PM&AL 2011;5(1)7-13.html

Problemi etici dell’assistenza al neonato ad alto rischio

Marcello Orzalesi 1

1 Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus, Roma

Abstract

Recent progress in neonatal care have significantly improved the prognosis and chances of survival of critically ill or extremely preterm neonates and have modified the limits of viability. However, in some circumstances, when the child’s death can only be briefly postponed at the price of severe suffering, or when survival is associated with severe disabilities and an intolerable life for the child and his/her parents, it may not be appropriate to utilize all the armamentarium of neonatal intensive care. In such circumstances the limitation of intensive treatments (withholding or withdrawing) could represent a more human and reasonable alternative.

This article examines and discusses the ethical principles underlying such difficult decisions, the most frequent situations in which these decisions might be considered, the role of parents in the decisional process and what are the opinions and behaviours of neonatologists of numerous European neonatal intensive units.

Keywords: neonatal intensive care, neonatal ethics, limitation of treatments

Ethical problems in the management of high risk newborn

Pratica Medica & Aspetti Legali 2011; 5(1): 7-13

Introduzione

Viviamo in un’era in cui i progressi della medicina e della tecnologia e la disponibilità di tecniche assistenziali sempre più avanzate e sofisticate hanno cambiato radicalmente per il medico la propria capacità di modificare la malattia e di influire sul corpo umano, permettendo di spostare i tempi della vita e della morte e la loro qualità. È quindi lecito chiedersi oggi: la medicina cura la malattia o trasforma l’uomo, manipolandone anche l’origine e lo sviluppo [1]?

Come sappiamo, i problemi di ordine etico, deontologico e sociale sono tanto più acuti e complessi quanto più ci si confronta con situazioni che stanno tra la vita e la morte, o che possono provocare profonde modificazioni nella vita di un individuo e della sua famiglia, o in cui la dipendenza del paziente nei confronti del medico e del personale di assistenza è massimale, come nei reparti di emergenza, di rianimazione e, per quanto ci riguarda, di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) [2].

Tali problematiche appaiono particolarmente pressanti e complesse quando si ha a che fare con un neonato, incapace di esprimere un consenso informato riguardo alle cure a cui è sottoposto, generalmente invasive, dolorose e talvolta anche futili e mirate solo a “prolungare” una vita di grande sofferenza, oppure associate a danni iatrogeni importanti o a esiti devastanti sotto il profilo della qualità della vita dell’individuo e della sua famiglia [3].

Gradualmente, si è fatto strada il concetto secondo cui non sempre si deve fare tutto ciò che è tecnicamente possibile, ma che in certe situazioni la medicina intensiva deve lasciare il posto a quella palliativa, e l’obiettivo terapeutico non deve più essere quello di salvaguardare ad ogni costo la vita, quanto quello di garantire il benessere o per lo meno di controllare la sofferenza [4].

Tale approccio si è venuto sempre più affermando nel settore delle cure intensive neonatali. Negli ultimi trenta anni la frequenza delle decisioni di limitare il trattamento intensivo è andata progressivamente aumentando nel tempo, tanto che oggigiorno la maggior parte delle morti neonatali è preceduta dal non inizio o dalla sospensione dei trattamenti [2,4].

Ciò non deve far pensare che a un numero crescente di neonati vengano negate le cure necessarie. Piuttosto, è la conseguenza della maggior efficacia delle terapie intensive, con una riduzione del numero totale delle morti neonatali e un aumento relativo di quelle dovute a condizioni incurabili o comunque gravissime, che spesso vengono precedute da una qualche forma di limitazione della terapia aggressiva a favore di quella palliativa. Ciò rappresenta anche l’effetto della continua ridefinizione di termini come “vitalità neonatale” e “nato vivo”, conseguente all’aumento della sopravvivenza dei nati molto pretermine, con un progressivo abbassamento dei limiti estremi di età gestazionale per i quali può essere appropriato intervenire con i mezzi intensivi.

Questo stato di cose pone alcune problematiche etiche importanti e complesse, che cercherò di esaminare brevemente in questa mia esposizione, e precisamente:

  • se sia eticamente accettabile limitare (non iniziare o sospendere), in particolari circostanze, le cure intensive neonatali;
  • quando e in quali pazienti può essere eventualmente opportuno limitare i trattamenti intensivi;
  • se il “non inizio” e la “sospensione” delle cure intensive siano da considerare sullo stesso piano;
  • come decidere in tal senso e chi deve essere coinvolto nel processo decisionale;
  • se sia possibile o anche appropriato raggiungere un consenso unanime su questi interrogativi e un approccio uniforme su come risolvere questi problemi.

La limitazione delle cure intensive neonatali è eticamente giustificata?

Ovviamente il dilemma etico cruciale è se sia o meno eticamente corretto negare o sospendere i trattamenti intensivi in talune circostanze, poiché implica due posizioni filosofiche ed etiche apparentemente inconciliabili: una, basata sulla “sacralità” della vita, che considera la vita umana un dono di Dio, con un valore intrinseco indipendente dalla sua “qualità” e del quale non possiamo disporre liberamente; l’altra che fa invece riferimento alla “qualità” della vita e considera alcuni tipi di esistenza umana gravemente compromessa come peggiori della morte stessa [5,6].

Già più di trent’anni fa, Duff e Campbell, in uno storico articolo apparso sul New England Journal of Medicine [7], hanno sottolineato come questi casi rendano evidenti i conflitti di interesse che possono sorgere tra coloro (medici, personale paramedico, familiari e paziente stesso) che debbono decidere dell’assistenza di malati incompetenti in pericolo di vita o con handicap grave o permanente.

Essi hanno inoltre sottolineato come in questi casi ci si possa ispirare a due diverse “filosofie” assistenziali [8]:

  • la prima, più rigida e più tradizionale, è quella orientata alla malattia: in base a essa la sopravvivenza tout court e ad ogni costo è ciò che più conta e la morte viene vista come la sconfitta più grave da evitare con ogni mezzo;
  • la seconda, più flessibile, è orientata alla persona: essa prende in considerazione la qualità della vita e vede alcuni tipi di esistenza gravemente compromessa come più negativi della morte stessa.

La letteratura su queste problematiche riguardanti il neonato si è molto arricchita in tempi recenti, con svariati contributi sia in Europa che in Nord America [2,9].

Particolarmente importante al riguardo appare il progetto finanziato dalla Comunità Europea (EURONIC Project), al quale ho avuto i privilegio di partecipare direttamente, disegnato appunto per indagare quali fossero i pareri e i comportamenti di oltre 1.400 medici e più di 3.400 infermieri delle TIN di alcuni Paesi Europei e quali potessero essere le motivazioni delle diverse prassi adottate [10].

Il pochissimo spazio a disposizione non mi permette di entrare nei dettagli di questo studio, i cui risultati sono stati peraltro in buona parte già pubblicati [11-15].

Mi limito solo sottolineare che la maggior parte dei neonatologi europei considera appropriata ed eticamente giustificata, in circostanze particolari, una limitazione dei trattamenti intensivi, sia il non inizio (withholding) che la sospensione (withdrawing), con una certa preferenza per la prima modalità. Tale disponibilità è però maggiore quando la prognosi è infausta sotto il profilo della sopravvivenza che non sotto il profilo di esiti gravi e permanenti.

Vi sono tuttavia delle differenze apprezzabili tra i medici dei diversi Paesi europei, sia nella disponibilità a procedere in tal senso, sia nelle modalità ritenute più appropriate per metterlo in atto. Gli italiani, insieme agli spagnoli, sono i meno propensi a limitare i trattamenti intensivi.

Non intendo in questa sede approfondire ulteriormente questo aspetto, anche perchè richiederebbe molto tempo e spazio e non porterebbe comunque a conclusioni certe e condivise da tutti. Tuttavia, poiché è in ogni caso evidente che procedure di eutanasia passiva, o anche attiva, vengono correntemente applicate nelle TIN del mondo occidentale, mi soffermerò brevemente su altri problemi di ordine più strettamente medico-assistenziale che questo approccio comporta, ovvero:

  • in quali circostanze e per quali pazienti si pongono tali scelte;
  • se vi siano o meno delle differenze sostanziali tra il “non inizio” e la “sospensione” dei trattamenti intensivi;
  • chi debba prendere queste decisioni e se e come i genitori debbano essere coinvolti nel processo decisionale riguardante il loro bambino;
  • se sia possibile o semplicemente desiderabile raggiungere un consenso generale sui comportamenti da seguire in questi casi.

In quali pazienti può porsi il problema della limitazione dei trattamenti intensivi?

Molto schematicamente, le situazioni più frequenti e più tipiche nelle quali si può porre il problema della limitazione dei trattamenti intensivi in terapia intensiva neonatale possono essere ricondotte a quattro categorie principali, elencate in Tabella I.

Categoria

Esempio

Neonati estremamente pretermine o “non vitali”

Nati di età gestazionale inferiore alle 23-24 settimane

Neonati con difetti congeniti incompatibili con una sopravvivenza a “breve termine”

Neonati con anencefalia

Neonati con prognosi letale a “medio termine”

Neonati con trisomia 13 o 18 con o senza malformazioni associate

Neonati con una prognosi infausta a “lungo termine” o con una pessima “qualità di vita”

Pazienti con una paralisi neuro-muscolare progressiva o con una emorragia intra-ventricolare bilaterale di 4° grado

Tabella I. Principali categorie di pazienti nelle quali si può porre il problema della limitazione dei trattamenti intensivi in terapia intensiva neonatale

Le prime due, ossia i neonati “estremamente pretermine” e quelli con prognosi infausta a “breve termine”, sono più pertinenti al “non inizio” (withholding) della rianimazione o della ventilazione meccanica alla nascita o nelle primissime ore di vita; le altre due sono più pertinenti alla “sospensione” (withdrawing) dei trattamenti nelle unità di terapia intensiva neonatale. Il problema del “non inizio” dei trattamenti può sorgere non tanto in presenza di un neonato con anencefalia, per il quale un approccio aggressivo non è consigliato da nessuno, quanto, piuttosto, nel caso di un neonato molto pretermine, ai limiti estremi delle possibilità teoriche di sopravvivenza.

E questo suscita la problematica del cosiddetto neonato “non vitale”, e quindi della definizione di “vitalità”, la viability degli Autori inglesi.

Se consultiamo il Webster’s Dictionary, vi troviamo quattro definizioni di viability, che in qualche misura differiscono tra loro [16].

La prima fa semplicemente riferimento alla capacità di sopravvivenza tout court (capable of living); la seconda introduce il concetto di sviluppo fetale (foetal organ development) e di normalità (normally capable of living); la terza precisa ulteriormente questo ultimo punto e aggiunge il concetto di non necessità di un supporto artificiale per la sopravvivenza (without artificial support); infine, l’ultima definizione aggiunge un ulteriore requisito, collegato alla “qualità” della sopravvivenza, ovvero quello di uno sviluppo che consenta un certo grado di autonomia (development as an indipendent unit).

Queste definizioni, e altre analoghe che possiamo trovare su svariati dizionari, o anche sui comuni testi di medicina legale, non hanno molto senso per i neonatologi, che sono quotidianamente impegnati a utilizzare mezzi straordinari e tecnologie sofisticate, per assistere proprio quei pazienti che sarebbero altrimenti destinati a morte certa o a lesioni permanenti.

Definizioni più pertinenti potrebbero essere quella biologica e/o quella epidemiologica: la prima prende in considerazione il minimo grado di maturazione anatomica e funzionale del feto (e in particolare dell’apparato respiratorio) tale da consentirne la sopravvivenza anche con l’impiego di mezzi straordinari, come la somministrazione di surfattante esogeno e la ventilazione meccanica; la seconda si basa invece su di un criterio statistico e fa riferimento ai tassi di sopravvivenza, con o senza esiti gravi e permanenti, effettivamente riscontrati in studi epidemiologici nei pretermine di età gestazionale molto bassa.

Occorre tuttavia sottolineare che ambedue questi criteri sono meramente statistici e basati su studi clinici ed epidemiologici di popolazioni relativamente eterogenee di neonati, nelle quali le possibili differenze individuali vengono di fatto annullate: il che pone il problema di come utilizzarli per prendere delle decisioni a livello del singolo paziente.

Inoltre essi sono influenzati da numerosi fattori, sia pre- che post-natali, tra cui il sesso, l’etnia, la gemellarità, l’ordine di genitura, la presenza o meno di infezioni o di altre patologie materne o fetali, ecc., nonché dal tipo di assistenza pre- e post-natale, come la profilassi con corticosteroidi, il luogo e le modalità del parto, l’assistenza praticata in TIN. Infine, essi possono dipendere anche dalla posizione “etica” dell’équipe assistenziale nei confronti di neonati estremamente pretermine: neonati considerati “non vitali” fino a pochi anni fa esibiscono oggi tassi di sopravvivenza che si avvicinano al 50%.

Pertanto la così detta “vitalità” va di fatto considerata come un concetto dinamico e flessibile, e che non dipende solo dall’età gestazionale del feto, ma che è influenzato da molteplici fattori che vanno presi in considerazione nella valutazione individuale del singolo paziente.

Il “non inizio” e la “sospensione” dei trattamenti intensivi sono equivalenti?

Desidero, a questo punto, accennare brevemente alle possibili differenze tra il “non inizio” (withholding) e la “sospensione” (withdrawing) delle cure, in particolare per quanto riguarda la loro valenza etica e altri problemi collegati, come l’incertezza diagnostica e la durata della sopravvivenza.

In generale i bioetici, i filosofi e gli esperti legali sono concordi nel considerare queste decisioni, ovvero il non inizio e la sospensione, ambedue come esempi del “lasciar morire”e quindi moralmente ed eticamente equivalenti [5,6,17].

Anzi, se vogliamo, nei casi dubbi una rianimazione iniziale e un successivo tentativo di trattamento in TIN potrebbero permettere di precisare meglio la diagnosi e di definire più accuratamente la prognosi, contribuendo così a diminuire l’incertezza e consentendo ai medici, ai genitori e ad altri partecipanti al processo decisionale di sentirsi più tranquilli nel decidere di sospendere la terapia quando questa si sia dimostrata inefficace.

Eppure non vi è dubbio che per il neonatologo e per tutta l’èquipe assistenziale, come anche per i genitori stessi, vi sia una differenza psicologica importante tra i due atti, e forse anche una diversa valutazione delle conseguenze medico-legali che essi comportano. Decidere di non iniziare una rianimazione spinta o una ventilazione meccanica può essere percepito come permettere che la malattia faccia il suo corso, evitando di interferire con l’andamento “naturale” degli eventi: sarà quindi la gravità della malattia che determinerà l’esito e ne sarà in qualche modo direttamente responsabile.

Invece, sospendere le cure, lo “staccare la spina” come si suole dire, interrompendo la ventilazione meccanica o altre forme di sostegno vitale, appare come un evento più drammatico, in cui la relazione tra l’atto medico e l’esito è più immediata e diretta.

Questo spiega perché sudi recenti in diversi Paesi europei hanno mostrato uno scenario variegato, con pratiche di “non inizio” coesistenti con quelle di “sospensione”, seppure con frequenza diversa [13,14]. Vi sono Paesi, come l’Italia, dove è più accettato il non iniziare un trattamento intensivo, piuttosto che sospenderlo una volta iniziato.

Un secondo problema è quello dell’incertezza riguardo alla prognosi, che viene frequentemente utilizzata come supporto alla decisione di continuare il trattamento ad oltranza [18].

Questa, però, mi sembra un’ipocrisia, visto che l’avanzamento delle conoscenze scientifiche, la disponibilità di dati epidemiologici sempre più accurati e di mezzi diagnostici sempre più affidabili hanno fortemente ridotto il margine di errore nella diagnosi e nella prognosi. Certo, la certezza assoluta, del 100%, non potrà mai essere raggiunta; ma questo è vero anche per la stragrande maggioranza degli interventi diagnostici e terapeutici che attuiamo nella nostra pratica quotidiana e quindi non può costituire un alibi per non prendere una decisione. Tra l’altro, nelle situazioni di cui stiamo discutendo, quelle cioè con una forte valenza etica, il non decidere rappresenta comunque una decisione, che è quindi di nostra competenza e delle cui conseguenze siamo pertanto chiamati a rispondere.

Infine, un terzo problema riguarda la durata della sopravvivenza successivamente alla sospensione dei trattamenti intensivi: se ci sia cioè una differenza tra una brevissima dilazione del decesso, come nel caso di una anencefalia, oppure una sopravvivenza molto più lunga, come nel caso di una paralisi neuro-muscolare progressiva.

In queste situazioni si pone la questione della “proporzionalità” delle cure: ciò che è ritenuto importante non è tanto la “durata” della sopravvivenza, quanto la sua “qualità”, ovvero il livello di sofferenza a cui deve essere sottoposto il paziente nell’intento di prolungarne l’esistenza [2,5].

Chi deve decidere sulla opportunità o meno di limitare i trattamenti intensivi?

Per quanto concerne, infine, il processo decisionale, un aspetto cruciale riguarda il ruolo dei genitori. Anche in questo caso possiamo attingere ai risultati dello studio EURONIC [11], che ha mostrato una certa eterogeneità riguardo alle opinioni dei neonatologi sull’opportunità o meno di coinvolgere i genitori in questo tipo di decisioni, con notevoli differenze tra i medici dei diversi Paesi e una certa riluttanza, soprattutto degli Italiani, a coinvolgere i genitori e a seguirne le indicazioni. È anche interessante notare che in tutti i Paesi la disponibilità dei medici a lasciare ai genitori la decisione ultima sulla sorte del loro bambino è maggiore quando questi ultimi chiedano di continuare le cure rispetto a quando chiedano di sospenderle. In generale, tuttavia, vi è un ampio consenso sulla necessità di informare i genitori e di coinvolgerli in qualche modo nel processo decisionale.

Ciò pone il problema di quale sia la modalità migliore per farlo.

Per quanto riguarda i neonati “al limite” della “vitalità” o comunque gravemente compromessi, mi sembra che l’approccio suggerito da Tyson e colleghi [19] sia forse quello più ragionevole dal punto di vista pratico.

Questi Autori suggeriscono che in tali circostanze l’approccio debba essere individualizzato e deciso caso per caso, facendo riferimento a queste quattro categorie: mandatorio (mandatory), opzionale (optional), investigativo (investigational) e irragionevole (unreasonable).

Mandatorio si riferisce a qualsiasi trattamento che abbia elevate probabilità di successo e che offra al paziente un significativo beneficio; in questo caso il medico ha l’obbligo morale e legale di procedere al trattamento, indipendentemente dalle preferenze espresse dai genitori.

D’altro canto, quando invece il trattamento appaia futile, ovvero non in grado di modificare la prognosi infausta, il volerlo iniziare e/o continuare a tutti costi, appare del tutto irragionevole; in questo caso la ventilazione meccanica o altre procedure invasive e dolorose, che non garantiscono alcun beneficio, mentre infliggono inutili sofferenze al paziente, dovrebbero essere sospese. Se i genitori non sono d’accordo, può essere necessario dare loro il tempo di riflettere e di accettare questa seppure dolorosa prospettiva. In ogni caso va tenuto nella massima considerazione il miglior interesse (the best interest) del bambino, che deve costituire sempre l’obiettivo primario del medico.

La definizione di opzionale si applica a quelle situazioni nelle quali i rischi del trattamento siano molto elevati e i possibili benefici siano molto scarsi o incerti.

In questi casi gli Autori suggeriscono di esplorare adeguatamente i desiderata dei genitori e di seguire le loro indicazioni.

La categoria del trattamento mandatorio da un lato e quella del trattamento irragionevole o anche opzionale dall’altro ricalcano da vicino i termini di “obbligatorio” e “non obbligatorio” comunemente utilizzati in bioetica [5].

Assai più interessante, perché in qualche modo innovativa, è la categoria definita da Tyson come investigativa. In questa categoria possono essere comprese quelle situazioni nelle quali gli effetti finali del trattamento siano sconosciuti oppure non comprovati per quel tipo di paziente. In questi casi il medico può chiarire ai genitori che il trattamento proposto è talmente nuovo, o che i suoi effetti su quel paziente sono così incerti o sconosciuti, che deve essere considerato come una procedura sperimentale e innovativa. Deve essere chiaro in questi casi che né il medico né i genitori sanno con certezza cosa accadrà, e che quindi essi procedono solo sulla base di un’ipotesi e/o di una semplice speranza. È pertanto necessario che sia il medico che i genitori rivalutino continuamente e criticamente il successivo decorso clinico e gli eventuali effetti del trattamento e, nel caso che l’ipotesi di partenza si dimostrasse errata e le speranze riposte risultassero non realistiche, essi siano pronti a terminare l’investigazione e a interrompere il trattamento. Questa categoria investigativa appartiene di fatto alla sfera della sperimentazione sull’uomo e richiede quindi un consenso informato scritto da parte dei genitori, nonché un’accurata valutazione dei risultati ottenuti, sia favorevoli sia sfavorevoli, mediante un rapporto finale. È anche la situazione in cui è più opportuno coinvolgere il comitato di bioetica, se possibile prima di decidere o altrimenti nella valutazione finale.

È possibile raggiungere un consenso unanime riguardo ai problemi qui discussi?

Lo studio EURONIC ha dimostrato come le opinioni dei neonatologi europei e i conseguenti comportamenti possano variare da Paese a Paese e che questa variabilità può essere spiegata solo in piccola parte dalle diverse caratteristiche personali dei medici intervistati. Essa sembra essere “Paese-specifica” ed è probabilmente collegata ad altri fattori di tipo storico, sociale, culturale, di costume, di ordine legale o altro ancora. Anche i neonatologi nord americani mostrano un’analoga variabilità di opinioni e comportamenti a fronte di decisioni così pregnanti dal punto di vista bioetico [20].

Esiste, tuttavia, un accordo generale sul fatto che la terapia intensiva neonatale è ormai diventata uno strumento troppo potente per essere applicata in modo indiscriminato, e che non sempre è opportuno fare tutto quello che è tecnicamente possibile [2,21].

Considerata la natura e la complessità di queste problematiche e le implicazioni umane, medico-legali e sociali delle decisioni che siamo chiamati a prendere, non deve destare meraviglia che nella pratica clinica i comportamenti possano differire tra medico e medico, tra centro e centro e tra Paese e Paese. Può essere quindi utopistico attendersi un pieno accordo su tutto, anche perché ci si riferisce a un settore della nostra attività che è in rapida evoluzione; e forse non è nemmeno necessario giungere alla formulazione di protocolli rigidi utilizzabili in tutte le circostanze. Ciò che è invece possibile, ed è anzi necessario, è che questi problemi vengano affrontati utilizzando una metodologia eticamente corretta, evitando improvvisazioni e attenendosi ai principi fondamentali della bioetica. Dobbiamo infatti essere consapevoli che se le decisioni saranno state prese seguendo un iter eticamente corretto, esse saranno comunque delle decisioni eticamente e moralmente difendibili.Su questo punto ritengo che potremo utilmente confrontarci, con l’aiuto di esperti di questa disciplina, per uniformare e ottimizzare i nostri comportamenti.

Conclusioni

In conclusione, occorre prendere atto che i neonatologi si trovano in una posizione critica quando devono prendere decisioni del tipo che abbiamo appena discusso, per lo scalpore e il turbamento che esse possono generare nel pubblico. Oggi la società, anche per l’azione dei mass media, si attende da noi soluzioni soddisfacenti in ogni caso, talvolta del tutto irrealistiche o miracolose; nello stesso tempo essa si aspetta che noi medici non si abbia un comportamento ambiguo verso i valori della vita, poiché impersoniamo agli occhi della società proprio coloro che sono tenuti a salvaguardare la vita stessa.

Il problema quindi è di come possiamo far fronte al meglio a questa nostra nuova responsabilità, considerando tutte le componenti di uno scenario complesso: il paziente e i suoi genitori, il medico, l’infermiere e le altre componenti dell’équipe assistenziale, e la società, con le sue aspettative, i suoi valori morali e i suoi vincoli legali.

Disclosure

L’Autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito agli argomenti trattati nel presente articolo.

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Corresponding author

Prof. Marcello Orzalesi

Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus

Via del Nuoto 11, 00135 Roma

E-mail: m.orzalesi@maruzza.org

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