CMI 2016;10(3)57-61.html

Il lavoro psicologico-psichiatrico: tra prassi professionale e prassi personale

Roberto Infrasca 1, Claudia Tonelli 2

1 Psicoterapeuta, La Spezia

2 Infermiera Professionale Psichiatrica, La Spezia

 

The psychological-psychiatric work: between professional and personal practices

CMI 2016; 10(3): 57-61

http://dx.doi.org/10.7175/cmi.v10i3.1261

Editoriale

Corresponding author

Roberto Infrasca

roberto.infrasca@libero.it

Disclosure

Gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Note introduttive

Il lavoro psicologico-psichiatrico è estremamente importante per la dimensione umana e psicopatologica che affronta. La delicatezza di tale intervento pone le diverse figure professionali di fronte ad un compito gravoso e molto complesso sulla sofferenza umana (comunque questa si presenti, fisica e/o psicologica), divenendo un’operatività per niente vocazionale, ma declinata sull’umano partecipato e professionale utilizzato.

In questa ottica il panorama che si dischiude assume un profilo molto diverso da quello tradizionalmente percepito, divenendo una nuova, per quanto conosciuta, modalità di intervento sulla sofferenza psichica, vista e vissuta come “sofferenza” e non quale routine lavorativa. Tale prassi prevede una serie di irrinunciabili condizioni preliminari che elenchiamo di seguito schematicamente:

  • partecipazione e non rapporto “confidenziale”;
  • utilizzare il “lei” e non il “tu”: al paziente deve essere continuamente rimandata l’immagine di una dimensione personale con suoi contorni definiti e rispettabili, per quanto problematici, e non amicali;
  • empatia, cioè la capacità di comprendere le problematiche dell’altro senza “con-fondersi” emotivamente con la persona, mantenendo la propria dimensione professionale;
  • orientamento personologico individuale nel lavoro di gruppo (partecipazione fattiva);
  • bisogni soggettivi e regole dell’interazione professionale:
  • i primi devono essere necessariamente assoggettati alle seconde
  • deve essere tenuta sotto controllo la richiesta (inconsapevole) dell’operatore sanitario che il paziente riscatti le sue frustrazioni personali
  • lavoro di gruppo centrato sulle problematiche del paziente versus lavoro centrato sulle problematiche personali degli operatori.

Il lavoro psicologico-psichiatrico tra contenuti “professionali” e contenuti “personali”

Il lavoro psicologico-psichiatrico e di altre figure professionali (infermiere, educatore) diviene così molto importante. L’attività multidisciplinare assume la valenza di un’operatività essenziale nel settore sanitario che qui viene analizzato, ma anche in altri ambiti.

La simultanea presenza di figure professionali che portano nella quotidianità una differente veduta e un differente vissuto esperienziale diviene una ricchezza da utilizzare. Quanto affermato significa che il lavoro di gruppo (multidisciplinare) deve necessariamente essere indirizzato in alcune direzioni, tralasciandone altre, molto deleterie e pervasive nella pratica clinica.

Dosare le due importanti dimensioni di cui ogni individuo dispone, vale a dire quella personale e quella professionale, è l’unica strategia che l’operatore può utilizzare per dare una positiva risposta alla sofferenza umana. Gli schemi che seguono sono una modalità sintetica attraverso la quale rendere visibili dinamiche interattive complesse, a volte illeggibili dall’esterno e non raramente anche dall’interno.

Nella Figura 1 si rappresenta lo schema relativo ad un lavoro sanitario orientato prevalentemente dalla dimensione personale (bisogni, problemi, conflitti, dell’operatore e tra gli operatori.

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Figura 1. Schema del lavoro sanitario orientato dalla dimensione personale degli operatori

Il paziente portatore della sofferenza appare, come indicato nello schema, decisamente periferico rispetto agli scopi del gruppo di lavoro, che risulta invece orientato ad una propria e non agevolmente espugnabile centralità. Tale situazione prevede una serie di conseguenze sostanziali di non facile comprensione e compensazione. La prima suppone che il paziente avverta una perifericità esistenziale della propria dimensione rispetto al gruppo “terapeutico”, vissuto che non lo sollecita ad avere un atteggiamento di compliance teso alla collaborazione.

La seconda richiama anche una limitrofa emozionalità (già) vissuta per molti anni nel periodo infantile. Tale aspetto storico ha prodotto una serie di microtraumi la cui ripetizione nella realtà vissuta può diventare una situazione di accumulazione intrapsichica che pone le potenziali basi per l’esordio di quadri psicopatologi.

Inoltre, va tenuto presente che le persone che rivivono una condizione traumatica infantile, proiettano e vivono le figure professionali con cui sono a contatto come “non persone, diverse ma uguali a quelle sperimentate”, percezione profonda che squalifica le figure professionali, invalidandone la credibilità. Tale situazione tende a produrre elementi basilari solitamente negativi per iniziare e condurre una relazione terapeutica che possa raggiungere risultati per quanto possibile soddisfacenti.

Nel lavoro multidisciplinare un altro aspetto deteriore delle figure sanitarie è rappresentato dalla predominanza nelle stesse di una dimensione infantile in una struttura cronologicamente adulta. In questo contesto, “infantile” non viene usato nel significato tradizionale, bensì quale modalità mentale e comportamentale informata e diretta da bisogni e aspettative appartenenti a epoche evolutive ormai trascorse e troppo lontane.

Questa situazione produce sistematicamente un’ombra sull’emotività del paziente, dal momento che i bisogni infantili degli operatori sanitari diventano centrali, esclusivi ed escludenti quelli del paziente.

La condizione prospettata assume una connotazione molto negativa e delicata per due ragioni particolari. La prima viene rilevata nel sentimento del paziente di essere nuovamente “solo e perso”, in mano a persone che non riescono a cogliere la sua sofferenza, ma tendono a ricavare dalla relazione “terapeutica” effimere e inconsistenti gratificazioni personali.

La seconda si esplicita nell’aumento dell’aggressività del paziente che deve vivere esperienze di impotenza (presumibilmente) già vissute, ma che trovano nell’attualità una dolorosa rievocazione che diviene un peso emozionale aggiuntivo. Inoltre il gruppo descritto (Operatori 1-2-3-4) è deputato a produrre molte comunicazioni circolari, commettendo però molti errori: complessivamente otto errori comunicativi, dal momento che tutti e quattro gli operatori sono sullo stesso livello (quello “personale”).

Di fatto la modalità relazionale presentata dimostra di essere esposta in maniera molto elevata a quelli che vengono definiti “rischi della professione sanitaria”, rintracciati in alcuni meccanismi difensivi sinteticamente proposti [1,2,].

La proiezione delle proprie parti interne sul paziente struttura un rapporto irreale che non riguarda il paziente, bensì i “fantasmi” provenienti dalla struttura emozionale e intrapsichica dell’operatore. Con la proiezione l’operatore affronta così conflitti e stress (interni ed esterni) attribuendo ad altri i propri sentimenti, impulsi o pensieri, non riconosciuti come propri: nega i propri vissuti interiori, le proprie intenzioni, la propria esperienza, attribuendoli a persone dalle quali si sente “minacciato”. La proiezione permette così all’individuo di affrontare le emozioni che lo fanno sentire troppo vulnerabile (particolarmente alla vergogna o alla umiliazione) per poter ammettere di provarli.

La condizione delineata, entrando in relazione con una molteplicità di strutture personologiche (pazienti), tende inevitabilmente (statisticamente) a sollecitare nella figura sanitaria la rievocazione di vissuti personali, dando luogo a emozioni e comportamenti (positivi o negativi).

Nel caso di positività, l’operatore tenderà a non intervenire sulla situazione del paziente. Nel caso di negatività, invece, la rievocazione di precedenti e sofferte esperienze, cui è necessariamente legato disagio psichico e conflitto, tenderà a sollecitare in questa figura sgradevoli e silenti sensazioni rabbiose, distanza emozionale, resistenza e disagio a occuparsi del paziente.

L’eccesso di auto o eterocentrismo rappresenta un altro latente rischio professionale. Nella prima condizione (autocentrismo) l’operatore non riesce ad attivare alcuna relazione di ascolto con il paziente per la sistematica pressione esercitata dai propri bisogni interni. Nella seconda situazione (eterocentrismo), la figura sanitaria, negando i propri bisogni, tende a mettere in atto un “ascolto totalizzante” delle richieste comunicate dal paziente, perdendo i propri confini personologici e quindi la propria dimensione professionale. La situazione descritta inserisce nell’operatore sanitario sentimenti di inadeguatezza e insicurezza che pregiudicano la capacità di instaurare un relazione terapeutica.

Il sentimento di onnipotenza è una difesa con la quale l’operatore sanitario risponde a un conflitto emotivo o a fonti di stress interne o esterne, comportandosi come se fosse superiore agli altri, se possedesse poteri e capacità speciali. Tale meccanismo difensivo dell’Io protegge tale figura da una perdita dell’autostima che si attuerebbe ogni volta che fonti di stress generano sentimenti di impotenza, delusione, disvalore personale, ecc. Il controllo dell’Io è qui riferito al dolore e quindi al controllo della morte, vale a dire la massima espressione della potenza di questa istanza.

Tale meccanismo difensivo tende a inserire nell’operatore la negazione dei propri limiti, della propria “finitudine” creando così nel paziente aspettative, o meglio illusioni, che divengono velocemente fonte di vissuti di inutilità e di frustrazione.

L’anticipazione dei bisogni è un meccanismo per mezzo del quale l’operatore trasferisce sul paziente il proprio desiderio di sentirsi utile. Il rischio di tale atteggiamento viene rintracciato nel tacitare la comunicazione del paziente riguardo ai propri bisogni, che rimangono inespressi. La scarsa capacità dell’operatore di tollerare l’attesa della comunicazione o la richiesta del paziente suscita in questo vissuti fantasmatici di inutilità, sollecitando interventi avventati e invasivi nel “territorio emotivo” del paziente, comprimendone lo spazio personale e personologico, dimensione già ridotta dalla psicopatologia. Assumere un ruolo terapeutico per il paziente significa principalmente imparare l’attesa, rimandare i propri bisogni rispettando i tempi e i silenzi della persona in sofferenza.

Quanto argomentato richiama il concetto di “esame di realtà”, vale a dire: «Una funzione preconscia costantemente attiva che automaticamente sceglie le nostre esperienze per orientarci nel comprendere se si tratta di una percezione esterna o intrapsichica – una vera percezione dei sensi o un’illusione; un ricordo o un prodotto dell’immaginazione; e quale posizione occupi all’interno di queste categorie – un vero oggetto o il disegno di un oggetto, il ricordo di un fatto o il ricordo di una fantasia» [3].

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Figura 2. Lavoro orientato dalla dimensione professionale

In questo terreno Freud (1911) afferma che «La funzione del giudizio ha in sostanza due decisioni da prendere [...] La qualità [...] utile o dannosa e se una certa cosa, presente nell’Io come rappresentazione, possa essere ritrovata anche nella percezione (realtà) [...] Il soggettivo è soltanto dentro; l’altro, il reale, è presente anche fuori» [4].

Molto differenziato dal modello relazionale sopraesposto appare invece il lavoro sanitario centrato sui bisogni del paziente, operatività schematizzata in Figura 2.

Nello schema proposto il paziente assume un ruolo di centralità, mentre gli operatori sanitari quello di convergenza professionale sullo stesso. Il paziente diviene così la dimensione esistenziale che stimola l’interesse professionale teso ad alleviare (e qualora possibile ad annullare) la sua sofferenza e il suo disagio soggettivo. Tale intervento si configura come quello più adatto a conseguire risultati positivi nel tragitto terapeutico. Di fatto, le comunicazioni partono e convergono sul paziente, tenendo sotto controllo la dimensione personale, situazione che aumenta decisamente la probabilità di ridurre gli errori ad una quota accettabile, e comunque non negativamente incisiva sul paziente.

Le due differenti modalità di lavoro esposte non mostrano (e non hanno) possibilità di essere coniugabili, né tantomeno armonizzabili, modulazione decisamente auspicabile, che presupporrebbe però troppi anni per la sua attuazione (e con forti riserve sui risultati possibili).

Nell’ottica delineata, “personale” e “professionale” non possono quindi appartenere alla stessa prassi lavorativa, situandosi in terreni clinici e relazionali decisamente opposti e disomogenei.

Il lavoro psicologico-psichiatrico tra (molto) professionale e (poco) personale

L’esperienza clinica nel lavoro sulla psicopatologia del paziente ci mette in condizione di fare affermazioni che non risultano prive di attendibilità. Decenni di lavoro sul campo ci permettono quindi una valutazione sulle quantità ottimali delle dimensioni – personale e professionale – indagate nella presente ricerca. La miscelazione dei contenuti della relazione terapeutica più favorevole ci appare la seguente:

  • 80-85% professionale;
  • 20-15 % personale.

Comprendere il contenuto, semplice e nel contempo complicato, delle affermazioni proposte necessita di alcuni importanti assunti. Per definizione, la professionalità non ha nessuno scopo o ragione di esistere senza una persona sulla quale tale conoscenza acquisita sarà orientata. Per un odontoiatra – ad esempio – se nessun essere umano avesse problemi dentari, a che cosa servirebbe la sua professionalità?

La professionalità non può quindi che dirigersi verso una persona portatrice di un disagio, dimensione umana che acquisisce per questo una centralità non discutibile e negoziabile. Nel settore sanitario indagato, tale prassi prevede che la professionalità sia direzionata sul disagio psichico. In caso contrario non sarebbe plausibile e concepibile la ragione del suo esistere. Questa dimensione trova la sua legittimazione e soddisfazione lavorativa nella “dimensione paziente”, nel tentativo di curare il suo disagio (modalità autoplastica, vale a dire capace di adattarsi alle sue necessità senza appiattirsi sulle stesse).

Molto diverso, se non antitetico, appare il discorso sul ruolo dei contenuti personali nel lavoro psicologico-psichiatrico. Tale aspetto delle diverse figure sanitarie non segue ovviamente il tragitto della professionalità, risultando autocentrato sulle soggettive problematiche che rimangono confinate ad un terreno esistenziale asfittico e afono.

In questa situazione, le condizioni appaiono invertite: la professionalità è orientata verso il paziente, i contenuti personali chiedono invece al paziente (in modo più o meno inconsapevole) di guardare verso di loro. Nel contesto delineato, anche i ruoli si invertono: il paziente deve prendersi cura delle figure sanitarie con nefaste conseguenze facilmente immaginabili. Un gruppo che funzioni prevalentemente con tale prassi tende a generare conflitti e rabbia al suo interno e anche nei pazienti, con l’unico risultato di staccarsi progressivamente dal disagio psichico, per avvicinarsi ai propri problemi. Tale atteggiamento può agevolmente essere definito alloplastico, vale a dire un comportamento che tende a cambiare (o manipolare) l’ambiente e le persone secondo i propri bisogni soggettivi.

Nel panorama delineato emerge una deteriore competitività tra le figure professionali (tesa a conquistare centralità e quindi valorizzazione personale), che produce energie e sforzi prevalentemente recintati e non evolutivi (per il gruppo e per il paziente). All’interno di questa asfittica trama relazionale, il soggetto portatore di disagio perde questa sua importante connotazione, volatilizzazione della sua dimensione umana, che lascia il posto ad un’indistinta figura di difficile collocazione professionale, ambientale e esistenziale.

Note conclusive

Il quadro illustrato è un fedele spaccato di quanto il lavoro psicologico-psichiatrico (come altre attività sanitarie) sia ormai sottoposto ad una negativa cultura di natura economicistica, superficiale e individualistica (quando non decisamente narcisistica), deteriore modello che negli ultimi 15-20 anni ha mutato sensibilmente il contenuto basilare di tutte le “relazioni di aiuto”.

Questa innaturale trasformazione ha prodotto una serie di dannose conseguenze, restringendo la professionalità a “mere informazioni” che mancano di uno spessore umano, di empatia, di attiva e efficace collaborazione tra figure sanitarie e paziente, di un interscambio tra le stesse sicuramente arricchente e maturativo, che ormai si limita ad essere un semplice scambio tra ruoli sociali, determinando una confusione lavorativa di non facile attenuazione o soluzione (le cronache sulla sanità pubblica e privata avvallano e rinforzano tale percezione).

Ritornare progressivamente alla supremazia del professionale sul personale, dell’umano sullo strumentale sarebbe un significativo avvio di revisione del tipo di prassi interattiva nel lavoro sanitario, rispetto all’ineliminabile contenuto di sofferenza ad esso connaturato.

Quanto argomentato sollecita quindi una riflessione autocritica profonda sui concetti di figura sanitaria, di paziente e di sofferenza umana, che non possono essere confinati ad una tecnologica “catena di montaggio”. In questo ambito, il concetto di etica professionale e di esistenza perdono il loro spessore umano e valoriale, riducendosi ad una mera e inconsistente “teatralità lavorativa”.

Bibliografia

1. Matteotti A, Crestana N, Trevisani AI. Psicologia e professione infermieristica. Milano: Editrice Ambrosiana, 1991

2. Lingiardi V, Madeddu F. I meccanismi difensivi. Milano: Raffaello Cortina, 1994

3. Rapaport D. Le tecniche proiettive e la teoria del pensiero. In: Rapaport D. Il modello concettuale della psicoanalisi. Milano: Feltrinelli, 1977

4. Freud S. Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico. Opere, vol. 6. Torino: Bollati Boringhieri,1989

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