PM&AL 2016;10(2)29-34.html

Nutrizione oggi: nuove tendenze, vecchi principi?

Antonino Faillaci 1, Francesco Iarrera 2

1 Medico di medicina generale, specialista in medicina interna, Centro di Riabilitazione Nutrizionale, Oliveri (ME)

2 Dietista, esperto nella terapia dei disturbi dell’alimentazione e dell’obesità, responsabile Centro di Riabilitazione Nutrizionale, Oliveri (ME)

Nutrition today: new trends, old principles?

Pratica Medica & Aspetti Legali 2016; 10(2): 29-34

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v10i2.1244

Corresponding author

Antonino Faillaci

faill@libero.it

Disclosure

Gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Introduzione

La vasta diffusione di teorie e pratiche nutrizionali, sbandierate come il futuro ormai prossimo, capaci di modificare radicalmente alcuni paradigmi consolidati, ovvero certezze che sembravano inossidabili, oltre che gli approcci terapeutici tradizionali, ha gettato nella massima confusione professionisti, pazienti e popolazione generale, creando aspettative irrealistiche che spesso rasentano l’illusione di poter curare patologie complesse con interventi singoli e semplificati.

In effetti, stando all’entusiasmo con il quale vengono costantemente enfatizzate le innumerevoli proposte terapeutiche, dovremmo vivere l’alba di una nuova era. Se osserviamo la Tabella I, tuttavia, la realtà presenta ai nostri occhi più di un dubbio sulla effettiva portata rivoluzionaria di queste proposte che dovrebbero migliorare la durata e la qualità delle nostre vite e delle generazioni future.

Al momento nessuno dei regimi dietetici proposti ha superato i livelli più bassi di evidenza scientifica, molte si fermano ad una mera enunciazione di teorie basate sul concetto della plausibilità biologica e in pochi casi vi sono a supporto pochi studi clinici su animali o casistiche molto limitate. E tuttavia molti professionisti che afferiscono all’area nutrizionale le propongono ai loro pazienti, le pubblicizzano sui loro siti/blog/pagine social, organizzano convegni ed eventi formativi in cui si forniscono istruzioni su come seguirle.

Una attenta riflessione sulle motivazioni che portano ad una sopravvalutazione di metodi “alternativi” fino al punto di proporne la prescrizione, ci spinge a formulare una serie di considerazioni sia sul piano dottrinale che etico-deontologico.

Innanzitutto siamo certi che la semplice accondiscendenza ad una propria convinzione, per quanto basata su teorie o sulla propria esperienza, non sia sufficiente a garantire un adeguato standard terapeutico che nello stesso tempo presenti i caratteri dell’efficacia e della sostenibilità.

Pattern nutrizionale proposto

Sintesi delle evidenze

Diete vegetariane/vegane

Le evidenze estratte da studi osservazionali e di intervento mostrano benefici non significativi sulla mortalità generale e specifica per patologie. Vi sono deboli prove di una riduzione dell’incidenza di alcuni tipi di cancro e malattie cardiovascolari, nonché di obesità nei soggetti che seguono questi regimi

Digiuno intermittente

Non è al momento considerata una strategia terapeutica in nessuna linea guida nazionale e internazionale. La maggior parte degli studi è stata condotta su animali da esperimento

Dieta anticancro

Esistono pochi e non conclusivi studi che abbiano affrontato direttamente la questione dell’impiego di un determinato regime alimentare a scopo terapeutico. Esistono alcune revisioni narrative che ipotizzano l’esistenza di principi di dietoterapia anticancro che hanno il valore di parere di esperti

Diete chetogene

Non ci sono studi di elevata qualità sulle malattie neurologiche (tipo epilessia) in cui originariamente sono state proposte. Esistono pareri di esperti e revisioni sistematiche basati su trial clinici randomizzati. Questo regime alimentare non viene consigliato in nessuna linea guida perché gravato da effetti collaterali potenzialmente gravi, elevati tassi di abbandono dei pazienti, effetto a lungo termine annullato dal recupero di una alimentazione libera e dal recupero ponderale

Diete a bassissimo contenuto calorico (VLCD) per perdere peso

Le VLCD, simili alle diete chetogene, sono presenti in alcune linee guida e rappresentano una modalità terapeutica da proporre in casi selezionati in ambienti clinici e sotto stretto controllo, per l’elevata frequenza di effetti collaterali potenzialmente gravi. In ogni caso la loro prescrizione dovrebbe essere inserita in un contesto di cura multidimensionale che riduca l’inevitabile recupero ponderale

Diete low carbohydrate

Le uniche evidenze di elevata qualità hanno sostanzialmente uniformato l’efficacia delle varie diete sia sulla perdita di peso che su altri endpoint (assetto lipidico, pressione arteriosa, glicemia, parametri metabolici)

Diete a basso contenuto di nichel

La relazione fra sintomi cutanei ed extracutanei (fra i quali i disturbi gastrointestinali) e l’assunzione di nichel con il cibo è controversa ed ancora di più lo è un eventuale prescrizione di diete da eliminazione o a ridotto contenuto di nichel. Tali diete rischiano di indurre carenze nutrizionali e sono insostenibili nel lungo termine. Non esistono linee guida al riguardo

Tabella I. Sintesi delle evidenze riguardo a regimi dietetici proposti come “alternativi” ai tradizionali

I principi etici generali

Una buona base di partenza pensiamo sia quella di far riferimento ai quattro principi etici generali enunciati da Beauchamp e Childress [1], adottati e valutati in tutti i codici deontologici e nella ricerca clinica. Essi sono la non-maleficenza, la beneficialità, l’autonomia e la giustizia.

Per non-maleficenza si può abbastanza semplicemente ricordare il principio ippocratico del «primum non nocere», ovvero di astenersi dal recare danno alla persona che si rivolge con fiducia e speranza al proprio terapeuta. Nel nostro ambito, evidentemente, l’invito al professionista consiste nell’astenersi da pratiche che potrebbero recare un danno al paziente sia a livello fisico che psicologico. Molto, troppo spesso si considerano sicuri provvedimenti terapeutici che non lo sono affatto (ad esempio diete fortemente ipocaloriche nel trattamento dell’obesità), in particolare in alcune categorie di persone. Come vedremo più avanti, qualora non sia disponibile una strategia terapeutica ad impatto magari inferiore in termini di efficacia, ma potenzialmente meno dannosa, la scelta di una terapia a più negativo impatto sulla salute dovrebbe essere motivata dal terapeuta, e condivisa dal paziente, previa acquisizione di tutti i rischi potenziali che ne potrebbero derivare.

Per beneficialità non si intende genericamente un intervento finalizzato al raggiungimento di un beneficio “teorico”, quanto, più propriamente, la capacità, acquisita dal terapeuta a seguito di un’attenta e documentata analisi dei dati scientifici che devono formare il suo bagaglio di conoscenze continuamente aggiornabili utilizzando le risorse disponibili, di offrire ai pazienti trattamenti basati su «solide prove quantitative derivate da una ricerca epidemiologico-clinica di buona qualità» [2]. Tratteremo questa tematica più diffusamente più avanti quando esamineremo i principi fondanti dell’Evidence Based Medicine (EBM). D’altro canto tale principio è stato pienamente recepito nei codici deontologici del medico e di alcune professioni sanitarie. Non poteva certo essere diversamente, poiché esso costituisce il nucleo dell’articolo 37 della dichiarazione di Helsinki [3].

Considerare il paziente come un soggetto che passivamente aderisce ad una terapia propostagli, nell’ipotesi, formulata dal terapeuta, che essa sarà efficace e scevra da rischi, compromette fortemente un principio etico assolutamente fondamentale, quello del rispetto dell’autonomia e, estensivamente parlando, della libertà e della dignità umana. Nessuno può sottrarre alla persona la capacità di decidere se e come perseguire un percorso di cura, definirne gli obiettivi e i metodi, dopo avere acquisito la chiara cognizione dei benefici e rischi di quel trattamento. Naturalmente vi sono delle eccezioni che non riducono minimamente la portata del valore dell’autonomia, ad esempio quando il soggetto non si trovi nelle condizioni di prendere decisioni consapevoli perché affetto da patologie che ne limitano la capacità di giudizio (malattie neuropsichiatriche) o in grave stato di malnutrizione conseguente a varie patologie (neoplastiche, ad esempio). In questi casi, se può essere opportuno offrire trattamenti nutrizionali “forzati” (enterali o parenterali), si dovrà tuttavia fare attenzione a non cadere nell’eccesso o accanimento terapeutico. Un’altra eccezione al principio dell’autonomia riguarda il terapeuta, ed è un caso molto più frequente di quanto si pensi. Ci riferiamo a quei pazienti che richiedono terapie non convenzionali, apertamente vietate o ad elevata probabilità di provocare danni fisici. Qualora si verifichino le condizioni suddette, è piena facoltà del terapeuta astenersi dal praticare l’intervento terapeutico richiesto in virtù della sua dimostrata dannosità per il paziente, nonostante questi abbia deliberatamente chiesto di sottoporsi ugualmente ad esso.

L’ultimo fra i principi etici generali è quello di giustizia che, più che applicarsi al rapporto singolo terapeuta-paziente, dovrebbe correttamente trovare la sua applicazione più compiuta a livello di sistema. Esso risponde alla necessità di fornire a tutti i cittadini presidi terapeutici efficaci e basati sull’evidenza scientifica ad intensità diversa, cioè articolati su diversi livelli di cura, dal più semplice al più complesso, ma uniformemente distribuiti sul tutto l’ambito nazionale, con regole di accesso stabilite da principi di equità che tengano conto dei diritti delle categorie economicamente più svantaggiate.

In effetti, in molti dei trattamenti proposti e riassunti nella Tabella I , lo scenario che si prospetta, nel caso di una loro più diffusa applicazione, comporterebbe la necessità di medicalizzare in modo esasperato (si vedano i concetti di overdiagnosis e overtreatment) i potenziali pazienti, costringendoli ad un frequente monitoraggio dei parametri biologici, da effettuarsi in strutture ad elevata intensità tecnologica e multi-professionale. I supporti necessari per garantire un adeguato standard assistenziale potrebbero essere fonte di spese elevate e questo potrebbe incidere negativamente sulla sostenibilità economica o condurrebbe gli amministratori a porle direttamente a carico dell’assistito, a fronte di benefici minimi o clinicamente non significativi, rischiando per di più importanti effetti collaterali. La cultura dell’accountability dei servizi sanitari potrà un domani garantire anche nel nostro paese, come già avviene in molti altri, l’adeguamento dei servizi sanitari a standard di cura basati sull’evidenza scientifica.

Il problema della comunicazione

Argomento di importanza strategica, per nulla residuale o da lasciare all’inventiva o a presunte caratteristiche innate e caratteriali o ad una non ben definita capacità secondaria all’esperienza, è rappresentato dalla comunicazione terapeuta-paziente, insieme al tema dell’informazione e della divulgazione biomedica, multimediale e multidimensionale. L’acquisizione di competenze specifiche, in linea con le più accreditate correnti dottrinali in tale ambito, dovrebbe entrare pienamente nel piano formativo dei professionisti della salute, ma anche dei divulgatori delle conoscenze scientifiche.

Spesso per il nutrizionista il termine «comunicare» equivale a «prescrivere». Questi termini (associati ad altri, fra i quali «proporre», «concordare», «indicare», «consigliare», usati relativamente ad un trattamento terapeutico) vengono spesso considerati sinonimi, anche se sono chiaramente evidenti non solo le differenze di significato, ma anche i presupposti teorici a cui essi fanno riferimento. La prescrizione rimanda ad un atteggiamento e ad uno stile definito “direttivo” poiché presuppone l’esistenza di un dislivello incolmabile fra il terapeuta e il paziente, essendo quest’ultimo considerato esclusivamente il ricevente un ordine impartito dall’esperto. A proposito dei principi di comunicazione che non favoriscono una efficace relazione terapeuta-paziente già Thomas Gordon [4] elencò una serie di «blocchi della comunicazione» che tendono a renderla inefficace suscitando risposte, da parte del paziente, di tipo “resistente” o “reattante”. Alcuni di questi si applicano al caso della nutrizione e riteniamo siano più frequenti di quanto non si creda. Ne elenchiamo alcuni con degli esempi:

  • dare consigli o soluzioni già pronte – «Questa dieta è stata fatta su misura per lei, se la seguirà starà meglio, infatti non contiene alimenti che possano crearle i disturbi di cui si lamenta»;
  • ordinare, comandare – «Lei adesso deve togliere dalla sua alimentazione tutti i latticini e i formaggi, non ne usi nemmeno in piccole dosi»;
  • mettere in guardia, minacciare – «Se al prossimo controllo non avrà perso peso, potrà anche non tornare qui»;
  • giudicare, criticare, biasimare – «Ma scusi, che senso ha mangiare due gelati? Dai, è un’esagerazione, cerchi di controllarsi di più!»;
  • interpretare, analizzare, diagnosticare – «Il suo problema è chiaro, ho capito perfettamente di cosa si tratta: basterà eliminare del tutto lo zucchero e sarà risolto».

In ogni caso bisognerebbe evitare di considerare un terapeuta di area nutrizionale alla stregua di un venditore. Ogni terapeuta deve far riferimento, per concordare una terapia con il proprio cliente, alle evidenze scientifiche, proponendo fra le possibili soluzioni quelle che potrebbero applicarsi al caso, senza incrementare i rischi per la salute fisica e psicologica del paziente. D’altro canto questo principio è sancito nei codici deontologici del medico come del dietista.

Fra le teorie della comunicazione terapeuta-paziente, quella che ha trovato la più ampia applicazione, in quanto largamente suffragata da letteratura scientifica di elevata qualità, pone il paziente al centro della consultazione con il terapeuta e viene conseguentemente indicata come Client o Patient-Centered Medicine. Teorizzata inizialmente da Carl Rogers [5,6], è stata ripresa successivamente da altri autori [7] e costituisce la base delle più importanti teorie motivazionali [8-10] che hanno trovato applicazione nel campo della modificazione dell’alimentazione in senso salutare e, più in generale, degli stili di vita. La teoria si basa sui seguenti punti cardine:

  • esplorare la salute, la malattia e l’esperienza del paziente con la sua patologia;
  • comprensione globale della persona;
  • trovare un terreno comune;
  • rinforzare la relazione terapeuta-paziente.

D’altro canto, per raggiungere tali obiettivi fondamentali nella comunicazione è necessario fare riferimento a quelli che sono i principi descritti da Carl Rogers che devono costituire la base di ogni colloquio volto a modificare le attitudini di un paziente, che per la verità ci piacerebbe più chiamare semplicemente persona. Innanzitutto l’accettazione, ovvero l’apprezzamento del valore e della potenzialità innata in ogni essere umano. Come dice lo stesso autore: «Una fiducia di base: la convinzione che, fondamentalmente, la persona è affidabile». In secondo luogo l’accurata empatia («Percepire il significato del mondo interno del cliente come se fosse il proprio, ma senza mai dimenticare la caratteristica del “come se”»).

In un contesto di comunicazione basato sul riconoscimento del valore intrinseco della persona, sul rispetto delle proprie preferenze, valori, gusti, tradizioni, caratteristiche fortemente correlate al modo di nutrirsi, risulta arduo, se non eticamente molto discutibile, mostrarsi ai propri pazienti con un atteggiamento di tipo direttivo-prescrittivo, anche perché, come i dati della ricerca dimostrano, le prescrizioni, soprattutto quelle dietetiche, non riescono quasi mai a modificare i comportamenti. Nella fattispecie del comportamento alimentare, la cui genesi è determinata dalla concorrenza di fattori individuali, genetici e ambientali, oltre che economici e sociali, pensare di affrontare una terapia modificando il contenuto e il rapporto dei nutrienti senza giungere ad una condivisione di metodi e obiettivi, possibilmente raggiungibili, con i pazienti, sarebbe semplicemente un’aspettativa irrealistica.

Sul versante della divulgazione di massa purtroppo, nel nostro paese, a parte le dovute eccezioni, molto spesso la tendenza è orientata al sensazionalismo o al considerare imminente un cambiamento per la cui piena realizzazione sono necessari in realtà numerosi e imponderabili passi successivi di durata indeterminata. È stato stimato in 20 anni il tempo necessario affinché un insieme di ricerche che, nel loro complesso formano la cosiddetta letteratura scientifica, si concretizzi in una completa implementazione nella pratica clinica. Un siffatto arco temporale sarebbe del tutto inaccettabile per coloro che, abituati a confezionare articoli e programmi radiotelevisivi a ritmi sostenuti, sono spinti dalla necessità di divulgare una notizia o un suo approfondimento con le tecniche del giornalismo contemporaneo.

Molto spesso, soprattutto nei talk show televisivi, vengono presentate posizioni diverse nell’ambito dello stesso argomento, esattamente come si fa quando la discussione verte su questioni politiche o socio-economiche. In altre parole vengono contrapposti, con l’immancabile animazione che rasenta frequentemente i toni della lite, pareri di esperti, veri o presunti. Vedremo più avanti come questo sia un metodo molto lontano da quanto avviene nelle sedi dove si fronteggiano concezioni diverse, ad esempio di tipo accademico o congressuale, nelle quali l’aderenza ai fatti che derivano dalle sperimentazioni scientifiche vengono sottoposte ad una accurata valutazione critica (critical appraisal) che non può esimersi da rilievi di natura metodologica che frequentemente portano gli stessi autori dei lavori scientifici ad evidenziare i punti deboli delle proprie ricerche. È ovvio che un uso troppo aderente alla terminologia e metodologia scientifica relativo a materie biomediche potrebbe scadere in un insieme di disquisizioni astruse per il grande pubblico e comprensibili solo agli addetti ai lavori. Tuttavia la propensione verso l’atteggiamento opposto, sensazionalismo e spettacolarizzazione, ci sembra addirittura più nociva rispetto alle esigenze di equilibrio e serietà, sul piano etico-professionale, che delicate questioni che riguardano la salute delle persone meriterebbero. Ben si comprende quindi la necessità di raggiungere un pieno equilibrio fra posizioni estreme ed entrambe sicuramente inadeguate.

La medicina basata sulle evidenze

Questo modo di affrontare la pratica clinica da parte di ogni professione sanitaria, molto conosciuto con l’acronimo inglese EBM (Evidence Based Medicine) ha conquistato grande rilevanza presso i professionisti della salute nell’ultimo quarto di secolo. Il primum movens che portò scienziati che si raccolsero attorno a personalità fra le quali spicca quella di Sir Archibald Cochrane a formulare una serie di elaborazioni teoriche verso la fine degli anni ‘80 del secolo scorso consistette nel tentativo di sostituire una radicata concezione del sapere biomedico largamente basata sull’autorità dello scienziato con una più articolata, fondata sui risultati della ricerca scientifica. La sua originaria definizione si deve a David Sackett: «la medicina basata sulle evidenze è il coscienzioso, esplicito e giudizioso uso delle migliori evidenze disponibili nel prendere decisioni sulla cura del paziente individuale» [11]. Tale definizione fu successivamente riformulata dallo stesso autore: «è un approccio sistematico alla soluzione di un problema clinico che consenta l’integrazione delle migliori evidenze disponibili dalla ricerca con le competenze cliniche ed i valori del paziente» [12]. L’importanza di questa ultima definizione consiste nell’aver posto in evidenza come i risultati della ricerca siano importanti nell’orientare la scelta di un intervento preventivo, terapeutico o di un esame diagnostico, almeno quanto le competenze derivate dalle conoscenze e dall’esperienza del terapeuta e il sistema di valori e le preferenze del paziente. Conseguentemente per Evidence Based Practice, ovvero la pratica clinica basata sulle evidenze, deve intendersi un percorso articolato in cinque stadi successivi [13]:

  • formulazione del quesito clinico;
  • ricerca delle evidenze;
  • riformulazione critica delle evidenze;
  • applicazione delle evidenze;
  • valutazione dei risultati.

Certamente, in accordo con Greenhalgh [14], «la medicina basata sulle evidenze è molto più che semplicemente leggere un articolo […], essa è l’uso di stime matematiche delle probabilità di beneficio e del danno, derivate da una ricerca di elevata qualità su campioni di popolazione, per favorire il processo di decisione clinica nella diagnosi e nel trattamento dei singoli pazienti». Uno dei principi fondanti l’EBM consiste nel concetto di “gerarchia delle evidenze”. Al livello più basso della cosiddetta “piramide delle evidenze” (Figura 1), possiamo notare la sperimentazione sugli animali e il “parere degli esperti”, al livello più elevato le revisioni sistematiche e le metanalisi, di cui le linee guida rappresentano il distillato che deve orientare le decisioni cliniche. Pensare di modificare l’alimentazione, in modo spesso drastico o addirittura brutale (digiuno, chetogenesi, diete fortemente carenti in gruppi alimentari) soltanto sulla base di ciò che emerge da studi a basso livello di evidenza, relativamente alla cura di patologie per le quali esistono evidenze a livello più elevato, oltre che rasentare l’assenza di scientificità, rischia, molto peggio, di diventare eticamente scorretto poiché tale da generare rischi per la salute. Pertanto il clinico dovrà aspettarsi tutte le conseguenze legali e deontologiche che potrebbe comportare una soluzione terapeutica “temeraria” ad elevata probabilità di errore compreso il dover subire un processo relativo a malpractice.

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Figura 1. Piramide delle evidenze secondo la EBM

Sintesi e conclusioni

La nutrizione, in quanto determina sulle persone una serie di conseguenze che riguardano l’assetto cognitivo, emotivo e comportamentale, oltre a generare implicazioni di ordine biologico (metaboliche e genetiche), non può semplicemente essere prescritta alla stregua di un farmaco. L’indicazione di un regime dietetico “alternativo” dovrebbe essere giustificata solo se gli obiettivi sono compatibili con i principi etici generali e dopo un’accurata valutazione dei rischi potenziali per i pazienti. In questi casi si ritiene assolutamente imprescindibile una esauriente spiegazione e la raccolta del consenso scritto da parte dei pazienti, analogamente a quanto previsto quando si intende utilizzare un farmaco al di fuori delle indicazioni terapeutiche consigliate (off label).

Non è accettabile che i professionisti della salute operanti nel campo della nutrizione agiscano come agenti di commercio, mettendo a rischio la salute delle persone, la reputazione propria e della categoria che rappresentano. Tutto ciò contribuisce a incrementare un clima di profonda sfiducia verso la categoria dei nutrizionisti, in senso lato, avallando il ricorso a pratiche nutrizionali non convenzionali e di dubbia efficacia.

Bibliografia

  1. Beauchamp TL, Childress JF. Principles of biomedical ethics (5th ed). New York: Oxford University Press, 2001
  2. Evidence-Based Medicine Working Group. Evidence-based medicine. A new approach to teaching the practice of medicine. JAMA 1992; 268 (17): 2420-5
  3. WMA. Declaration of Helsinki. Ethical Principles for Medical Research Involving Human Subjects. 64th WMA General Assembly, Fortaleza, Brazil, October 2013
  4. Gordon T. Parent effectiveness training. New York: Wyden, 1970
  5. Rogers CR. Client-centered therapy. Oxford, England: Houghton Mifflin, 1951
  6. Rogers CR. A theory of therapy, personality, and interpersonal relationships, as developed in the client-centered framework. In: S. Koch (ed). Psychology: A study of a science: vol. 3 (pp. 184-256). New York: McGraw-Hill, 1959
  7. Stewart M, Brown JB, Weston WW, et al. Patient-centered medicine: transforming the clinical method. 2nd edition. Oxford: Radcliffe Medical Press, 2003
  8. Ryan RM, Deci EL. Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being. Am Psychol 2000; 55: 68-78
  9. Miller WR, Rollnick S. Il colloquio motivazionale, aiutare le persone a cambiare. 3a edizione. Trento: Ed. Erickson, 2014
  10. Prochaska JO, Di Clemente CC. Transtheoretical therapy: toward a more integrative model of change. Psychotherapy: Theory, Research and Practice 1982; 19: 276-88; doi: 10.1037/h0088437
  11. Sackett, DL, Rosenberg WM, Gray JA, et al. Evidence based medicine: what it is and what it isn’t. BMJ 1996; 312: 71-2
  12. Sackett DL, Richardson WS, Rosenberg WMC, et al. Evidence-based medicine: how to practice and teach EBM. London (UK): Churchill Livingstone, 2000
  13. Sackett DL, Haynes RB. On the need for evidence based medicine. Evidence Based Medicine 1995: 1: 4-5
  14. Greenhalgh T. How to read a paper. The basics of Evidence Based Medicine. 5th edition. Oxford: Wiley Blackwell, 2014

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