quindi in pubblico, esse consistono fondamentalmente in regole cerimoniali, che riconoscono, nella loro applicazione, un soggetto attivo e uno passivo. Il paradigma più interessante e più ricco di spunti per spiegare la relazione interpersonale asimmetrica secondo il binomio soggetto attivo - passivo, quindi “agente - paziente”, nonché l’istanza etica di porre rimedio a tale disparità attraverso un atto di riconoscimento, è rappresentato dall’istituto della “ospitalità”.

Onde evitare fraintendimenti e ancorare strettamente il nostro discorso al tema dell’etica che costituisce il tacito filo conduttore di questo scritto, diremo subito che i concetti di ospitalità ed etica si sovrappongono, indicando il termine originario greco êthos, da cui per l’appunto il sostantivo etica, l’abito, l’abituale, l’abitudine, l’abitare pacificamente con e in mezzo agli altri, quindi anche il lasciarsi abitare dall’altro (nel senso di accoglierlo e custodirlo). A questo proposito è interessante registrare il pensiero di Emmanuel Levinas, il quale, in “Totalità e infinito”, nel trattare il tema della dimora, in quanto abitazione, quindi luogo di accoglienza, rileva che la dimora scelta dall’uomo è l’assoluto contrario di un radicamento (e di una separazione) [2]. Possiamo spiegare questo passaggio, che può apparire un po’ oscuro, dicendo che il fatto di prendere dimora è il frutto dello sganciamento da un sito, di un errare, che l’ha preceduto e reso possibile. Secondo Levinas, dal punto di vista simbolico e valoriale, questo errare non è un di meno rispetto a l’installazione in un luogo, è invece un di più, in quanto l’errare implica l’incontro, l’apertura all’altro (e con essa la necessità di domandare ospitalità e di essere ospitali). Così l’ospitalità è il fatto concreto ed iniziale, potremmo dire l’antecedente necessario del raccoglimento in un luogo e dello stabilirsi in una dimora. Ma l’occupazione di questa dimora, in quanto contrassegnata filo-geneticamente dal primato dell’ospitalità, non può prescindere dall’attitudine e dalla necessità dell’uomo di considerarsi sempre come un ospite (di una città, di un’istituzione, di un’abitazione), in conformità all’immagine di colui che sta in mezzo agli altri e partecipa con essi alla vita della società. La società, in quanto realtà dinamica, conserva l’impronta del popolo in cammino, in cui l’ospitalità è per definizione vicendevole. È questa la dimensione etica dell’uomo.

Alcuni dati storici confermano l’importanza di questo istituto fin dall’antichità. Esso rappresenta infatti uno dei dispositivi relazionali più importanti della civiltà classica, di cui Omero nei suoi poemi ci dà larga testimonianza. Nella Grecia antica, colui che chiedeva ospitalità (in greco, xenos) era ricevuto secondo un cerimoniale ben preciso in quanto posto sotto la protezione di Zeus, definito Xenios, cioè protettore degli ospiti. Non appena si presentava al padrone di casa, l’ospite aveva il diritto di essere accolto e curato dai servitori. Costui era tenuto allora a rivelare il proprio nome, la propria stirpe, la propria patria a colui che lo aveva accolto, e, per regola di reciprocità, anche l’ospitante doveva fare altrettanto. Autorizzato a trattenersi senza limiti di tempo presso la casa dell’ospitante, al momento del commiato l’ospite veniva fatto oggetto di cospicui doni da parte dell’ospitante stesso a dimostrazione del proprio status: il dono infatti fa guadagnare in prestigio ciò che va perduto in termini materiali e implica il riconoscimento dello status di supremazia dell’ospitante stesso. Trattandosi di un istituto che si regge sulla dinamica della reciprocità, l’ospite sarebbe stato per sempre legato da vincoli di amicizia e di riconoscenza nei confronti dell’ospitante, tenuto ad un eguale condotta qualora i ruoli si fossero invertiti. La finalità di questo istituto consisteva originariamente nell’ampliamento della sfera relazionale in un mondo in cui il frazionamento della società in gruppi chiusi era fortemente diffuso e nel coinvolgimento, attraverso l’idea del dono, l’estraneo, (lo straniero, il forestiero), in un vincolo di alleanza e di amicizia. In Omero l’istituto dell’ospitalità è talmente importante che esso assume carattere ereditario: nella guerra di Troia il troiano Glauco e il greco Diomede, tenuto conto che i loro padri erano stati legati da vincoli di ospitalità, rinunciano al duello e si scambiano l’armatura [3]. Per parte sua, René Schérer, nel suo libro “Zeus hospitalier. Eloge de l’hospitalité”, dà ampio conto della centralità dell’istituto dell’ospitalità nell’Odissea, al punto di definire tale opera «le poème de l’hospitalité magnifique» [4].

Nella Bibbia, e in particolare nella Genesi [5], è narrato lo straordinario gesto di ospitalità di Abramo nei confronti di tre personaggi sconosciuti, che egli accoglie con tutti gli onori: a tale dono gli ospiti rispondono con un contro-dono: quello della fecondità insperata. L’ospitalità è quindi sempre feconda.

A ben vedere, l’istituto dell’ospitalità è fondato sull’idea che lo straniero, in quanto estraneo, è un potenziale nemico Da qui la necessità di una neutralizzazione precoce dei possibili conflitti generati da contatti con estranei. Il conflitto è pertanto presente in nuce nel concetto di ospitalità. L’ambiguità semantica di xenos nella differente accezione di ospite, estraneo, nemico, è attestata anche dalla lingua latina. A questo riguardo ci illumina Cicerone, il quale nel “De Officiis” attesta l’origine del termine “hostis” nemico, in quanto derivato del termine “hospes”, ospite [6], (attraverso la forma indicata dal celebre linguista Emile Benveniste di “hosti-pes”[7]). In epoca romana assai remota, con la cessazione di scambi commerciali tra clan, i loro componenti, che già si designavano reciprocamente come ospiti in ragione dei frequenti contatti, vennero ad assumere la connotazione di estranei alla comunità e quindi nemici, da cui la trasformazione dell’hospes in hostis.

Quello che è interessante notare nell’istituto dell’ospitalità è la dinamica assoggettamento-gratitudine che si realizza sul terreno di uno scambio di fiducia. Colui che chiede ospitalità si assoggetta al potere di colui che ospita e confida che costui si impegnerà a proteggerlo (quindi a non abusare del suo potere) per tutto il tempo che eserciterà su di lui la sua autorità di padrone di casa. A sua volta il padrone di casa confida che non venga messa in discussione questa sua autorità. Il termine latino che descrive lo stato d’animo di soddisfazione sia di colui che ospita sia di colui che viene ospitato è “gratus” (da cui gratis, grazia, grazie, ecc.), che è bivalente (così come ospite in italiano) e significherà nel caso del beneficiario dell’ospitalità “grato”, nel caso di colui che ospita “gradito”. In entrambi i casi siamo in presenza di un sentimento di riconoscenza che accomuna i due interlocutori e riporta in equilibrio l’asimmetria iniziale: l’ospitante si sentirà appagato per la riconoscenza ricevuta, l’ospitato sarà riconoscente per il bene ricevuto [8]. In tal modo da riconoscenza nasce riconoscenza, un sentimento che si autoalimenta.

Merita peraltro osservare che il termine “riconoscenza “ ed il suo participio “riconoscente”, (composto dal prefisso “ri” - segno di ripetizione - e dal verbo conoscere), indica il prodotto di una comparazione tra qualcosa di già noto e qualcosa che si propone nuovamente all’attenzione dell’osservatore. Troviamo nel termine rispetto la medesima costruzione lessicale, in quanto questo termine deriva da respiceo (rispettare, voltarsi indietro a guardare), quindi dall’unione di “re” (prefisso ripetitivo) e “spectare” (guardare, ammirare). Il termine “riconoscenza” e il termine “rispetto” condividono un antecedente logico: il concetto di “stima”, e, in fondo, riconoscenza e rispetto trovano il loro comune denominatore nella presenza dell’altro sulla scena (con tutte le sue prerogative, le sue aspettative, i suoi desideri) , unitamente al nostro atteggiarsi su questa medesima scena vantando ambizioni di apprezzamento non inferiori a quelle di qualsiasi altro. Ora, anche il termine “stima” è bivalente, potendo assumere in certi contesti il significato neutro di valutazione e di misura (p.e. la stima di un bene) e in altri il significato positivo di apprezzamento (come nella frase “nutro stima per te”). In tal modo, i concetti di riconoscimento, di riconoscenza, di stima e di rispetto appaiono tra loro strettamente connessi in quanto tutti condizionati dall’idea di misura e di gradimento. L’istituto antico e sacro dell’ospitalità, plasmato sull’idea del diritto di proprietà (per cui è il bene altrui – sia esso una dimora, un pasto, un trasporto, ecc. – offerto in maniera liberale – quindi non commerciale – a chi lo chiede, il collante che crea un obbligo reciproco di riconoscenza tra colui che dà e colui che riceve), dimostra come alle nozioni di stima e di rispetto possano ricollegarsi tutte le norme sociali di pacifica convivenza così come le regole di riparazione che fanno seguito alla loro violazione.

Non bisogna peraltro lasciarsi ingannare dal diritto di proprietà in quanto elemento condizionante l’ospitalità. Secondo la lucida analisi di Jacques Derrida: «l’ospitalità si offre, si dona all’altro prima che egli si qualifichi, prima ancora che egli sia (posto o supposto) soggetto, soggetto di diritto…»[9]. In altri termini, l’ospitalità anticipa e neutralizza qualsiasi forma di contrattazione, tanto più che nel momento in cui l’ospitalità si realizza, cioè si dispiega nella sua interezza, si assiste ad una tacita ma concreta rinuncia da parte del titolare-ospitante alla distinzione tra ciò che è mio e ciò che è tuo: nell’ospitalità vera, colui che vuole praticare la legge dell’ospitalità, deve accogliere l’altro, facendolo sentire a casa propria, in modo assoluto e incondizionato [10].

Che l’istituto dell’ospitalità sia presente nel nostro ordinamento sociale anche quando non si assiste ad una vera e propria messa a disposizione “graziosa” di beni e servizi ce lo dimostrano i consueti riti di interazione sociale: il «mi scusi» all’inizio di una frase è indice di un atto di sottomissione per entrare nello spazio proprio dell’interlocutore e assicurarsi la sua ospitalità, così come il banalissimo «grazie» è ancora là per attestare la benevolenza acquisita presso di lui. È evidente che il linguaggio (verbale o gestuale che sia), costituente l’ossatura di questi riti di interazione sociale, non è esente da difetti. La comunicazione può essere deficitaria o erronea (quando non volutamente offensiva) creando la brusca interruzione di questi riti e la loro inefficacia nel garantire un assetto relazionale non conflittuale basato sul riconoscimento reciproco. All’interruzione del rito di interazione sociale ispirato al citato modello dell’ospitalità, prima che il conflitto deflagri, provvedono i riti di riparazione. A questo riguardo Goffman (in “Relazioni in pubblico”) ci offre un esempio interessante: essere ricevuto in casa altrui, quindi accettare la sua ospitalità, e al tempo stesso sfidarlo con una richiesta esorbitante [11]. Questa sfida suonerà come offesa all’orecchio di colui che ospita e solo un rapido intervento di riparazione da parte del richiedente, quale per esempio una giustificazione basata su una domanda di aiuto e un’attestazione di stima a conferma della supremazia di colui che accoglie, impedirà la brusca interruzione del rapporto e l’apertura di un conflitto.

Non dobbiamo peraltro dimenticare che i riti di interazione sociale risentono molto del campo sociale nel quale si svolgono. A questo riguardo, la lezione di Pierre Bourdieu ci permette di comprendere che alcune norme vigenti in un campo sociale sono trascurate dagli attori di un altro campo sociale [12]. Alcune vecchie regole della cavalleria ancora in voga in certi circoli aristocratici possono essere considerate superate in ambienti più socialmente evoluti. Le regole che valgono per le relazioni in carcere sono differenti da quelle che vigono in un circolo sportivo e così via. La competenza nell’adottare riti corretti di interazione e la conseguente capacità di prevenire i conflitti è pertanto legata alla perfetta conoscenza del campo nel quale l’attore si sta muovendo.

Il campo sanitario. L’interazione di due attori

Soffermiamoci sulla conformazione del campo sanitario. Bisogna innanzitutto rinunciare all’idea che il campo sanitario sia un campo omogeneo, cioè che valgano ovunque le medesime regole di interazione. A questo proposito già Hans Jonas in “Medicina e Tecnica” rilevava che il ridurre il campo sanitario a una relazione duale, sul modello medico paziente, è una semplificazione che non regge alla prova dei fatti [13]. Non potremmo assimilare non solo un ospedale a un poliambulatorio ma neppure l’aria che si respira in un reparto di lungodegenza, dove i tempi sono dilatati e le relazioni di lunga durata, con quella che si respira in un dipartimento di emergenza, dove i rapporti sono spesso scanditi sui tempi dell’urgenza e le relazioni sono brevi, ridotte talora a contatti solo momentanei.

Tuttavia, pur in una giungla tanto complessa quanto a riti di interazione, possiamo riconoscere degli elementi comuni a tutti gli ambienti sanitari, che conviene considerare per comprendere l’origine dei conflitti e cercare di prevenirli e risolverli. Tradizionalmente si riconosce nel settore sanitario uno dei campi dove l’istituto dell’ospitalità si trova maggiormente rappresentato. Lo stesso termine ospedale sembrerebbe non lasciare dubbi circa la pertinenza dell’utilizzo di questo paradigma per spiegarne certe dinamiche relazionali, innanzitutto l’asimmetria relazionale tra i professionisti della salute e gli utenti. La designazione di questi ultimi come “pazienti” rinvia necessariamente a dei soggetti “agenti”, che cioè agiscono, fanno, operano in ragione di un mandato professionale sul corpo di altre persone, i “pazienti”. Nel caso della medicina, l’ospitalità si spiega non solo per il fatto che colui che abbisogna di cure è obbligato il più delle volte a recarsi in un ambiente sanitario (un ospedale, un ambulatorio, un consultorio, ecc.), quindi all’interno di uno spazio fisico, un territorio, che non gli appartiene e di cui qualcun altro è il gestore, ma anche in ragione del suo accesso in un mondo del sapere e in un campo operativo (quello medico) che gli è pressoché sconosciuto. Il paziente è pertanto ospite del professionista della salute anche quando la prestazione sanitaria si svolge a domicilio.

Si è detto che la dinamica relazionale dell’ospitalità implica il riconoscimento della supremazia di colui al quale si chiede accoglienza e la sottomissione alla di lui autorità in cambio di protezione. In virtù di tale dinamica relazionale, nell’esperirsi della pratica medica, vengono normalmente accettati e giustificati atti che in situazioni extramediche sarebbero considerati gravemente offensivi. La classificazione di Goffman delle violazioni che intervengono nelle relazioni interpersonali [14] ci offre la misura di quanto il campo sanitario provveda, in maniera automatica, alla neutralizzazione di alcune di esse. Si pensi per esempio alla sopportazione da parte del paziente dell’intrusione visiva, cioè a sguardi insistenti e a distanza ravvicinata su parti corporee, anche intime, del corpo, di norma considerate gravemente offensive, come pure alla sopportazione del contatto fisico prolungato con il personale sanitario. Si pensi anche alla noncuranza, almeno apparente, dello stesso personale sanitario riguardo alle secrezioni, alle deiezioni, agli odori sgradevoli, alle fonti di contaminazione prodotte dal paziente, tutti elementi che nella vita comune disturbano fortemente le relazioni sociali e vengono ritenuti offensivi.

Se questo sistema di neutralizzazione delle violazioni può essere spiegato attraverso il paradigma dell’ospitalità, è però riconoscibile un altro aspetto di questo stesso paradigma che sembra male adattarsi alla realtà sanitaria. Esso attiene al tema della sottomissione all’autorità di colui che ospita. Come abbiamo avuto modo di appurare, l’istituto dell’ospitalità, pur radicandosi in un diritto di proprietà, si svolge secondo un canone di liberalità. L’ospitalità prescinde da un fine di lucro e anche da dinamiche di tipo commerciale. Nel mondo di oggi, la prestazione sanitaria, senza rinunciare all’archetipo relazionale dell’atto di ospitalità, è equiparata a un prodotto di consumo. Ne consegue che la prestazione sanitaria, se considerata come relazione, si modula sui toni dell’accoglienza, della gratuità e della riconoscenza reciproca, tipici dell’istituto dell’ospitalità; se invece considerata come prodotto, non può che essere inquadrata nella logica mercantile dell’acquisto di una merce, con il professionista e il paziente-cliente nelle vesti inedite (perché sconosciute al rapporto di ospitalità) di titolari di un rapporto patrimoniale di tipo credito-debito.

La prestazione sanitaria si trova così al centro di un tensione tra i valori che presiedono al suo svolgimento e quelli che ne definiscono l’oggetto. Infatti, nel caso in cui la prestazione sanitaria venga equiparata a un prodotto, il titolare della vendita sarà chiamato a garantire che detto prodotto è esente da difetti e adatto allo scopo per il quale viene proposto. La dinamica relazionale in questo caso si trova invertita rispetto a quella dell’ospitalità, con il professionista della salute in veste di debitore, e quindi in posizione di sottomissione, e il cliente in veste di creditore, in quanto titolare di un diritto. All’attribuzione della titolarità di un diritto in capo al paziente-cliente nei confronti del professionista contribuisce anche la configurazione della salute come oggetto di un diritto, il diritto alla salute appunto, che, nel nostro sistema costituzionale, assurge al rango di diritto fondamentale. È evidente che in quest’ottica il concetto di autorità, costituente un elemento cardine dell’istituto dell’ospitalità, si presta ad una nuova lettura. Il professionista conserva la sua autorità, quindi supremazia, nei riti cerimoniali di accoglienza nello spazio fisico e culturale proprio della medicina, di presa in carico dei suoi bisogni, ecc., esigendo di conseguenza il riconoscimento del suo primato, ma è costretto a dismettere rapidamente il ruolo di ospite per assumere quello di semplice esecutore di un’obbligazione nel momento in cui, sull’aspetto relazionale, prevale l’elemento fattuale, dunque l’oggetto e il risultato della prestazione. In questo momento la sua autorità si riduce alla semplice autorevolezza dell’esecutore competente. Trovandosi così in posizione di sudditanza, il cerimoniale cambia: il tono dell’ospite (per essere più chiari, dell’anfitrione) dovrà prontamente trasformarsi in quello più dimesso e suadente del commesso-riparatore.

Questa variazione obbligata di ruoli all’interno di un medesimo contesto relazionale non può che essere fonte di malintesi e tensioni che il più delle volte sfociano in conflitti aperti. Trattandosi solo in parte di conflitti generati da violazione di norme cerimoniali, i consueti sistemi di riparazione, quali la presentazione di scuse, le giustificazioni, gli attestati di stima e di gratitudine, risulteranno scarsamente efficaci nel sanare la ferita. A riprova di quanto finora detto possiamo citare le tipiche dichiarazioni del professionista e del paziente delusi: in caso di insuccesso, di fronte al rimprovero per un comportamento giudicato scorretto e dannoso dal paziente, il professionista affermerà che ha fatto tutto il possibile e che si attendeva la “riconoscenza” e non l’ostilità del paziente stesso; quest’ultimo dichiarerà di essersi sottoposto (quindi sottomesso) all’autorità del professionista ma di essere stato tradito perché le sue aspettative non sono state “riconosciute” e soddisfatte.

Che il campo sanitario fosse segnato da forti tensioni era già stato evidenziato da Goffman (in “Asylums”) in un’epoca in cui il paternalismo medico contrassegnava ampiamente la pratica sanitaria [15]. Sarebbe tuttavia erroneo riconoscere nel paternalismo la causa di queste tensioni, essendo il paternalismo (che consiste nell’esasperazione del ruolo dell’ospite in capo al sanitario) l’epifenomeno di queste tensioni e il tentativo (maldestro) messo a punto per risolverle. Ecco le parole di Goffman [traduzione dell’Autore dal testo originale inglese]:

«Il fatto stesso che i malati acconsentano a porre il destino dei loro corpi nelle mani dei medici pone dei problemi al personale medico. Allorché il medico, deve, non senza difficoltà, stabilire la natura del male o il trattamento più adeguato, o allorché, sapendo con certezza che non c’è più nulla da fare, ne deve informare il paziente o la persona che se ne occupa, segnando così la sorte del paziente, si rende conto talora che la sua simpatia per il malato gli provoca una tensione emotiva [...]. Il corpo d’altra parte non rientra nel genere di oggetti che il cliente può lasciare in consegna al riparatore per dedicarsi ad altri affari. È noto che i medici sono estremamente abili nell’assumere la dimensione verbale del curante-riparatore, dedicandosi a delle manipolazioni di tipo meccanico senza dover separare questi due aspetti del loro ruolo. Sono però costretti a far fronte a delle inevitabili difficoltà poiché il cliente s’interessa da vicino a ciò che capita al proprio corpo e occupa un posto privilegiato nell’osservare ciò che gli si fa (…). Ci sono allora due soluzioni, l’anestesia o lo stupefacente “trattamento impersonale”, che nel mondo medico si infligge al malato: lo si saluta all’arrivo e alla partenza con cortesia e nel frattempo tutto si svolge come se l’individuo fosse lì come un oggetto qualsiasi che qualcuno ha dimenticato, e non come una persona».

Questa osservazione di Goffman (che richiama alla mente prassi non del tutto abbandonate) è interessante perché conferma la commistione di due ruoli in capo ad un solo attore e la difficoltà di essere coerente con ciascuno dei due in relazione alle differenti attese dell’interlocutore. In ragione delle descritte difficoltà e del connesso pericolo di conflitti tra professionista della salute e paziente, sono state messe a punto delle strategie standardizzate di prevenzione degli stessi. Tra queste bisogna segnalare le procedure di notificazione preliminare del consenso al trattamento sanitario da parte del paziente-utente e la creazione, anche in ambito sanitario, di uffici con personale dedicato a sanare le liti in maniera amichevole, in una fase precoce della vertenza, utilizzando il modello dell’arbitrato.

Sebbene la procedura del consenso al trattamento sanitario sia stata generalmente interpretata come l’esito di un lungo processo di affrancamento del paziente dal potere decisionale del medico e come la presa d’atto della libertà decisionale del paziente stesso riguardo alla tutela di un bene personalissimo qual è la salute, la formalizzazione del consenso al trattamento sanitario in un documento nel quale vengono riportati con precisione un certo numero di dati di carattere nosologico, quindi tecnico (tra i quali le modalità di esecuzione dell’opera costituente l’oggetto della prestazione, i rischi connessi alla stessa, i risultati attesi) svolge anche l’indubbia funzione di sgombrare preliminarmente il campo sanitario da ogni elemento che possa porsi in contraddizione con l’istituto dell’ospitalità che così bene gli si adatta. Il professionista, una volta concordati con il paziente i dettagli tecnici della prestazione, potrà tranquillamente dedicarsi al rituale dell’accoglienza ospitale e, di rimando, il paziente, non più sospettoso riguardo al tipo di autorità che il professionista intende esercitare su di lui, potrà adattarsi con serenità nel ruolo di beneficiario di tale accoglienza, con tutti gli impegni che ne derivano. A ben vedere dunque l’atto di consenso preliminare al trattamento sanitario, anziché annullare, ripristina l’autorità del professionista, autorità destinata ad essere sovvertita dalla descritta commistione di ruoli. In passato, non è mancato peraltro chi ha intravisto in questo atto preliminare un fattore precoce di inquinamento dell’assetto fiduciario della relazione di cura [16]. A questa obiezione possiamo rispondere con un esempio sportivo: fissare le regole del gioco prima dell’inizio della partita consente a tutti i giocatori di affrontare l’agone con più disinvoltura perché sicuri del comportamento degli avversari.

Veniamo ora ad esaminare il secondo modello di risoluzione precoce del conflitto in ambito sanitario. Si tratta della messa in atto di una procedura che affida ad un organo terzo, un arbitro (p.e. il cosiddetto ufficio per le relazioni con il pubblico – a torto troppo spesso declassato nell’immaginario collettivo al rango di ufficio reclami), il ruolo di mediatore, cioè il compito di ricreare un assetto relazionale impostato su una corretta gestione dei ruoli laddove l’interazione risulti viziata. Si tratta di notificare agli attori della relazione, trasformatisi in contendenti, quali sono le regole del gioco e invitarli a riprendere il dialogo attenendosi ad esse. Anche in questo caso, è l’autorità del professionista che ne esce rafforzata, tenuto conto che la funzione arbitrale esercitata dall’organo terzo mira a distinguere quanto fa parte del cerimoniale di interazione, con i conseguenti obblighi, e quanto attiene alla mera esecuzione della prestazione, segnando il limite della pretesa del cliente.

Così, mentre la dichiarazione di consenso svolge una funzione preventiva dei conflitti, l’intervento dell’arbitro svolge una funzione ripartiva. In entrambi i casi si assiste al tentativo di impedire che il conflitto assuma un carattere irreversibile e che la sua risoluzione sia affidata all’organo giudiziario.

Non si deve peraltro confondere questo modello di risoluzione arbitrale precoce dei conflitti, che potremmo definire di pacificazione, con gli organismi di mediazione obbligatoria, operanti anche nell’ambito della responsabilità medica e sanitaria, previsti dalla Legge 9 agosto 2013 n. 98 (di conversione del Decreto legge 69/2013) [17] e deputati ad un tentativo di conciliazione tra le parti prima che il giudice civile provveda unilateralmente alla soluzione del conflitto con la sentenza. Infatti, nel caso della conciliazione precoce in ambito sanitario vige ancora l’istituto dell’ospitalità, con i corollari che abbiamo descritto, nel caso della mediazione obbligatoria la lite ha assunto già contorni ben definiti e la sua trattazione è inquadrata in un’area che può essere denominata a tutti gli effetti giudiziaria, anche se condizionata dal tentativo di conciliazione tra le parti che hanno ormai assunto il ruolo di antagoniste.

In Italia, il problema della responsabilità in campo sanitario è reso più complesso in ragione del fatto che il cliente scontento può giustificare il suo ricorso al giudice penale attribuendo all’azione o all’omissione del professionista un aggravamento delle proprie condizioni di salute, ipotesi inquadrabile nel delitto di lesioni personali, e che il ricorso infondato o pretestuoso all’organo giudiziario risulta in genere immune da sanzioni (salvo dimostrare che si tratta di un atto temerario o avventato ex art. 427 c.p.p.). Nel caso di morte del paziente in (supposta) conseguenza del trattamento sanitario saranno ovviamente i familiari a invocare la condanna del professionista per omicidio. L’obbligatorietà dell’azione penale in capo al Pubblico Ministero e la procedibilità d’ufficio per la quasi totalità dei delitti contro la persona (anche ascrivibili all’autore a titolo di colpa), stabilita nel nostro ordinamento, rendono la sede penale il luogo privilegiato di trattazione della responsabilità medica e più in generale sanitaria, in quanto esente da particolari oneri probatori e da spese a carico della presunta/e vittima/e. Nella maggior parte dei casi, tali azioni giudiziarie non hanno seguito, in quanto soggette ad archiviazione o comunque non conducono alla condanna del professionista [18]. A questo risultato sembrerebbe mirare anche la nuova (e ancora di incerta interpretazione [19-21]) norma di esonero da responsabilità penale di quei professionisti la cui condotta sia inquadrabile nelle fattispecie di delitti contro la persona per colpa lieve, allorché il professionista si sia attenuto a linee guida o a protocolli operativi validati dalla comunità scientifica e vigenti [22].

Coloro che si occupano di responsabilità professionale medica sanno per certo che, il più delle volte, alla base dell’azione giudiziaria del paziente nei confronti del professionista della salute, vi è un sentimento di delusione non tanto riguardo ai risultati dell’esecuzione della prestazione, ma alle modalità di trattamento, cioè al mancato o carente esercizio da parte del professionista delle regole dell’ospitalità. Frasi come «mi ha trattato male», «non mi ha rivolto neanche la parola», «non mi ha chiesto niente», «mi ha detto di non preoccuparmi e poi ha fatto di testa sua», «mi aspettavo delle scuse», sono moneta corrente fra coloro che si ergono a vittime di un trattamento sanitario.

Da questo quadro ne esce confermata l’ipotesi che l’istituto dell’ospitalità esplica una importante funzione nel dirigere l’interazione in campo sanitario e che l’apprendimento o il miglioramento dell’esercizio dei ruoli che tale istituto implica può contribuire a prevenire o sanare precocemente, attraverso l’applicazione tempestiva delle regole di riparazione, il conflitto tra professionista della salute e paziente.

Il campo sanitario. L’interazione di più attori

Sulla base di quanto abbiamo finora detto è facile costatare che, malgrado la descrizione del pericolo, non abbiamo resistito alla tentazione di ridurre il campo sanitario all’interazione di due soli soggetti. La realtà ci impone di ampliare la visuale: non solo la prestazione sanitaria è il frutto dell’azione coordinata di più soggetti, ma un medesimo paziente può interagire nel campo sanitario con un insieme di soggetti non tutti aventi la medesima qualifica professionale.

Pensare alla prestazione come al frutto dell’azione coordinata di più soggetti impone di rivolgere l’attenzione alle modalità con le quali i professionisti interagiscono tra di loro e collaborano all’esecuzione della prestazione; qualora, invece, si privilegi la relazione dell’utente con i differenti attori del mondo sanitario, si dovranno prendere in esame le modalità con le quali costoro interagiscono con il paziente-utente. Pensando al campo sanitario come ad un campo di gioco, nel primo caso si guarderà con maggiore attenzione alla metà del campo occupata dai professionisti, nel secondo caso alla metà del campo assegnata all’utente. Benché si possa stabilire teoricamente quali siano i componenti di ciascuna squadra in base ai bisogni di ciascun paziente, non esistono delle regole fisse per la sua definizione. Come abbiamo detto, il campo sanitario è assai complesso sia per i differenti profili professionali di chi vi è impegnato, sia per l’alto livello di burocrazia che lo sostiene. Un conto è parlare del settore ospedaliero, un conto è parlare del settore extra-ospedaliero che va man mano ampliandosi e che si mimetizza alla sua periferia con le istituzioni socio-assistenziali, un conto è parlare della sanità pubblica e un altro di quella privata, un conto della medicina specialistica e un altro di quella cosiddetta generale, ammesso che una medicina generale (o secondo un brutto neologismo “generalistica”) esista effettivamente. La complessità di lettura dell’orografia del campo e la difficoltà di compiere rapide operazioni di sintesi, che suonerebbero come indebite semplificazioni, ci impone di adottare una chiave di lettura che sia il più possibile confacente al nostro fine: studiare la genesi dei conflitti e i loro possibili rimedi nella prospettiva etica.

L’istituto dell’ospitalità che ha costituito il paradigma di lettura delle dinamiche d’interazione in ambito sanitario nella prima parte di questo scritto può esserci ancora d’aiuto. L’istituto dell’ospitalità s’incentra per sua stessa natura sulla figura del dominus (l’ospite per definizione è il padrone di casa, nelle società matriarcali la padrona di casa), di colui cioè che rappresenta il titolare di tutte le relazioni di scambio che si realizzano nel segno dell’ospitalità. A causa della complessità del campo sanitario, in esso la figura del dominus è più e più volte riprodotta e ciò crea incertezza ed insicurezza, prima ancora che nella persona del paziente (il quale deve relazionarsi con tutti i dominus in uno sforzo continuo di coerenza con le regole dell’ospitalità, così come gli viene richiesto), nella persona del cosiddetto operatore sanitario, cioè dei professionisti, che a differente livello, partecipano, con le loro differenti competenze, alla realizzazione dell’opera.

La replicazione della figura del dominus in campo sanitario è il prodotto di diversi fattori tra i quali è d’obbligo annoverare, tenuto conto della loro importanza, l’antica classificazione della medicina come ars liberalis e l’eterogeneità dei saperi che si muovono in campo sanitario. Fermiamoci un istante sul concetto espresso dal latino ars. Si tratta di un’espressione che condivide la propria radice semantica con un insieme di termini legati tra loro dall’idea di fare, di creare qualcosa ex novo: così si associa all’idea di arte quella di braccio (in inglese arm) e di arma, di articolazione e di articolo, di numero (arithmos), di rito (rithus), di tecnica, di mestiere di cui qualcuno è l’artefice (artifex), di finzione e di stratagemma (artificium), tutti elementi componenti quel complesso mosaico che è la medicina. L’aggettivo liberalis (in latino, liberale, nobile d’animo, generoso) rinvia all’idea di una attività creativa e quindi di un libero esercizio della mente nell’esecuzione dell’opera, prescindendo la sua esecuzione da ogni imposizione esteriore che non sia lo stretto rispetto delle regole dell’arte. In altri termini, l’artefice, sebbene sia l’esecutore dell’opera, non è soggetto ad imposizioni e verifiche da parte di un padrone che paga la forza lavoro e fornisce il materiale e gli strumenti di produzione esercitando il controllo su di essi e sul prodotto finito che deve essere conforme allo standard da lui stesso predeterminato. Di ciò si trova conferma nell’attuale Codice di deontologia medica, che all’art. 4 recita: «L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico» [23].

La classificazione della medicina come arte liberale ha importanti ricadute sull’istituto dell’ospitalità che regola gran parte delle dinamiche relazionali correlate alla presentazione sanitaria. Se il professionista è indipendente nell’esplicazione della sua attività, egli potrà esercitare a pieno titolo il ruolo di ospitante. È questo il caso del libero professionista che intrattiene un rapporto personale e diretto con il proprio cliente. Possiamo richiamare al riguardo l’esempio particolarmente calzante dello psicoanalista che riceve nel suo studio il paziente e interagisce personalmente con quest’ultimo sfruttando tutte le potenzialità dell’istituto dell’ospitalità a scopo terapeutico. Qualora, invece, come più frequentemente accade, il professionista esplichi la propria attività nell’ambito di un’organizzazione, come un’azienda sanitaria, il suo ruolo di ospitante ne risulterà offuscato e con esso il riconoscimento del suo status, che è fonte di gratificazione.

Merita ripetere che l’istituto dell’ospitalità è legato per sua stessa natura alla figura di colui che ospita, il dominus (o anche patronus) e nessun aggettivo meglio del latino liberalis (come si è detto, liberale, nobile d’animo, generoso) si adatta al ruolo di costui. Ora, il dominus si trova per definizione all’apice di una scala gerarchica composta di soggetti che con lui cooperano nell’ospitalità. Al dominus si dirigono le richieste di ospitalità , e, in ritorno, gli attestati di riconoscenza da parte del paziente.

La complessità dell’organizzazione sanitaria, inquadrabile più che come una regione omogenea del sapere, come un arcipelago di competenze strettamente legate a logiche aziendalistiche di produzione, fa sì che le scale gerarchiche si moltiplichino all’infinito e che gli attori, più o meno visibili agli interno degli ingranaggi che fanno funzionare questa macchina, siano sempre più anonimi, difficilmente riconoscibili come esercenti gesti di ospitalità, sebbene ne siano titolari ed autori. Tale assetto dell’organizzazione sanitaria ha due conseguenze. In primo luogo, i professionisti, inquadrati nei complessi circuiti produttivi aziendali, si allontanano sempre più dall’idea di svolgere in prima persona una professione che riconosce nella liberalità dell’ospitante il proprio punto di forza. In tale situazione essi non solo non sono in grado di adempiere ai compiti dell’ospitalità nei confronti dei pazienti, ma reclamano essi stessi un diritto di ospitalità all’interno dell’organizzazione aziendale, nella speranza che capacità e meriti vengano riconosciuti. È facile dedurre che a tale incertezza riguardo al proprio status, il professionista risponda, per un verso, riducendo gli spazi relazionali, per altro verso, appiattendosi nel ruolo di mero esecutore di tecniche diagnostiche e terapeutiche. In secondo luogo, anche il paziente, disorientato dal ripetersi di contatti con soggetti che non sembrano possedere poteri e mezzi per assumere il ruolo di ospitanti (il tipico sintomo di questa situazione è il peregrinare del paziente da un esperto all’altro o da un ambulatorio all’altro), rinuncia a calarsi nel ruolo dell’ospite per assumere definitivamente l’atteggiamento di pretesa tipico del titolare dell’acquisto di un bene di consumo. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: il depauperamento della medicina nel suo patrimonio valoriale e il conseguente accrescimento della conflittualità.

Sarebbe tuttavia erroneo pensare che la conflittualità si riduca al rapporto tra professionisti e paziente. Anche tra i professionisti non mancano motivi di incomprensione suscettibili di sfociare in aperti conflitti. Paul Ricœur affermava che tutte le istituzioni, comprese le più nobili, soffrono di una maledizione, una sorta di peccato originale: sono destinate ad essere controllate da un piccolo gruppo di potere che si arroga nei loro confronti un diritto di proprietà del tipo padrone-cosa [24]. A questo destino non sfugge l’istituzione sanitaria che si assoggetta a questo processo di “reificazione” [25], il divenire una cosa nelle mani di un gruppo di controllo, attraverso un processo di omologazione e massificazione dei meccanismi di produzione della prestazione. All’interno delle linee guida e dei protocolli operativi, costituenti gli standard di buona condotta professionale in campo medico, l’identità del singolo non è più riconoscibile, sublimata com’è nell’insieme dei requisiti teorici che disegnano il profilo del bravo professionista.

L’omologazione delle procedure e la massificazione delle figure professionali comporta l’inclusione degli attori e delle loro azioni in stereotipi fissi, dai quali le qualità professionali e le risorse umane individuali difficilmente riescono ad emergere e ad imporsi, se non a costo di grandi sforzi. La volontà di innalzarsi sugli altri ed assumere un profilo facilmente riconoscibile nella massa suscita contrarietà e diffidenza perché considerati atti di sfida da parte di coloro che, loro malgrado, hanno dovuto piegarsi a tali stereotipi. È evidente infatti che i tentativi di sottrarsi al processo di massificazione non sono graditi a quanti sono stati costretti a subirlo controvoglia e con sofferenza vi si adattano. Si tratta infatti di tentativi che mettono in discussione schemi di collaborazione considerati necessari e ineludibili. Quelli che si sono sottomessi a tali schemi reagiranno opponendosi ad ogni tentativo di superamento degli stessi da parte di altri e classificheranno tali gesti come ambiziosi e i loro autori come refrattari all’integrazione in un determinato gruppo. E la critica,come sappiamo, è una forma di riprovazione che funziona da strumento di controllo sociale.

Siamo pertanto in presenza di un malessere diffuso, generatore di uno stato di conflittualità latente, che in ogni momento può sfociare in veri e propri atti di ostilità tra professionisti. Tali considerazioni valgono indistintamente per ogni campo, ma esse assumono una particolare valenza in ambito sanitario per un triplice ordine di fattori: quello educativo, quello sociale e quello economico.

In primo luogo, dobbiamo considerare il fattore educativo. A questo riguardo il percorso formativo a cui è soggetto il medico è altamente istruttivo. In questo percorso troviamo condensati alcuni fattori di contraddizione. Innanzitutto bisogna considerare che lo studente di medicina, tenuto conto del lungo percorso di studio, ampiamente legato a un faticoso lavoro di apprendimento mnemonico di base, vive in uno stato solitario per molte ore del giorno (si pensi al tempo necessario all’assorbimento mnemonico dei dati contenuti in un manuale di anatomia). In questa solitudine vi è un elemento di forza, lo stimolo della capacità di auto-organizzazione, e un elemento di debolezza, l’impossibilità di integrarsi in una equipe già nelle prime fasi di apprendimento. A questo elemento di contraddizione se ne aggiunge un altro: la medicina ha bisogno di maestri, che trasmettano agli apprendisti non solo dati teorici ma che insegnino loro praticamente il mestiere. Il rapporto nei confronti del maestro è segnato dall’autorità del sapere di quest’ultimo a cui corrisponde la necessaria sudditanza da parte dello studente secondo i canoni del rapporto di ospitalità su cui ci siamo soffermati. Quindi una condizione di acquiescenza, per non dire di passività indotta, che viene però continuamente messa in discussione dalla necessità che lo studente sia in grado di assumere il ruolo attivo del protagonista sulla scena della medicina e sappia attrarre la fiducia del paziente. In genere, per stimolare l’attitudine all’autonomia del futuro medico senza abbandonare il solco della tradizione della deferenza nei confronti del maestro si cerca di creare una forte competizione tra gli studenti. A questo riguardo, l’esempio offerto dal celebre serial televisivo del Dottor House è esplicativo . Il Dottor House crea competizione tra i suoi giovani collaboratori stimolandoli a scelte autonome. Grazie ai continui processi di comparazione delle abilità cui sono sottoposti i membri della sua equipe, egli consolida la sua posizione di leader. Da quanto finora detto ne consegue che il futuro medico assomma nel suo processo formativo numerosi elementi di tensione che potranno deflagrare in conflitti una volta inserito in una organizzazione lavorativa: attitudine all’auto-organizzazione e alti livelli di competizione nel lavoro di equipe, attitudine alla deferenza nei confronti dell’autorità e tendenza all’affrancamento da ogni forma di sottomissione.

Passiamo al secondo ordine di fattori: quello sociale. Nonostante, secondo l’opinione pubblica, il prestigio personale del professionista dipenda soprattutto dalle proprie qualità umane e professionali, (al contrario di un bancario o di un insegnante, che in questo è pressoché totalmente tributario dell’ente a cui appartiene – così, p.e., l’insegnante di una grande università gode di una reputazione maggiore di un insegnante di un piccolo liceo pur a parità di competenze), oggi non è più riconoscibile un’attività lavorativa che sfugga ai ritmi produttivi tipici della società dei consumi. Anche quelle attività che conservano il carattere del piccolo artigianato (p.e. la conduzione autonoma di un laboratorio, i cosiddetti lavoratori in proprio) sopravvivono occupando spazi di mercato lasciati liberi dalla grande produzione e sono comunque apprezzabili per la loro opposizione-resistenza alla logica del mercato globale. In questa prospettiva, anche la medicina rientra nei cicli produttivi propri della società dei consumi. Non è necessario ricorrere all’espressione “industria del benessere”, basta quello oggi maggiormente in voga di “azienda” (la cui definizione corrente è la seguente: insieme di capitale e forza lavoro, finalizzato alla produzione di beni o servizi e alla realizzazione di un profitto) per comprendere che l’attività medica, pur esercitata da professionisti che valgono ancora agli occhi dell’opinione pubblica per le loro doti personali, è sostenuta da un’industria ad altissimo contenuto tecnologico (si pensi solo alla complessità delle apparecchiature medicali), è strutturata secondo modelli organizzativi complessi e risponde a precise istanze produttive. Nella logica consumistica oggi predominante, il valore di un’azienda sanitaria è dato dalla quantità e dalla complessità delle prestazioni più che dalle qualità dei professionisti che vi lavorano. Anche riguardo all’idea di trattamento sanitario si assiste a una contraddizione: da un lato si percepisce la resistenza da parte dell’opinione pubblica a considerare la salute dell’uomo un bene di consumo monetizzabile, dall’altro, si assiste alla pretesa di ottenere trattamenti sempre più complessi, sempre più efficaci, al minor costo e nel più breve tempo possibile, secondo i canoni del consumismo oggi imperante, quindi all’equiparazione della salute ad un oggetto. Nella catena di montaggio che sostiene la realizzazione della “prestazione sanitaria”, apparecchiature e uomini si alternano per far funzionare gli ingranaggi della complessa macchina della salute. Questa “catena di montaggio” comporta due conseguenze: da un lato, il contributo di ciascuno alla realizzazione del “prodotto finito” non è più riconoscibile, dall’altro, il contributo di ciascuno dipende sempre dall’operato di qualcuno che viene prima. Da qui l’emergere di conflitti tra professionisti per attribuzione di responsabilità nel caso in cui la prestazione sanitaria non corrisponda alle attese per l’erronea o mancata applicazione di linee guida o di protocolli operativi durante il ciclo di realizzazione della stessa. Conflitti potranno sorgere anche nel caso in cui la realizzazione della prestazione comporti un aumento del prestigio per un professionista a scapito di altri. Tenuto conto che il processo di realizzazione della prestazione sanitaria implica la partecipazione di più artefici, l’assunzione del merito da parte di uno solo sarà visto come un abuso da parte degli altri, i quali nonostante gli sforzi, per il fatto di lavorare nelle retrovie, sono destinati a non veder premiato il loro impegno con un accrescimento del prestigio personale.

Siamo così giunti al terzo fattore di conflitti in campo sanitario, quello economico. Si è fatto cenno nelle righe precedenti alla definizione di azienda, espressione con la quale si indica un’attività di impresa che ha per scopo la realizzazione di un profitto. La designazione corrente delle organizzazioni deputate alla realizzazione di prestazioni sanitarie con il termine “aziende” sta certamente a significare che, al pari di ogni impresa, anche quella sanitaria si regge su risorse finanziarie, agisce come soggetto economico e fornisce prestazioni che hanno un costo commerciale. Quale sia il profitto che l’azienda sanitaria persegue è più difficile da stabilire. Tenuto conto del valore della persona e della sua salute, che prescinde per principio da riduzionismi monetari, potremmo dire che il profitto dell’azienda sanitaria è dato da un aumento del benessere della collettività per la quale essa opera. Questa affermazione probabilmente non piacerà agli economisti, per i quali anche un ente di beneficienza, per garantire la continuità operativa, quindi per assicurarsi un futuro, deve avere un bilancio florido, cioè non in perdita. Senza addentrarci in sottili considerazioni di economia sanitaria, ci limiteremo ad osservare che, una volta inseriti in un’azienda, i professionisti della salute sono tenuti a realizzare una prestazione sanitaria tenendo conto dei vincoli di bilancio, e ciò in ragione del fatto che tutti gli sprechi si ripercuotono negativamente sulla possibilità di erogare ulteriori prestazioni a vantaggio di altri pazienti. Bisogna peraltro segnalare che il campo sanitario, tra tutti i campi sociali, è quello maggiormente esposto a una crescita esponenziale del deficit di bilancio, tenuto conto non solo dell’aumento costante della domanda di prestazioni, ma soprattutto dei costi delle continue innovazioni tecnologiche. La condotta del professionista dovrà altresì attenersi al rispetto del principio di equità che da sempre costituisce uno dei pilastri dell’etica medica. Fin qui niente di scandaloso. Il problema emerge nel momento in cui al professionista della salute, che opera all’interno dell’azienda, viene assegnato contemporaneamente sia il ruolo di dispensatore di prestazioni in risposta ai bisogni del paziente, sia quello di agente contabile, costretto pertanto a districarsi nei vincoli di bilancio fissati dall’azienda stessa, con indubitabili limitazioni della sua capacità di fornire prestazioni in grado di soddisfare i bisogni. Si potrebbe pensare che in questo caso i conflitti sorgono prevalentemente dai rapporti tra professionisti e pazienti, tenuto conto che le ragioni finanziarie interferiscono con l’istituto dell’ospitalità: le aspettative dei pazienti possono andare facilmente deluse e il professionista non riesce a mantenere uno status confacente a quello del munifico ospitante. Si deve invece osservare che i vincoli di bilancio, indotti da scarsità di risorse finanziarie, costituiscono anche motivo di conflitto all’interno del gruppo dei professionisti. In una situazione di scarsità di risorse finanziarie, inducenti tagli nell’offerta delle prestazioni, si assiste in genere ad una verticalizzazione dei processi decisionali. Come tutte le situazioni di emergenza, anche la necessità di far quadrare il bilancio in situazioni di ristrettezze economiche implica che il numero dei decisori sia ridotto al minimo. Le decisioni che condizionano la tipologia e la qualità delle prestazioni saranno così appannaggio di un ristretto numero di soggetti, mossi soprattutto dallo scrupolo della limitazione delle spese. Alla classificazione delle prestazioni in base alla complessità e ai costi corrisponderà l’accentramento dell’esecuzione delle prestazioni stesse in presidi sanitari classificati secondo precisi parametri di qualità e costi, i cosiddetti indici di eccellenza. In questo quadro, l’autonomia professionale, tradizionale appannaggio dei professionisti della sanità, rischia di ridursi ad un vuoto feticcio (di cui l’attribuzione a tutti i medici del titolo altisonante di dirigenti è testimonianza), tenuto conto che l’ambiente in cui il professionista si trova ad operare definisce preventivamente le modalità e le caratteristiche della prestazione, cioè del prodotto finito. Questo tipo di organizzazione, se risponde a ragioni economiche, equiparando la prestazione sanitaria alla produzione seriale di un bene provvisto di requisiti standard certi e prestabiliti, non soddisfa le ragioni della medicina, ancora intimamente legata all’idea di arte e di ospitalità. Facilmente si assisterà allora ad una dismissione di responsabilità (rifiuto di prendere in carico il paziente, rinuncia al trattamento, trasferimento del paziente ad altro professionista o presso un altro presidio) da parte di alcuni professionisti della salute a favore di altri, a motivo della mancata abilitazione da parte dell’azienda (per caratteristiche professionali o logistiche) alla prestazione. Al contrario della condivisione della responsabilità, che funziona da collante, la dismissione è un fattore di disgregazione e genera conflitto.

Esaurito così l’argomento dei fattori di malessere dei professionisti della salute generatori di conflitti, non ci resta che esaminare un ulteriore fronte di possibile contrapposizione: la commistione di differenti figure professionali in campo sanitario. Il campo sanitario si caratterizza infatti non solo per l’uniformità di statuto dei prestatori d’opera professionale, ma anche per le differenti peculiarità delle loro competenze. Per riprendere l’esempio sportivo, possiamo dire che se è vero che i giocatori di una squadra indossano la medesima maglia, non per questo possiamo negare che ciascuno si differenzia dagli altri per una sua specifica funzione. Concepire il campo sanitario come uno spazio occupato solo da medici suonerebbe come un’indebita mistificazione della realtà.

Occorre al riguardo osservare che la collaborazione di più soggetti aventi conoscenze e competenze differenti non può che accrescere la qualità della prestazione sanitaria. A questo dato assolutamente positivo si deve aggiungere un elemento storico di criticità: in campo sanitario i medici, pur se affiancati da altri professionisti, hanno svolto per lungo tempo il ruolo di leader. L’antica classificazione delle professioni in professioni sanitarie (medici, veterinari,farmacisti), professioni sanitarie ausiliarie (levatrice, infermiere, ecc.), e arti ausiliarie delle professioni sanitarie (odontotecnico, ottico, ecc.), aveva rafforzato il convincimento che il campo sanitario fosse organizzato secondo una scala gerarchica, con il medico in posizione apicale e tutti gli altri in posizione di sottoposti. L’emancipazione progressiva di tutti i professionisti non medici dal ruolo di subalterni, voluta dal legislatore in tempi assai recenti, ha comportato un riequilibrio dei poteri delle forze in campo.

Bisogna riconoscere che tale processo di parificazione se da un lato ha comportato un ampliamento dello spazio di autonomia a disposizione di ciascun professionista nell’esercizio della propria attività, dall’altro è stato fonte di malintesi e contrasti tra professionisti per il prevalere di interessi di parte. Non possiamo peraltro dimenticare che l’autonomia riconosciuta a tutti i professionisti della salute è lo specchio fedele delle specifiche competenze di ciascuno di essi e la prestazione sanitaria, in tutta la sua complessità, nasce dalla armoniosa composizione di queste differenti competenze. Considerare l’autonomia professionale non come un presidio a favore del paziente ma come un vantaggio personale o di categoria in danno di un altro professionista o di un’altra categoria professionale non può che rivelarsi fonte di tensione e di conflitto. Ancora una volta il fattore educativo svolge un ruolo fondamentale. Raramente, nelle facoltà di medicina, agli studenti dei differenti corsi di studi vengono offerti percorsi formativi comuni o quantomeno momenti di incontro e confronto con le diverse figure professionali con le quali dovranno collaborare una volta divenuti professionisti. Anche in questo caso vale la regola che il riconoscimento (frutto della conoscenza) precede la stima, e la stima è il presupposto del rispetto.

Conclusioni

Nell’Etica Nicomachea Aristotele cita Eraclito per ribadire che «il ribelle, l’opposto è il solo utile, la più bella armonia non sorge che dai conflitti e dalle differenze e tutto nell’universo è nato dalla discordia» [26]. Da parte sua, come si è detto all’inizio, Levinas indica nell’ospitalità la dimensione etica dell’uomo. Aprendo la propria dimora, quindi se stesso, l’uomo antepone l’esposizione, quindi l’accoglienza e la disponibilità nei confronti dell’altro, all’imposizione, cioè alla chiusura nel proprio interesse egoistico. Questa esposizione (dal latino ex-ponere, porre, mettere al di fuori) comporta una dinamica di movimento, un uscire dal proprio assetto mentale, uno sradicarsi, un errare alla ricerca dell’altro, per unirsi a costui nel flusso della vita di relazione, in cui ciascun agente, benché soggetto, non è nulla più che un altro “tra e come” tanti altri. Questo accostamento del pensiero di Aristotele a quello di Levinas ci permette di comprendere che se, da una parte, il conflitto è una componente anticipatrice, insopprimibile e (per molti versi) propulsiva della vita di relazione, dall’altra, esiste un istituto relazionale, l’ospitalità, che permette di controllarne lo sviluppo e circoscriverne gli effetti negativi. Questo istituto si basa su specifici rituali che ci sono stati tramandati da tempo immemorabile e che sono fondamentalmente legati ad istanze di riconoscimento.

Il campo medico è per definizione deputato all’ospitalità, quindi all’accoglienza dei malati, all’esposizione della sofferenza umana nel suo più autentico e drammatico manifestarsi. Così come il malato si espone, anche il professionista della salute fa altrettanto, aprendo la propria dimora (intellettuale, sentimentale, spirituale) al paziente e ai propri colleghi. Per definizione, ogni atto di esposizione comporta una ammissione di vulnerabilità, quindi di debolezza, e una richiesta di ospitalità, cioè di messa al riparo da ogni tentativo più o meno esplicito di strumentalizzazione, quindi di imposizione. Affinché il campo sanitario continui a percepirsi e a manifestarsi come la regione/ragione dell’etica è necessario che esso mantenga il requisito dell’ospitalità. Per questo i professionisti della salute sono chiamati a tre semplici ma irrinunciabili azioni: conoscere e saper esercitare i rituali dell’ospitalità; considerare la medicina un mondo del sapere e del saper fare in cui tutti sono ospiti di tutti; impedire che le istanze di ospitalità in campo medico siano subordinate a qualsiasi altro interesse.

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