RHC 2013;4(Suppl 3)41-51.html

Reviews in Health Care 2013; 4(Suppl 3): 41-51

Congress report

La gestione dell’emorragia critica in ostetricia

The management of critical bleeding in obstetrics

Marcus D. Lancé 1

1 Department of Anaesthesiology and Pain Treatment, Maastricht University Medical Centre (MUMC+)

Abstract

Post-partum hemorrhage (PPH) is one of the most frequent causes of maternal death: worldwide it contributes for a 25% of deaths. The risk of death from pregnancy complications has decreased dramatically over the last few decades, but several evidences show they have not yet been reduced to a minimum. There is therefore the need for a further improvement in the quality of medical care. Purpose of this paper is to briefly outline an overview of the definition of PPH, with an illustration of the possible causes and treatments currently available.

WHO defined PPH as excessive bleeding > 500 ml after vaginal delivery and severe PPH as bleeding in excess of 1,000 ml after vaginal delivery, but a variety of definitions for PPH have been proposed, yet no single satisfactory definition exists.

Another crucial item regards the estimation of blood loss, too often based on a visual assessment and, therefore, inaccurate and minimized. However, in medical literature there are no specific classifications for severe bleeding in obstetrics.

During pregnancy there are several changes in coagulation state: because haemostatic reference intervals are generally based on samples from non-pregnant women, this can cause a further difficulty in doing an accurate diagnosis and treatment of haemostatic disorders during pregnancy.

In the treatment of critical bleeding in trauma patients have been developed some new insights that may be applied, at least partially, in the management of bleeding patients in obstetrics. In recent years it has been developed an approach called “Damage control resuscitation”, which combines to the surgery a medical treatment aimed at correcting the underlying coagulopathy. This approach is based on three items: minimise use of crystalloids and colloids; optimise fresh frozen plasma (FFP) to red blood cells (RBC) ratio; make an appropriate use of antifibrinolitic agents, fibrinogen and cryoprecipitate.

Keywords

Post-partum hemorrhage (PPH); Therapy; Transfusion; Procoagulant and anticoagulant factors

Corresponding author

Marcus D. Lancé

marcus.lance@mumc.nl

Disclosure

Il presente Congress Report è stato supportato da CSL Behring

Emorragia post-partum: epidemiologia e incidenza

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Figura 1. Cause di mortalità materna [1]

L’emorragia post-partum (PPH) è una delle cause più frequenti di mortalità materna, rappresentando a livello globale circa il 25% dei casi (Figura 1) [1]. Anche se il rischio di morte per complicazioni del parto si è ridotto drasticamente nel 20° secolo, esistono diverse evidenze che suggeriscono come non sia ancora stato raggiunto il minimo irriducibile. Uno studio retrospettivo condotto da Clark e colleghi su circa un milione e mezzo di parti avvenuti negli USA tra il 2000 e 2006 ha messo in evidenza come nel 75% dei casi di emorragia post-partum tale evento si verifichi in gravidanze a basso rischio e con un basso rischio di emorragie [2]. Inoltre, nel 50% dei casi l’emorragia post-partum è associata a ischemia cardiaca, nonostante la giovane età delle pazienti [3].

La situazione si presenta in modo molto diverso confrontando gli Stati industrializzati e i Paesi in via di sviluppo, che continuano a farsi carico di una quota sproporzionata dei decessi correlati a PPH (99%) rispetto ai paesi industrializzati (1%) [4] (Figura 2).

Le cause di emorragia critica possono essere molteplici: nel 2009 Mukherjee & Arulkumaran hanno introdotto la formula delle “4T” per riassumere efficacemente e sinteticamente le principali cause di PPH [5]:

  • Tono (in relazione alle possibili anomalie della contrazione uterina);
  • Tessuto (per la ritenzione di tessuto amniocoriale o placenta ritenuta);
  • Trauma (ad esempio per rottura uterina, lacerazioni cervicali, inversione uterina o lacerazioni del canale del parto);
  • Trombina (in relazione a disordini emocoagulativi dovuti a disfunzione della trombina).

Secondo uno studio prospettico, condotto in Scozia su donne con grave emorragia ostetrica, l’atonia uterina ha rappresentato la causa più comune (48,4%), seguita dalla placenta ritenuta (18,3%), mentre nel 32% dei casi l’emorragia ostetrica si è verificata per cause multiple (Tabella I) [6]

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Figura 2. Mortalità materna dovuta a PPH nelle diverse zone del mondo [4]

Cause di emorragia

Percentuale

Atonia uterina

48,4

Placenta ritenuta

18,3

Placenta previa

12,6

Lacerazioni vaginali cervicali/ematoma

13,3

Escissione dell’utero

9,7

Abruptio placentae

9,3

Ematoma del legamento largo

4,4

Rottura/inversione uterina

3,1

Tabella I. Cause di PPH nell’audit prospettico di Brace et al. (Scozia, anni 2003-2005). Modificato da [6]

PPH: definizioni

Nel corso degli anni sono state proposte a livello internazionale differenti definizioni per la PPH: attualmente non esiste un’unica definizione soddisfacente e universalmente condivisa. L’OMS definisce l’emorragia post-partum come un sanguinamento superiore a 500 ml dopo il parto vaginale, mentre la PPH grave è definita come un sanguinamento superiore a 1.000 ml dopo parto vaginale [7]. Per la Società olandese di Ostetricia e Ginecologia (Nederlandse Vereniging voor Obstetrie en Gynaecologie - NVOG) si definisce la PPH come una perdita ematica > 1.000 ml / 24 ore [8], mentre per Combs e colleghi la definizione di emorragia critica è basata sulla diminuzione dell’ematocrito di 10 punti e oltre tra il momento del ricovero e il post-partum oppure sulla necessità di trasfusione di globuli rossi [9].

La stima delle perdite ematiche rappresenta un aspetto cruciale: tale stima troppo spesso è basata su una valutazione esclusivamente visiva e, di conseguenza, imprecisa e minimizzata, che può portare a diagnosi e trattamento tardivi. Tuttavia, poiché non esistono classificazioni specifiche per l’emorragia grave in ostetricia, spesso il clinico può trovarsi in difficoltà. Ad esempio la classificazione delle perdite ematiche elaborata nel 2008 dall’American College of Surgeons (ACS) si riferisce a pazienti traumatizzati non in gravidanza (Tabella II) [10], pertanto tali parametri non sono di immediata applicazione in ambito ostetrico, date le peculiarità fisiologiche della gestazione: infatti la frequenza respiratoria nella donna in gravidanza può risultare aumentata in conseguenza della minore capacità funzionale residua dovuta all’aumento delle dimensioni dell’utero, mentre l’emodinamica cambia a seguito dell’adattamento fisiologico generale (con un aumento della gittata cardiaca di circa il 25%).

Classe di shock emorragico

Classe I

Classe II

Classe III

Classe IV

Perdita di sangue* (ml)

< 750

750-1500

1500-2000

> 2000

Perdita di sangue (% volume sanguigno)

< 15%

15-30%

30-40%

> 40%

Pulsazioni (per minuto)

< 100

100-120

120-140

> 140

Pressione sanguigna

Normale

Normale

Diminuita

Diminuita

Pressione di pulsazione (mmHg)

Normale o aumentata

Diminuita

Diminuita

Diminuita

Frequenza respiratoria

14-20

20-30

30-40

> 35

Escrezione urinaria (ml/h)

> 30

20-30

5-15

Trascurabile

Sistema nervoso centrale/stato mentale

Leggermente ansioso

Moderatamente ansioso

Ansioso, confuso

Confuso, letargico

Reintegro dei fluidi

Cristalloidi

Cristalloidi

Cristalloidi e sangue

Cristalloidi e sangue

Tabella II. Classificazione delle perdite ematiche secondo l’American College of Surgeons (2008). Modificato da [10]

* Per un soggetto di sesso maschile, del peso di 70 kg

Anche la letteratura scientifica attesta la criticità di questa situazione, innanzitutto confermando come la stima quantitativa della perdita di sangue sia piuttosto difficile da eseguire [11], secondariamente evidenziando come spesso si assista ad una sottovalutazione del quadro emodinamico, in conseguenza del monitoraggio insufficiente e di una individuazione tardiva del grado di shock [12]. Si correla a ciò anche la comunicazione insufficiente tra pazienti, familiari e professionisti sanitari, che si traduce spesso nella segnalazione tardiva di una richiesta di supporto, sia da parte dei familiari sia da parte delle diverse figure professionali coinvolte [13].

Infine la letteratura riporta un tasso di gestione non ottimale dell’emorragia grave in gravidanza del 66% [14].

Dildy nel 2004 ha proposto di definire la PPH come «ogni perdita ematica nel post-partum che cambia le condizioni della donna» [15]. Tale definizione si propone di accogliere e superare le criticità finora avanzate sulla difficoltà di eseguire una stima corretta della perdita ematica durante il parto, considerando allo stesso tempo l’estrema variabilità dei valori e delle conseguenze cliniche dell’emorragia in ostetricia: i dati della pratica clinica infatti evidenziano come in quasi il 50% dei parti vaginali la paziente perde almeno 500 ml di sangue e, per le donne fortemente anemiche, anche la perdita di 200-250 ml di sangue può risultare fatale.

Adattamenti fisiologici e coagulativi in gravidanza

Aumento

Diminuzione

Nessun cambiamento

  • Fibrinogeno, vWF
  • FVII, FVIII, FIX, FX, FXII
  • PAI, TAFI, TAT, D-dimeri, frammento di protrombina
  • Trombociti
  • Proteina S
  • t-PA
  • FXI, FV, FXIII
  • Proteina C
  • Antitrombina

Tabella III. Fattori procoagulanti e anticoagulanti in gravidanza. Modificato da [17]

PAI = inibitore dell’attivazione del plasminogeno; TAFIT = inibitore della trombina attivante la fibrinolisi; TAT = complesso trombina-antitrombina; t-PAT = attivatore tissutale del plasminogeno; vWFT = fattore di von Willebrand

È noto che nel corso della gravidanza l’organismo femminile presenta molteplici adattamenti fisiologici anche a livello emodinamico: ad esempio, aumentano sia il volume sanguigno (+40%) sia i globuli rossi (+25%), conducendo ad un quadro clinico di emodiluizione; in conseguenza di ciò, circa 1/3 delle donne in gravidanza risulta anemica a termine [16].

Cambiamenti fisiologici avvengono anche a livello dello stato coagulativo (Tabella III), alterato verso una situazione di ipercoagulabilità che, bilanciata dall’attivazione a livello locale del sistema fibrinolitico, predispone le pazienti ad un più rapido consumo di fattori della coagulazione in caso di sanguinamento [17, 18].

Negli ultimi anni diversi gruppi di ricerca hanno condotto studi per determinare il valore predittivo di alcuni parametri in relazione all’insorgenza di emorragia massiva.

Chauleur e colleghi hanno dimostrato che il gruppo sanguigno 0, livelli di fibrinogeno bassi (ma non deficitari), l’antigene del fattore di von Willebrand (vWF:Ag), il fattore XI, il fattore II e la diminuita reazione nel test PFA collagene-ADP sono associati ad un aumentato rischio di emorragia; il valore di Odd ratio aumenta del 16% quando due o più di questi parametri si presentano contemporaneamente [19].

Il gruppo di Charbit ha invece condotto un interessante studio su 128 donne con PPH (50 pazienti presentavano PPH grave e 78 non grave): in base ai risultati dell’analisi multivariata il fibrinogeno è stato l’unico marker associato alla comparsa di PPH grave; in particolare, il valore predittivo negativo di una concentrazione di fibrinogeno > 4 g/l è stata del 79%, mentre il valore predittivo positivo di una concentrazione ≤ 2 g/l è stata del 100% [20].

In un gruppo più ristretto di pazienti (91) Huissoud ha dimostrato come il livello mediano di fibrinogeno risulti significativamente più basso nelle pazienti con PPH rispetto al gruppo di controllo (3,4 e 5,1 g/l, rispettivamente, P < 0,0001), confermando un valore di cut-off per il fibrinogeno di < 2 g/l [21].

Un recente studio di de Lloyd e colleghi ha confrontato i dati di oltre 18.500 parti nel Regno Unito, con 456 casi di emorragia > 1.500 ml (2,5%) per analizzare il valore predittivo di alcuni parametri, come l’emoglobina, la conta piastrinica, il fibrinogeno, il tempo di protrombina e il tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT). Anche in questo studio è risultato come i livelli di fibrinogeno siano il valore che meglio correla con la perdita ematica (r -0,48; P<0,01) e diminuiscano progressivamente man mano che aumenta il volume della perdita ematica. Poiché il valore del fibrinogeno diminuisce in modo continuo, tale parametro sembra essere un valido marker anche nel corso di emorragia massiva [22] (Figura 3).

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Figura 3. Correlazione tra fibrinogeno e sanguinamento [22]

Attualmente esistono diversi test di coagulazione standard, ma la loro affidabilità in caso di emorragia è oggetto di dibattito. Ad esempio, alcuni autori sostengono che aPTT e PT non sono stati studiati per essere utilizzati per lo screening, né per indirizzare la terapia emostatica; altri studi indicano nel fibrinogeno un buon indicatore, mentre altri ancora evidenziano il possibile ruolo dei D-dimeri[20, 22-24].

Un altro aspetto fondamentale riguarda la generazione di trombina, poiché la quantità di trombina prodotta fornisce molte informazioni sul funzionamento del sistema coagulativo: purtroppo i tempi di elaborazione dei risultati con il test CAT (Calibrated automated thrombogram) sono piuttosto lunghi (circa 1 ora) e possono inficiarne l’utilizzo nella pratica clinica. Attualmente sono allo studio altri test, come ad esempio quello del gruppo di lavoro del Maastricht University Medical Centrum, che dovrebbe essere pronto entro un paio di anni.

Al momento i test più comunemente utilizzati sono ROTEM® e TEG®, che sono in grado di fornire un quadro informativo sulle funzionalità della coagulazione e anche alcune indicazioni sulla funzionalità piastrinica. La loro applicazione nell’ambito dell’emorragia massiva in ostetricia rimane comunque oggetto di dibattito, data la scarsità di studi e l’incertezza dei valori di cut-off in questa situazione specifica. Esistono alcuni studi in letteratura, come ad esempio i lavori di Huissoud, Oudghiri e Armstrong, ma sono stati effettuati su un piccolo campione di pazienti, escludendo proprio le pazienti con emorragia massiva [24-26].

Terapia

Nella terapia dell’emorragia critica nei pazienti traumatizzati sono state elaborate alcune indicazioni che possono essere trasposte, almeno in parte, nella gestione delle pazienti in ostetricia. In particolare negli ultimi anni si è sviluppato un approccio denominato “Damage control resuscitation”, che affianca all’intervento chirurgico un trattamento medico finalizzato alla correzione dei fattori associati alla coagulopatia ed è basato su tre cardini fondamentali: minimizzare la somministrazione di cristalloidi e colloidi, ottimizzare il rapporto FFP:RCB; utilizzare in modo appropriato agenti fibrinolitici, fibrinogeno o crioprecipitati [27, 28].

In quest’ottica, la prima fase dell’intervento deve essere dedicata ad evitare che si instaurino sia la cosiddetta “triade letale” (costituita da ipotermia, acidosi e coagulopatia), sia l’anemia (con valori di Hb < 8,0 g/dl). L’obiettivo rimane il controllo del sanguinamento, da perseguirsi con procedure farmacologiche o chirurgiche o mediante interventistica [29]. La pratica clinica in traumatologia ha suggerito che, in questo ambito e per un breve periodo di tempo, può essere di utilità anche l’ipotensione permissiva, con una pressione sanguigna sistemica di circa 90 mmHg [30]. In sintesi, si deve evitare il circolo vizioso illustrato in Figura 4.

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Figura 4. Circolo vizioso da interrompere per una migliore gestione del sanguinamento critico

Dalla traumatologia deriva anche il possibile utilizzo dell’acido tranexamico in donne in gravidanza. Secondo i dati analizzati da tre reviews, l’acido tranexamico potrebbe trovare una sua applicazione in ostetricia, seppure la riduzione della perdita di sangue ottenibile con la somministrazione di acido tranexamico non risulti significativa, soprattutto in considerazione del volume di perdita ematica dovuta a emorragia massiva nel post-partum [31-33].

La desmopressina acetato (DDAVP) potrebbe costituire un’alternativa terapeutica, ma i suoi risultati di efficacia in chirurgia generale sono stati piuttosto deludenti [34], perciò anche la sua somministrazione in ostetricia non è raccomandata.

La terapia standard prevede dunque il reintegro dei fluidi e la trasfusione, da effettuarsi in base a quanto previsto da protocolli prestabiliti e, possibilmente, con il supporto derivante dal monitoraggio dei risultati tramite test di laboratorio o device, come ROTEM®, INR, aPTT, PT, conta piastrinica ed emoglobina.

La maggioranza delle linee guida per la gestione di pazienti non ostetrici si basa su standard di laboratorio; ad esempio l’American Society of Anesthesiologists (ASA) indica come valori di riferimento per la trasfusione di FFP: aPTT >2 o PT >1,5 oppure INR>2,0 oppure coagulazione intravascolare disseminata (CID) o emorragia attiva diffusa [35-37].

Un ruolo cruciale nella emostasi è svolto dalle piastrine. Generalmente, in letteratura, la trasfusione di piastrine è indicata quando la conta risulta < 50.000/ml in caso di sanguinamento eccessivo o < 10.0000/ml in caso di multitrauma o sospetta disfunzione piastrinica [35, 38]. Rimane comunque oggetto di dibattito l’opportunità di effettuare la trasfusione di piastrine precocemente: in base a studi effettuati in traumatologia e in ambito militare, alcuni autori hanno indicato l’efficacia di un rapporto fisso FFP:RBC(:TC) di 1:1(:1) nel fermare il sanguinamento. Tuttavia è bene sottolineare che questi dati solitamente derivano da studi retrospettivi, quindi devono essere considerati con una certa prudenza. Sono invece frutto di studi prospettici le linee guida scandinave nelle quali si raccomanda la somministrazione rapida di un pacchetto di trasfusione di emergenza di 5:5:2 (PRBC: FFP: PLT), preferibilmente monitorato tramite ROTEM®/TEG®, per favorire l’arresto del sanguinamento e ripristinare un valore accettabile dei parametri di coagulazione, come ad esempio: Hb 4,5-5,6; INR 1,2-1,3; aPTT 35-40; conta piastrinica 90-100/l [39, 40].

Un’altra opzione terapeutica è rappresentata dal trattamento con concentrati di fattori della coagulazione, e attualmente la terapia con fibrinogeno appare promettente. In contrasto con la letteratura precedente, studi più recenti indicano come il livello di fibrinogeno diminuisca in una fase precoce del sanguinamento [41]. Anche il limite è stato aggiornato: il precedente valore era di 1 g/l, mentre i Trauma Center attualmente considerano un valore di 1,5-2,0 g/l, a seconda dei diversi studi pubblicati [42]. Probabilmente nei casi di PPH il livello da porsi come target dovrebbe essere ancora maggiore, in quanto i valori di fibrinogeno nelle donne al termine della gravidanza sono notevolmente aumentati anche in condizioni di normalità (senza sanguinamento), arrivando a 4 g/l e oltre. Anche in questo caso il monitoraggio con ROTEM®/TEG® può comportare un vantaggio [19, 20]: il fibrinogeno dovrebbe essere somministrato a un dosaggio iniziale di 3-4 g e successivamente essere titolato in base ai valori di FIBTEM [43, 44].

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Figura 5. Relazione tra temperatura del paziente e risposta a FVIIa. Modificato da [47]

Nei casi in cui la deplezione del fibrinogeno non costituisce la criticità, si può considerare l’uso di un concentrato del complesso della protrombina (PCC) come alternativa al trattamento con FFP. Il PCC contiene i fattori II, VII, IX, X, la proteina C, la proteina S, AT (antitrombina) ed è in genere indicato nella gestione delle emorragie in pazienti in terapia con antagonisti della vitamina K (VKA). Il suo utilizzo off label nella terapia del sanguinamento è piuttosto frequente, dati i risultati positivi ottenuti sul modello animale, ma richiede molta cautela poiché esiste un forte rischio di insorgenza di CID: i risultati sono strettamente correlati al tipo di prodotto e al dosaggio, quindi nella pratica clinica è fondamentale valutare attentamente le caratteristiche del prodotto a disposizione (ad esempio, il rischio di insorgenza di CID potrebbe risultare minore se il PPC contiene anche una piccola quantità di eparina).

Attualmente l’utilizzo del fattore VII attivato ricombinante (rFVIIa) viene raccomandato sia dalle linee guida americane sia da quelle europee solo come ultima scelta [35,42]. In ostetricia sono stati pubblicati alcuni lavori, soprattutto review di casi clinici, nei quali gli autori ne hanno dimostrato un’efficacia accettabile. Nonostante ciò, permangono alcuni dubbi sul suo utilizzo, soprattutto a causa del rischio di insorgenza di effetti collaterali quali patologie tromboemboliche [45, 46]. Questo rischio deve essere tenuto ben presente soprattutto nella gestione delle pazienti in gravidanza che risultano già essere in uno stato di ipercoagulabilità, e dunque maggiormente suscettibili alla comparsa di tromboembolismo rispetto alla popolazione generale.

Inoltre, per un corretto ed efficace utilizzo di rFVIIa, il paziente deve presentarsi in condizioni ottimali per quanto riguarda pH, temperatura e substrato (ad esempio, altri fattori della coagulazione). Le evidenze disponibili in letteratura indicano un valore soglia per il pH di 7,2: al di sotto di tale valore l’efficacia dell’rFVIIa diminuisce [47, 48]. Anche la temperatura del paziente influisce sulla risposta a FVIIa, seppure in maniera meno marcata rispetto al pH, così come messo in evidenza da Kheirabadi e collaboratori, che hanno analizzato campioni di sangue con soluzione salina e FVIIa a diverse temperature (Figura 5), dimostrando un accorciamento di aPTT e PT [47]. L’effetto delle due variabili combinate (ipotermia e acidosi) è maggiore rispetto alla singola variabile.

Il ruolo del fibrinogeno è invece messo in evidenza dallo studio di Ganter il quale, in un modello in vivo, ha dimostrato come l’efficacia del rFVIIa nel contrastare la coagulopatia da diluizione sia strettamente dipendente dalla presenza di alti livelli di fibrinogeno [49]. Inoltre in letteratura è riportato almeno un caso, ma nella pratica clinica se ne conoscono altri non pubblicati, nel quale rFVIIa non è stato efficace poiché non era presente una quantità adeguata di fibrinogeno [50].

Conclusioni

Per concludere, la gestione della PPH in ostetricia può essere sintetizzata come segue: il primo passo deve essere costituito dal corretto monitoraggio dei parametri emodinamici (in modo da individuare ed evitare lo stato di shock) e della competenza emostatica, in termini di controllo strumentale dinamico della coagulazione (ad esempio tramite l’utilizzo di device quali ROTEM®/TEG®), integrato con parametri ematologici (emoglobina, conta piastrinica).

Il secondo passaggio è rappresentato dalla prevenzione della perdita di sangue, evitando l’emodiluizione conseguente ad una eccessiva quantità di fluidi somministrati e utilizzando l’acido tranexamico al dosaggio di 1-2 g i.v. (anche in relazione ai risultati EXTEM/APTEM).

Fermare il sanguinamento, tramite la messa in atto delle misure adeguate, sia chirurgiche sia interventistiche, costituisce l’obiettivo del terzo passaggio.

In generale, come base di partenza per migliorare l’emostasi, è necessario creare un ambiente favorevole alla coagulazione, cercando di aumentare l’emoglobina e la temperatura (> 36 C) e ottimizzando il pH (> 7,2). Quindi, in base ai risultati FIBTEM, è necessario verificare la possibilità di somministrare fibrinogeno al dosaggio di 3-6 g.

Nei pazienti con trombocitopenia o trombocitopatia potrebbe essere necessario somministrare precocemente concentrati di piastrine.

In mancanza di disponibilità del fibrinogeno, possono essere messe in atto alternative quali la somministrazione di un’alta dose di FFP (30-50 ml) e concentrati di piastrine, oppure è possibile aggiungere FFP al concentrato di fibrinogeno (2 g). L’obiettivo rimane il raggiungimento di livelli di fibrinogeno > 2 g/l (FIBTEM > 12 mm) e di piastrine > 75 x 109/l.

Se il paziente permane nella condizione di sanguinamento critico, è possibile ricorrere nuovamente all’utilizzo di FPP al dosaggio di 30 ml/kg oppure considerare il ricorso a PCC (20-25 UI/kg), al fine di ottenere i seguenti valori: INR <1,8, aPTT< 40 s o CT < 90 s, A15 > 45mm (EXTEM).

Come ultima opzione, se ancora non si è ottenuta l’interruzione dell’emorragia, resta la somministrazione di FVIIa (al dosaggio di 90 µg/kg) o di altri concentrati di fattori (ad esempio FXIII) [51].

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