PM&AL 2016;10(2)35-48.html

La dignità come dotazione della persona demente

Fabio Cembrani 1

1 Direttore U. O. di Medicina legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento

Abstract

The author analyzes the practical dimensions of human dignity, starting from its various representations and constituent elements. In particular, the author relates the human dignity with dementigene diseases that affect the biographical identity of the person and are a real testing ground in the daily clinical practice.

The article presents the rights of the person with dementia that, taken together, give to dignity a clear expressive face, and consistent with the various multilevel order and with professional medical ethics.

Keywords: Human dignity; Moral identity; Dementia; Ethics

The dignity as an endowment of the person with dementia

Pratica Medica & Aspetti Legali 2016; 10(2): 35-48

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v10i2.1245

Corresponding author

Fabio Cembrani

Fabio.Cembrani@apss.tn.it

Disclosure

L'autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Introduzione

La dignità umana è al centro, oggi, di un rinnovato interesse da parte degli interpreti del diritto [1-3].

Più che di una nuova scoperta dobbiamo però parlare di una vera e propria (ri)scoperta perché la dignità non è un ulteriore diritto dell’essere umano, pur essendo una realtà difficile da rappresentare come ammesso, molti secoli fa, da Cicerone (De Officiis): da un lato indicando essa la posizione speciale (centrale) assunta nel mondo dalla persona umana e, dall’altro, il ruolo attivo ricoperto nella vita pubblica che conferisce alla persona medesima un particolare significato e valore. Nella prima prospettiva la dignità è connessa alla circostanza che l’uomo è al culmine della scala della natura essendo così una sua dote immanente e naturale, nell’altra alla posizione che esso ricopre nella scala sociale potendo essere, di conseguenza, gradualmente acquisita o, al contrario, anche perduta.

Questa teoria della dignità come dotazione e della dignità come prestazione è stata ovviamente interferita dal cristianesimo che ha contribuito a dare ad essa una prospettiva dal carattere universale pensando all’uomo ad immagine di Dio. E che ha potenziato la sua prospettiva trascendente (sacra) rappresentandola come una dote dell’uomo, che ci è data e che non richiede di essere storicizzata non potendo essere essa interferita dal ruolo ricoperto nella socialità dall’individuo e che occorre rispettare senza condizioni, senza se e senza ma. Essendo così un valore immanente all’uomo, la cui dimensione è oggettiva, incondizionata e non interferita da fattori esterni.

Quest’idea è però stata messa in discussione da Giovanni Pico della Mirandola nel De hominis dignitate (1486), un’opera che è stata giustamente indicata come il Manifesto dell’umanesimo italiano e della concordia universale. Il focus di questo ideale è centrato sulla dignità e sulla libertà umana essendo l’uomo l’unica creatura che non ha una natura predeterminata avendo Dio accolto «l’uomo come opera di natura indefinita e, postolo nel cuore del mondo». Così è l’essere umano che forgia il suo destino secondo la propria volontà e la sua libertà è massima, poiché non è né animale né angelo, ma può essere l’uno o l’altro secondo la «coltivazione» dei «semi d’ogni sorta» che vi sono in lui.

Questa prospettiva antropologica che a Pico della Mirandola costò il carcere e l’accusa di eresia è stata poi sviluppata da Blaise Pascal, per il quale la dignità dell’uomo consiste nel pensare («L’uomo è manifestamente nato per pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente») e da Kant, il cui pensiero morale conserva una straordinaria attualità. Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) la seconda formula recita: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo». La persona umana non può così essere mai considerata un mezzo ed il rispetto della dignità è lo scopo e il fine di ogni mutualità capace di vivere in accordo con le regole morali e con la giustizia che si è data. Solo così «l’umanità (l’essere uomo) è essa stessa una dignità»: l’uomo non può essere trattato dall’uomo (da un altro uomo ma nemmeno da se stesso) come un semplice mezzo, ma come un fine. In ciò consiste la sua dignità (personalità) ed è in tal modo che egli si eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi che non sono uomini e possono servirgli da strumenti». Il riconoscimento dell’altro si fonda così per il filosofo tedesco con il valore della persona umana intesa come un fine in se stessa e mai come un mezzo per perseguire altri scopi e obiettivi (indipendentemente dalla loro liceità), dentro una prospettiva dal carattere umanitario che ha rafforzato quella teoria della dotazione della dignità che era stata intuita ancora da Cicerone. Anche se quell’idea non venne all’epoca recepita dalle pur dotte dichiarazioni settecentesche dei diritti dell’uomo che risentirono del condizionamento dato alla dignità dalla carica ricoperta dalla persona nel tessuto sociale (così, ad es, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789).

Condizionamento che restò vitale fino alla fine del secondo conflitto mondiale, quando alla dignità venne dato pieno riconoscimento giuridico dai diversi multilevel dell’ordinamento (costituzionale, internazionale e sovranazionale), anche se la sua (ri)scoperta è una realtà dei nostri giorni essendo essa «il presupposto della relazione con l’altro e del riconoscimento reciproco», garanzia del «rispetto delle diversità e al tempo stesso l’impegno alla eliminazione degli ostacoli che trasformano le differenze in condizioni di inferiorità, di sopraffazione, di discriminazione» [3]: dunque, un’espressione dell’uguaglianza sia pur nell’ampia diversità proposta da ogni individualità, dal nostro modo di sentire, dai nostri sentimenti religiosi e dai nostri valori di riferimento.

Il volto espressivo della dignità nella demenza

Pur essendo la dignità una categoria ancora sfuggente, difficile da definire e facilmente strumentalizzabile dai diversi modi di rappresentare il mondo occorre provare a dare ad essa un volto in riferimento alla relazione di cura. Declinandone gli aspetti pratici che, a mio modo di vedere, trovano una particolare espressione nelle malattie dementigene visto e considerato che proprio in queste situazioni patologiche viene a disgregarsi l’identità e l’unità biografica della persona.

Il diritto ad essere informati e di conoscere la verità

Questo diritto può essere affrontato da una duplice prospettiva provando a coglierne le sue relazioni con la dignità umana: sul piano teorico ricordando che cosa affermano le norme ed il Codice di deontologia medica e su quello pratico per provare a vedere come queste indicazioni vengono realmente declinate.

Il diritto di sapere e di conoscere la verità (o freedom information) è affermato dalla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, approvata dal Consiglio d’Europa nel 1997 e la cui ratifica, nel nostro Paese, è iniziata dal Parlamento italiano nel 2001 (legge 28 marzo 2001, n. 145) anche se, a tutt’oggi, non è stato ancora depositato lo strumento di ratifica. Per motivi che mi sono ignoti e che (almeno inizialmente) attribuivo alla ripetuta dimenticanza di qualche sbadato politico, anche se oggi sono sempre più convinto che le ragioni sono più profonde e da ascrivere ad una vera e propria volontà trasversale ai Governi (di centro-destra, di centro-sinistra e delle larghe intese) che si sono succeduti in questi anni.

Quella Convenzione tratta dei diritti della persona umana in medicina e pone al centro di essi il diritto di conoscere la verità. Se ne parla del Capitolo III («Vita privata e diritto all’informazione») e, più in particolare, nell’art 10: « (1) Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute. (2) Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata. (3) A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell’interesse del paziente, delle restrizioni all’esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2». Risultando pacifiche le relazioni tra la vita privata e le informazioni riguardanti la salute, nel senso che queste ultime non possono e non devono essere motivo di stigma, di emarginazione e di discriminazione, la Convenzione di Oviedo prevede così il sacrosanto diritto di ogni persona umana di conoscere la verità con una sola eccezione indicata nella circostanza che la medesima esprima la volontà di non essere informata; sempre che, naturalmente, la stessa sia messa nella condizione di poterla esprimere liberamente e autenticamente, preliminarmente all’effettuazione delle indagini diagnostiche necessarie a individuare l’esistenza di una qualche malattia.

L’esplicito riferimento ad «ogni persona» apre poi un’ulteriore questione, perché il diritto ad essere informati non è subordinato dalla Convenzione all’età anagrafica della medesima, come può ritenere qualche sbadato che la potrebbe condizionare ai limiti e ai vincoli previsti dall’art. 2 della nostra legge civile. Il diritto di conoscere la verità non è così interferito dalla nostra capacità di agire ed è un diritto che riguarda il minore (come aveva, peraltro, già stabilito la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo), le persone affette da una malattia inguaribile e, naturalmente, anche quelle affette da una malattia dementigena. Ed ogni restrizione di questa liberà positiva, ammessa dalla Convenzione a solo titolo eccezionale, deve tener conto dell’interesse della persona. Come a dire che la violazione di questa libertà è possibile se e solo se esiste l’interesse di quest’ultima. Sulla stessa linea si esprime anche l’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che sancisce il diritto di «ogni individuo […] di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica» e che, nel nostro Paese, trova conferma nelle norme speciali in tema di riservatezza.

La deontologia medica, recentemente rinnovata in Italia (maggio 2014) dalla FNOMCeO corre parallela alla Convenzione di Oviedo.

Di questo diritto il Codice deontologico ne parla, nel Titolo IV, in due distinti articoli. Nell’art. 33 («Informazione e comunicazione con la persona assistita»): «Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza. Il medico rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria. Il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati, al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale». E nell’art. 34 («Informazione e comunicazione a terzi»): «L’informazione a terzi può essere fornita previo consenso esplicitamente espresso dalla persona assistita, fatto salvo quanto previsto agli artt. 10 e 12, allorché sia in grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri. Il medico, in caso di paziente ricoverato, raccoglie gli eventuali nominativi delle persone indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili».

L’art. 33 del Codice deontologico conferma il diritto della persona di essere informata esplicitando la portata «esaustiva» dell’informazione nel senso che essa non deve riguardare la sola diagnosi clinica ma dare un quadro «comprensibile […] sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura». Adeguandola però alla capacità di comprensione della persona tenendo conto della sensibilità e della reattività emotiva della stessa soprattutto nell’ipotesi «di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza»; fermo restando – e non poteva che essere così – il «rispetto della volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione» e con la precisazione che, in questa ipotesi, di ciò deve essere dato atto nella documentazione clinica [4].

Se questo è lo scenario generale delineato dalle norme giuridiche e dalla deontologia medica italiana vediamo ora di capire cosa accade nella realtà, se i medici mentono ai pazienti, per quali ragioni ciò avviene, quali siano le idee espresse dai familiari a questo riguardo e che cosa si opponga al diritto di conoscere la verità.

Focalizzandomi sugli studi che hanno come setting le patologie dementigene, occorre osservare che già nel 1994 la Blum [5] pubblicò un primo studio dimostrando che, nella malattia di Alzheimer, i familiari dei pazienti manipolavano le informazioni diagnostiche ricorrendo a diversi metodi (omettendo la verità o dicendo mezze verità) ma con scopi che, almeno nelle intenzioni, non erano certo deprecabili: al fine, sostanziale, di evitare comportamenti autolesivi dei loro cari e di favorire il loro controllo sociale nel quotidiano. Questa costante tendenza a mistificare l’informazione diagnostica è stata poi confermata anche in altri gruppi sociali. Da Cunningham [6] il quale ha evidenziato che negli ospedali inglesi la comunicazione ai malati affetti da una malattia dementigena è quasi sempre improvvisata oltre che da Day et al. [7] i quali hanno confermato che l’uso della menzogna è molto diffuso nei setting di cura che seguono e assistono pazienti dementi. E da Tuckett [8] che, indagando sui professionisti di alcune strutture sanitarie australiane dedicate alla cura degli anziani, ha evidenziato il frequente ricorso alla menzogna che avrebbe l’obiettivo di evitare gesti autolesivi, effettuare un qualche controllo sul loro comportamento sociale e contenere, in qualche modo, il loro moral distress. Più recentemente Cimmino et al. [9], sia pur su un ambiente italiano ristretto (la Campania), hanno evidenziato che oltre il 68% dei professionisti intervistati (medici e psicologi) che seguono persone dementi adotta la strategia della menzogna in prevalenza occasionalmente (41,9%) e che essi lo fanno, di regola, nell’interesse della persona pur dimostrando di avere piena consapevolezza sul diritto a conoscere la verità. Questa prevalenza sembra essere, peraltro, in linea con i dati della letteratura internazionale confermando che l’atteggiamento generale dei medici italiani è quello di non dire la verità al demente, soprattutto in situazioni di urgenza e in presenza di un rischio di comportamento autolesivo.

L’evidenza che queste persone non sono informate riguardo alla malattia da cui sono affetti è confermata in altre indagini. Campbell et al. [10], in uno studio condotto su una coorte di persone dementi, ha evidenziato che le persone consapevoli dei propri sintomi (64,4%) erano spesso quelle di età mediamente più giovane e con un elevato punteggio al Mini-Mental State Examination (MMSE); meno di un terzo delle stesse riferiva, peraltro, di essere stata informata sulla diagnosi di demenza o di problemi della memoria da parte del medico (26,2%) e queste persone erano quelle che riferivano condizioni di salute peggiori. In uno studio italiano più recente, promosso dall’Istituto superiore di sanità [11], il 73,1% dei medici intervistati affermano di comunicare sempre la diagnosi di Alzheimer. La persona a cui viene però data questa comunicazione è principalmente il familiare (98,6%) e nel 70,5% dei casi anche il paziente. In oltre il 90% dei casi il professionista incaricato di dare questa comunicazione è stato indicato nel Direttore del servizio e non nel medico che ha in carico il paziente, a dimostrazione di una procedura di burocratizzazione comunicativa spesso osservata nella prassi professionale. Inoltre, una percentuale non trascurabile dei professionisti intervistati sostiene di comunicare la diagnosi al rappresentante legale e solo nel 50,3% dei casi gli stessi hanno indicato l’esistenza di una procedura di accompagnamento (sostegno psicologico, incontri di formazione/informazione, ecc.) per poter elaborare costruttivamente la comunicazione.

Altri studi ancora hanno indagato il punto di vista dei familiari. In una indagine condotta da Holroyd et al. [12] su 57 familiari di persone affette da malattia di Alzheimer, la maggioranza di essi (75,4%) ha riferito di aver ricevuto una diagnosi chiara e in circa la metà dei casi (49,1%) questa era stata riportata anche ai malati. Più di un terzo ha, invece, ammesso che la comunicazione era stata d’aiuto per il malato (36,2%), secondo altri era stata invece un’esperienza negativa (29,8%) e altri ancora (34%) non sapevano valutarne l’utilità. Poche persone intervistate erano favorevoli a comunicare la diagnosi al proprio familiare (17%) mentre una buona maggioranza avrebbe voluto essere personalmente informata in caso di malattia (71%).

In Italia la tendenza dei familiari a non voler informare il proprio congiunto sembra essere piuttosto diffusa. Pucci et al. 13 hanno, a questo riguardo, dimostrato che la maggior parte dei familiari di una coorte di persone affette da demenza di Alzheimer aveva richiesto che nell’informazione non fosse mai usata la parola Alzheimer (60,6%) e oltre la metà che il loro congiunto non fosse informato dell’assenza di trattamenti curativi. Solo il 12,7% degli intervistati era favorevole ad usare la parola Alzheimer, mentre tutti ritenevano che la persona non dovesse ricevere in modo completo tutte le informazioni riguardo alla malattia. La principale motivazione addotta per non informare era il timore di un peggioramento dei sintomi della sfera psichica descritti come depressione, perdita di speranza e ansia. Nello studio di Holroyd et al. già citato [12], l’80% di persone cognitivamente indenni ha invece espresso il desiderio di essere informato qualora avessero sviluppato una forma di demenza. Con un forte gap che esiste tra i professionisti e le persone ammalate perché nell’immaginario collettivo la demenza porta a morte, è inguaribile, ha un andamento cronico e ingravescente, provoca grandi sofferenze, ci espropria della nostra vita facendoci dipendere dagli altri. Perché è una malattia forse peggiore del cancro, perché dura molto di più e perché, drammaticamente, suscita meno pietà. E perché questi stereotipi non sono purtroppo pubblicamente combattuti per vincere quel pregiudizio che crea disequità, emarginazione e, soprattutto, discriminazione.

Il diritto all’identità personale, a manifestare il proprio pensiero e ad essere ascoltati

L’identità personale è spesso confusa con il diritto alla privacy per gli influssi esercitati, a questo riguardo, dal pensiero giuridico statunitense.

Nella tradizione europea l’identità personale è però una categoria più ampia che, come si vedrà, ha a che fare con il diritto di sviluppare la nostra personalità e con la stessa idea di dignità pur venendo spesso ancora confusa con la capacità di intendere e di volere [14]. Dico questo perché continuo ad essere convinto che l’identità biografica da un lato e, dall’altro, la base fondativa dell’imputabilità penale (art. 85 c.p.), della capacità di agire (art. 2 c.c.) e della capacità di stare in giudizio sia in sede penale (art. 70 c.p.c.) che in quella civile (art. 75 c.p.c.) non sono un endiadi, restando categorie tra loro profondamente diverse pur avendo qualche tratto in comune.

Senza addentrarmi in aspetti di natura tecnica, la capacità di intendere e di volere richiede di essere valutata con un doppio binario di giudizio, ovverosia attraverso una doppia fase. La prima (descrittiva) è finalizzata alla dimostrazione dell’esistenza di una infermità di mente, visto che la legge penale considera anche l’età della persona, non essendo imputabile il minore infra-quattordicenne (art. 97 c.p.) e dovendo essere questa capacità di volta in volta dimostrata nel minore emancipato (art. 98 c.p.); la seconda, prettamente psichiatrico-forense (esplicativa, crimino-dinamica e crimino-genetica), è finalizzata, a sua volta, a valutare l’effettiva incidenza di questa infermità sulla capacità di intendere e di volere al momento di commissione dell’illecito e, come affermato dal Giudice nomofilattico in una celebre sentenza del 2005 (sent. n. 9163), «del nesso etiologico che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo». In questa prospettiva l’imputabilità rappresenta la condizione personale dell’autore dell’illecito, presupposto per l’applicazione della pena, determinata (condizionata) in tutto e per tutto dalla sua capacità di intendere e di volere: di comprendere, cioè, il valore e le conseguenze della condotta (non solo commissiva ma anche omissiva) e di autodeterminarsi di conseguenza, essendo possibile il difetto di tenuta della capacità volitiva rispetto alla prima. Da qui l’idea che la capacità di intendere si riconosce nell’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad «orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà» e, quindi, nella capacità di comprendere il significato del proprio comportamento e di valutarne le ripercussioni, ovvero di proporsi «una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta» (Cass., Sez. I, n. 13202 del 1990); mentre la capacità di volere consiste nella idoneità del medesimo «ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l’azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore», nel potere «di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore», nell’attitudine a gestire «una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione» (Cass., idem). Dunque, in buona sostanza, nella capacità di comprendere il valore o il disvalore dei propri atti, delle proprie azioni o delle eventuali omissioni per poi determinarsi in modo coerente con le rappresentazioni mentali apprese.

Questa capacità può essere messa in discussione da diverse situazioni o condizione e, più in particolare, da cause:

  • di ordine fisiologico (l’età anagrafica);
  • di natura patologica (l’infermità);
  • tossiche (l’intossicazione di alcool o da sostanze stupefacenti).

Soffermandoci sulle seconde, occorre dire che il diritto penale menziona, in modo esplicito, l’infermità di mente senza però mai definirla in maniera chiara e precisa. Con un’apparente vaghezza che, naturalmente, lascia spazio all’interpretazione analogica purché, ben inteso, essa sia idonea ad incidere sulla capacità di intendere e di volere della persona al momento della commissione del fatto illecito e il nesso etiologico con l’azione criminosa. Come hanno confermato le Sezioni Unite della Suprema Corte nella già citata sentenza n. 9163 del 2005, nota come sentenza Raso. E con alcuni indiscutibili meriti, avendo i Giudici:

  • (ri)definito le relazioni virtuose tra la scienza medica e il sapere giuridico;
  • indicato le relazioni tra il vizio di mente (artt. 88 e 89 c.p.) e la malattia nel corpo e nella mente (art. 582 c.p.);
  • superato il criterio nominalistico (tassonomico) della psichiatria ottocentesca e la natura prevalentemente organica delle infermità mentali ricomprendendo, tra di esse, anche i disturbi della sfera comportamentale, emozionale e il controllo degli impulsi.

Con una rilettura, vorrei dire davvero originale, delle previsioni dettate dalla legge penale sulla base degli sviluppi delle conoscenze neuroscientifiche che hanno dimostrato:

  • il ruolo dell’emozione nell’agire umano e la funzione esercitata dall’amigdala con le sue connessioni sinaptiche con le aree cerebrali pre-frontali;
  • il contributo della memoria nella modulazione delle emozioni;
  • la funzione svolta, in questo senso, dall’ippocampo;
  • le interconnessioni (strutturali e funzionali) mente-corpo con il definitivo superamento del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa;
  • le relazioni di reciprocità tra l’io e il noi, tra l’individualità e gli altri individui, che influiscono sul comportamento umano con la scoperta dei neuroni-specchio (del sistema mirror) [15].

E così correggendo l’art. 90 della legge penale che considera irrilevanti, ai fini dell’imputabilità, gli stati emotivi o passionali anche se, in altre parti, questa stessa legge ha ad essi assegnato un qualche rilievo (art. 62 c.p.), sia pur ammettendole in soli termini di attenuanti comuni. Quando le neuroscienze hanno consolidato l’idea che la razionalità umana non è alimentata dai soli circuiti dei pro e dei contro posti su due asettiche colonne, per così dire contabili, essendo ogni decisione umana influenzata dalle nostre emozioni, dalle nostre intuizioni, dai nostri sentimenti e, con una parola spesso abusata, dalla nostra coscienza e, quindi, da ciò che realmente (biograficamente e individualmente) siamo. Per il tramite di quei collegamenti funzionali che sono stati dimostrati tra l’amigdala e le regioni prefrontali a cui le tecniche di neuroimaging (come la risonanza magnetica funzionale – fMRI) hanno assegnato la funzione della razionalità.

Ma non solo. Perché gli sviluppi delle conoscenze neuroscientifiche hanno riconosciuto il contributo della memoria soprattutto nel supportare o meno il profilo volitivo che accompagna ogni nostra decisione razionale. Anche se la memoria non è mai una fotografia esatta di quanto è realmente accaduto ma una ricostruzione che può essere influenzata e distorta dalle nostre conoscenze, dai condizionamenti dati dal contesto in cui viviamo, dal desiderio di compiacere chi ci interroga, dal modo con cui ci sono poste le domande, dall’autorevolezza di chi le fa, per non parlare dei metodi coercitivi talvolta usati dagli organi inquirenti specie nelle indagini criminologiche più difficili [16]. Perché la memoria è sottoposta, di continuo, ad un processo dinamico, spesso inconscio, di cancellazione e di modulazione con l’inserimento di falsi ricordi condizionati dal nostro assetto emotivo ed emozionale nonostante le impronte cerebrali che essa lascia e che sono rivelatrici di avvenimenti passati. Impronte che sono evidenziabili con tecniche non invasive e, più in particolare, con il Brain Fingerprinting messo a punto dagli studiosi dell’Università di Harvard a partire dagli anni ’80, che ha dimostrato un’esattezza e verificabilità molto prossima alla certezza scientifica. Certezza che, nel nostro Paese, deve resistere, sul versante penale, alla prova dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e, dunque, alla sua non falsificabilità.

Peraltro la capacità di intendere e di volere non può essere sovrapposta e confusa con altre categorie giuridiche: in primo luogo con la capacità giuridica (art. 1 c.c.) e con la capacità di agire (art. 2 c.c.). La prima è l’attitudine dell’essere umano ad essere titolare non solo di diritti e doveri ma anche di responsabilità e di poteri; essa viene acquisita con l’evento nascita e si perde con la morte, che è definita, dal nostro ordinamento, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (legge n. 578 del 1993). Diversamente da essa, la capacità di agire è l’idoneità che si acquisisce al compimento della maggiore età e che permette all’essere umano, in quanto persona, di esercitare in piena libertà e autonomia i propri diritti: conseguentemente, di compiere tutti gli atti negoziali per i quali non sia stabilita un’età diversa. Si tratta, naturalmente, di atti che non riguardano la sola stipula di contratti ma che si estendono anche a tutti gli altri atti precettivi con cui possono essere esercitati i diversi tipi di potere: ad esercitare, ad es., il diritto di voto, ad agire in giudizio, a commettere addirittura reati e ad essere imputati come responsabili, a lasciare un testamento, a riconoscere i figli naturali e a contrarre il matrimonio anche se, per queste due ultime libertà, la legge civile lascia qualche piccolo spazio di autonomia anche ai minori. Essendo richiesta la previa autorizzazione del tribunale una volta accertata la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte (art. 84 c.c.) nel caso del matrimonio ed essendo comunque necessario, nell’ipotesi di riconoscimento dei figli naturali, aver compiuto il sedicesimo anno di età (art. 250 c. c.). Con una sorta di capacità per così dire speciale e derogatoria rispetto all’art. 2 della legge civile che risulta, peraltro, confermata da altre leggi parallelamente speciali che consentono, ad es., al minore di accedere, autonomamente e legittimamente, alla contraccezione farmacologica e all’interruzione volontaria della gravidanza anche senza l’assenso dei genitori (legge n. 194 del 1978), senza peraltro fissare alcun limite di età al di sotto del quale tale pratica medica diviene illegittima.

Si tratta, dunque, di status giuridici positivi prodotti da eventi naturali (la nascita e il compimento della maggiore età) che producono effetti diversi, non certo sovrapponibili. Dunque, l’attitudine dell’essere umano ad essere titolare di doveri e di diritti (diritti cd. primari, che sono parte di ogni persona naturale) e la sua attitudine, quando egli diviene a tutti gli effetti persona per l’ordinamento, a compiere gli atti giuridici mediante i quali acquistare diritti o assumere doveri non fondamentali (diritti-poteri cd. secondari, tra cui i diritti civili e quelli politici).

Lungo l’asse di quella piramide che produce, purtroppo, forme di vera e propria disuguaglianza sociale in relazione allo status dell’essere umano. Che acquista diritti e poteri singolari lungo l’arco della traiettoria della vita umana (al compimento della maggiore età) e che può perdere prima dell’evento morte a causa di circostanze che affievoliscono o annullano la sua capacità di agire aprendo la strada alla sua tutela giuridica. L’art. 414 della legge civile le indica, per l’interdizione, nelle condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi. L’art. 415 c.c. ne propone, invece, per l’inabilitazione, un ventaglio più ampio: indicandole non sono nell’infermità di mente quando la stessa non è talmente grave da far luogo all’interdizione ma anche nella prodigalità, nell’abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti quando ciò esponga sé e la loro famiglia a gravi pregiudizi economici, nel sordomutismo e nella cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un’educazione sufficiente, salva l’applicazione dell’art. 414 c.c. quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi. L’art. 404 c.c. amplia ulteriormente queste circostanze indicandole negli effetti di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica qualora le medesime producano un’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. Con una progressione di possibilità che rendono legittime le misure di protezione giuridica degli esseri umani nell’ipotesi in cui i medesimi abbiano perso (completamente o parzialmente) o non abbiano maturato, per ragioni di ordine patologico (congenite o acquisite che esse siano), quella maturità senza la quale è davvero difficile pensare alla loro possibilità di esercitare attivamente e in piena autonomia i propri diritti e doveri ed a compiere atti giuridici. Con due estremi. Perché, mentre nel caso dell’interdizione le infermità sono circoscritte al vizio abituale di mente – all’esistenza, dunque, di una malattia psichiatrica e alla sua persistenza duratura nel tempo – esse, nel caso dell’amministrazione di sostegno, si ampliano fino a ricomprendere tutte le infermità, ovvero tutte le menomazioni, siano esse di natura fisica o psichica, qualora le medesime producano l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. Il tutto all’interno di una gradualità che ha tenuto conto degli orientamenti giurisprudenziali cui è stato fatto cenno superando, anche, sia pur in misura ancora parziale, lo stigma che sia il solo vizio di mente a compromettere gli interessi della persona. Interessi il cui raggio d’azione è ampio non potendo essere circoscritti a quelli della sola sfera patrimoniale. Perché l’ambito di copertura riguarda i propri interessi (quelli e solo quelli della persona) che solo l’art. 415 c.c., per l’inabilitazione, qualifica di natura economica anche se limitatamente alla prodigalità e all’abuso di sostanze tossicomaniche.

Con due critiche che, forse, possono essere mosse al legislatore dell’urgenza che, nel 2004, ha modernizzato il sistema di protezione giuridica introducendo la misura dell’amministrazione di sostegno modificando, anche, il carattere di obbligatorietà dell’interdizione prevista dal Codice Rocco.

La prima: la categorizzazione delle infermità e la loro distinzione tra quelle di ordine fisico e psichico appare forzata reiterando quella discutibile prassi fin qui seguita dal legislatore italiano di mantenere saldo il principio della distinzione etiologica delle disabilità invalidanti. Quando, a livello internazionale, quest’idea è stata abbandonata da oltre un trentennio; perché ogni menomazione è il risultato di un (dis)funzionamento non solo di ordine biologico ma, più estensivamente, di carattere biopsicosociale, di quella persona concreta che vive in un contesto ambientale altrettanto concreto e reale. Bene avrebbe fatto, dunque, il legislatore a non reiterare questa categorizzazione della disabilità (che non considera le disabilità di ordine sensoriale, quelle intellettive e quelle cognitive) anche se questa critica può essere attenuata dalla circostanza di aver considerato le loro conseguenze, indicandole, senza tentennamenti fuorvianti, negli interessi propri della (e di quella) persona (non già di altre, compresi naturalmente i familiari ed i componenti della sfera parentale).

La seconda: queste norme, in nessun caso, fanno riferimento alla capacità di agire e alla capacità di intendere e di volere della persona quando, in altre parti della legge civile, quest’ultima capacità è una tra le condizioni richieste per l’attribuzione alla stessa delle conseguenze del fatto dannoso e per la stipula di negozi giuridici. Così, ad es., nella capacità di fare testamento (art. 591) dove la legge civile (art. 591) dichiara, senza malintesi, l’incapacità testamentaria di quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento. Con la conseguenza che la responsabilità civile non soffre dei gravami previsti dalla legge penale e che la capacità di intendere e di volere ha, in quest’ambito, una portata più ampia, investendo non solo gli atti negoziali ma anche tutti gli altri atti precettivi con cui la persona umana esercita, legittimamente, i poteri e le libertà che sono ad essa attribuite dall’ordinamento giuridico.

Giunti a questo punto, occorre domandarsi se la competence sia o meno una categoria concettuale diversa rispetto a quelle fin qui esaminate, se essa possa essere – per così dire –identificata con la capacità di intendere e di volere, se la persona incapace sia o non sia, a fortiori (dunque, sempre e comunque) non-competence avendo irreversibilmente perso la sua moral agency, in che cosa davvero consista quest’ultima capacità, se esistano a meno strumenti accreditati a livello internazionale per la sua esplorazione e, una volta che abbiamo trovato un accordo sullo strumento da usare per il suo esame, se ci siano o meno valori-soglia (score) al di sotto dei quali la persona non è più nelle condizioni di poter determinarsi soprattutto riguardo alle situazioni di cura.

Le questioni poste sono ampie, complesse, difficili da risolvere e non sono solo di mero carattere speculativo come si potrebbe ingenuamente credere; non solo per le confusioni stigmatizzanti che persistono vitali nel mondo professionale ma soprattutto per le questioni pratiche ad essa connesse. Perché sovrapporre (confondere) la competence con la capacità di intendere e di volere e affermare che gli esseri umani più fragili, ancorché dichiarati incapaci dall’ordinamento, sono, a fortiori, non più moral agency significa accettare (del tutto passivamente) l’idea della disuguaglianza giuridica cui si è già accennato. Avvalorando l’idea che le persone affette da una patologia psichica o dementigena sono sempre e comunque incapaci (di intendere e di volere), degradandole, così, ad esseri umani o a entità naturali che appartengono, per così dire, ad una sfera post-personale per differenziarla dalla vita fetale alla quale abbiamo affidato uno status pre-personale degno comunque di rispetto e di tutela. Per dirla in gergo giuridico, a persone naturali non più in grado di esercitare autonomamente e legittimamente quei particolarissimi diritti e libertà fondamentali di autonomia privata tra cui il poter autodeterminarsi nel campo della salute e della cura: non più in grado, dunque, di accettare o di rifiutare legittimamente un trattamento sanitario che altri ritengono utile e necessario per la loro cura, dai più semplici (attenendomi al campo psicogeriatrico, l’assunzione, ad es. di farmaci antipsicotici atipici con modalità non label) ai più complessi (dare inizio o sospendere, ad es., il trattamento emodialitico quando necessario o la nutrizione e l’idratazione artificiale).

Consapevoli di questa deriva riduzionistica che dobbiamo contrastare appellandoci alla dignità umana, occorre entrare nel merito delle molte questioni prospettate provando a dare anzitutto contenuto espressivo alla competence (anche per risolvere il suo pericoloso frazionamento polisemico); con l’obiettivo di coglierne le sue caratteristiche peculiari, gli eventuali punti di contatto con la capacità di intendere e di volere e le dissonanze rispetto a questa. Per dare una chiarificazione alle tante opacità che rischiano di mettere in discussione i valori fondanti la relazione di cura e, soprattutto, la dignità della persona umana che i professionisti della salute devono difendere a tutti i costi e con ogni mezzo; attribuendo ad essa la forza del valore che impregna la relazione di cura indirizzandone, soprattutto, l’interpretazione.

Sulla capacità di intendere e di volere già si è detto. Essa è un’attitudine della persona giuridica risultando dal combinato funzionamento di due diverse capacità: quella di intendere o di rappresentare il valore e il disvalore giuridico delle azioni (siano esse commissive ma anche omissive) e quella di volere, di determinarsi, cioè, in modo coerente con le rappresentazioni. Una capacità, la prima, di carattere sostanzialmente razionale e una capacità, la seconda, di mantenere fermo e saldo il controllo razionale (l’autocontrollo) sulle emozioni e sui sentimenti per agire comportamenti ritenuti doverosi (e legittimi) dall’ordinamento giuridico. Con la conseguenza che essa presuppone un mondo di obblighi di tipo definito perché negativamente circoscritti dall’ordinamento giuridico – quello penale, in particolare–che fornisce un insuperabile (tassativo) elenco delle infrazioni e delle sanzioni previste nell’ipotesi di una loro violazione. Da ciò una libertà di azione circoscritta e condizionata dall’ordinamento giuridico che costituisce il tessuto vitale all’interno del quale prende forma e dimensione la capacità di intendere e di volere. Capacità che si confronta, dunque, con questo mondo esterno, fatto di libertà di tipo sostanzialmente negativo, che vive, in questa prospettiva, indipendentemente da ogni nostra biografia personale, dai nostri valori di riferimento, dai principi educativi che ci sono stati dati, dalle attese, dai nostri desideri, dalla parabola di vita che ciascuno di noi sceglie responsabilmente di fare, dalla nostra umanità identitaria e, in ultima analisi, dalla nostra stessa idea di dignità. Dalla nostra memoria personale e dalla promessa che ciascuno di noi compie nella scelta di vita; da una biografia identitaria che è pur fatta di nuda carne, di umanità, di un “io” irripetibile che si confronta con un “noi” rappresentato dal mondo delle relazioni personali e dei nostri affetti o, con una parola spesso abusata, da una coscienza individuale continuamente lacerata, quotidianamente e faticosamente ricostruita. Dalla nostra moral agency, dunque, che interpreto nella prospettiva liberale proposta da Dworking, dando priorità ai cd. interessi critici della persona ovverosia alla nostra capacità di «realizzare preferenze e interessi critici che esprimono la coerenza sulle nostre scelte all’interno di una narrazione complessiva unitaria» [17]. Coerenza che, evidentemente, richiede l’integrità della memoria, di ricordare ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare nel nostro arco di vita per realizzare, di conseguenza, quei progetti che ci siamo proposti come obiettivo da completare. Anche se quest’idea può essere considerata alla sola condizione (teorica) che la nostra parabola biografica sia sempre di tipo lineare e che la nostra vicenda umana non sia negativamente influenzata da difetti o da rotture (malattie) che incidono la nostra percezione del sé e quella identità narrativa che è la base di ogni progetto di vita. Da situazioni in grado, dunque, di compromettere la nostra moral agency, intesa almeno nella prospettiva poc’anzi indicata.

Questa non linearità è la ragione della pluralità delle non sovrapponibili idee espresse nell’attuale dibattito filosofico. Con un estremo rappresentato dalla posizione di chi critica l’idea dell’identità biografica della persona umana facendo perno sulle nuove conoscenze neuroscientifiche, privilegiando gli interessi di esperienza rispetto a quelli critici: la capacità, cioè, di avere esperienze, di provare gioia e dolore, di avere sentimenti e di formulare giudizi di valore indipendentemente dalla loro coerenza sul piano della biografia personale [18]. Con la conseguenza che sarebbe moralmente legittimo dare risposta ai desideri dei malati nel momento considerato, dato che i loro precedenti interessi e valori non possono più essere di giovamento.

In questa chiave interpretativa la persona umana capace di intendere e di volere è un soggetto che l’ordinamento giuridico disumanizza proprio riguardo ai principi e ai valori personali biografici ponendolo in relazione ad una sola parte del mondo esterno: quella della legalità e dell’ordine costituito che, naturalmente, non può non tener conto degli interessi comuni e di quelli collettivi oltre che – sempre più – dei vincoli finanziari e delle politiche imposte, nel caso dell’Europa, dalla Commissione e dalla Banca centrale europea. E non certo in modalità astratta, viste le riparazioni previste dall’ordinamento giuridico per ogni nostra infrazione alla legge scritta, finalizzate, evidentemente, a far soffrire il colpevole per la colpa commessa ma con una responsabilità, per così dire, ridotta e scotomizzata, considerata nella sua sola prospettiva negativa. Come impedimento che lo Stato di diritto impone a ciascun cittadino e che lo pone di fronte alla sola ed esclusiva violazione della norma.

Diversamente, la competence. Essa, al di là dei diversi orientamenti filosofici, è un’attitudine della persona umana che chiama in causa le sue libertà positive che non sono, certo, né illimitate né incondizionate, essendo delimitate e circoscritte dall’ordinamento giuridico. Libertà che, pur delimitate dall’ordine costituito, esprimono la capacità della persona di avere interessi di esperienza e, soprattutto, interessi critici a cui occorre dare coerenza per dare effettività ad ogni individualizzante progetto di vita. Assumendo decisioni che – diversamente dalla capacità di intendere e di volere che pur le condiziona attraverso i divieti e le sanzioni – supportano ogni nostro processo di individuazione e di coscientizzazione. Con una espressione della libertà in direzione aperta, costruttiva e coerente con la nostra moral agency, pur con i condizionamenti provenienti dal mondo esterno, dai legami sociali e affettivi, nel rispetto dei nostri valori di riferimento e della nostra stessa idea di dignità. Con un orizzonte molto più ampio che, pur nel rispetto delle prescrizioni fissate dall’ordinamento, ci consente di esprimerci individualmente e di sviluppare gradualmente e progressivamente la nostra stessa identità e personalità, come sancisce l’art. 2 Cost. Lungo un arco di vita che non è quasi mai di tipo lineare per le sue variabili cronologiche ed esperienziali, dentro le quali la persona umana sviluppa il suo processo di individuazione biografica. Non solo in virtù delle esperienze provenienti dal mondo sensibile ma, soprattutto, grazie alla memoria e alla promessa. Perché la memoria ci consente di dare sostegno all’identità personale nonostante le sue trappole e i fenomeni di oblio collettivo che sono, di recente, sfociati nell’odioso fenomeno del negazionismo storico [19]. Negando, addirittura, i crimini e le atrocità commesse contro l’umanità nel secondo conflitto bellico nei lager nazisti. E perché la promessa, nonostante i molti (indiscutibili) tradimenti, ci permette di rivolgere lo sguardo al futuro e di mantenere l’integrità di quel sé che si genera nella fedeltà alla parola data, nell’affidabilità che ci consegna a noi stessi in quella dimensione fiduciaria che ci consente di riappacificarci con la concezione agostiniana del tempo e di recuperarne, soprattutto, gli spunti non metafisici. Perché la memoria crea un ponte con il passato, mentre la promessa è la piattaforma e la base di lancio del futuro. Ed è proprio in questa dimensione, squisitamente umana, vitale, non astratta e non condizionata da precetti prescrittivi che deve essere collocata la competence della persona umana. Rappresentando, essa, la capacità di autodeterminazione, intendendola come una scelta non già meramente giuridica ma di tipo prioritariamente morale. Anche se, a mio modo di vedere, il riferimento alla prospettiva morale può essere riduttivo. Condividendo il primato dell’etica sulla morale, interpretando la prima come il regno di ciò che è stimato buono e giusto e, la seconda come l’obbligazione imposta dalle norme e dal loro specifico carattere costrittivo.

Capacità giuridica (di intendere e di volere) e competence non sono, dunque, categorie concettuali sovrapponibili pur avendo, tra loro, alcuni punti di contatto. Perché le libertà positive della persona umana non possono certo prescindere dalle prescrizioni fissate dall’ordinamento giuridico e perché entrambe prevedono un doppio binario di giudizio. Il primo, uguale ad entrambe, di tipo descrittivo volto ad individuare l’esistenza di una infermità che, per quanto in precedenza considerato, non è solo di mente; il secondo di tipo esplicativo, con una prospettiva però diversa. Di tipo psichiatrico-forense nel caso della capacità di intendere e di volere che deve sviluppare il profilo crimino-dinamico e quello crimino-genetico. In prospettiva biografica, invece, per la competence che richiede di essere considerata (ed esplorata) in riferimento all’identità di quella specifica persona posta in quel determinato contesto di vita. Investendo, questa esplorazione, tutta una serie di abilità funzionali [20] sulle quali esiste un sufficiente accordo nella letteratura internazionale [21] che le ha indicate:

  • nella capacità di manifestare una scelta;
  • nella capacità di comprendere le informazioni;
  • nella capacità di dare un giusto peso alle medesime;
  • e nella capacità di utilizzare razionalmente le informazioni.

Suggerendo, consequenzialmente, l’utilizzo di strumenti standardizzati (come, ad es., la MacCAT-T, MacArthur Competence Assessment Tool-Treatment, e la MacCAT-CR, MacArthur competence assessment tool for clinical research, specifica per l’arruolamento delle persone in trials clinici sperimentali) impiegati per ridurre la soggettività clinica anche se questi strumenti faticano a trovare un ampio e strutturato utilizzo nel contesto clinico italiano. Per ragioni che non mi sono chiare anche se, probabilmente, la causa di ciò è da ascrivere alla circostanza che essi non hanno score o livelli soglia al di sotto dei quali la competence della persona umana è sempre e comunque compromessa. Si tratta, infatti, di interviste semistrutturate, di relativamente facile somministrazione, in tempi sufficientemente contenuti (15-30 minuti), costruite non con l’obiettivo di essere uno strumento esaustivo ma come un ausilio nella valutazione. Valutazione che, oltre agli aspetti clinici, deve indagare quelli personologici e biografici di ogni persona umana, avendo la competence una dimensione individuale e una valenza sostanzialmente umana ed etica. Abbandonando definitivamente quei pregiudizi che la confondono con la capacità di intendere e di volere, quegli stigmi in ragione dei quali le malattie della sfera psichiatrica e quelle dementigene la comprometterebbero sempre e comunque (quasi a fortiori) e quelle diffuse prassi che la esplorano con batterie neurotestistiche elaborate per altre finalità (il MMSE in primis) riconoscendo ad esse un potere, per così dire, taumaturgico nel differenziare la capacità dall’incapacità e con valori soglia (pre)definiti.

Il diritto di esprimere una decisione (anche in maniera anticipata) che deve essere rispettata

Il diritto della persona umana di essere curata solo con il suo consenso (libero e informato) è una questione ampia alla quale sono state dedicate moltissime riflessioni da parte di giuristi, filosofi, medici e bioeticisti.

Per ragioni di spazio non posso dedicare a questa libertà una sistematizzazione teorica che richiederebbe un intero volume. Per cui mi basta ricordare che questa stessa libertà, ritenuta «fondamentale» dalle previsioni costituzionali (artt. 2, 3, 13 e 32), viene confermata sia dalla Convenzione di Oviedo che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Convenzione di Oviedo ne parla nell’art. 5 che subordina la legittimità di ogni intervento nel campo della salute al «consenso libero e informato» e nell’art. 6 che disciplina le situazioni in cui la persona non è più nelle condizioni di esprimere la sua volontà; la Carta europea ne parla, invece, nei primissimi articoli, nel Capitolo dedicato alla dignità, confermando che la salute è un diritto e non già un dovere e che nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario se non con la sua volontà eccezion fatta per le riserve di legge che, in situazioni particolari, possono imporne l’obbligatorietà.

Questa libertà generale è confermata dal Codice di deontologia medica che, anche nella sua ultima versione, ribadisce che il medico non può effettuare alcun trattamento sanitario contro il consenso della persona, che quest’ultimo deve essere registrato per iscritto nelle ipotesi indicate dalla legge o quando si renda necessaria una manifestazione non equivoca della volontà e che, di fronte ad una persona fragile in cui i familiari o il rappresentante legale si oppongano ad una scelta nell’interesse di salute della persona, il medico deve comunque agire nell’interesse della medesima e informare l’Autorità.

Nonostante queste previsioni siano chiare e non equivoche, sono molte le difficoltà che si aprono quando si guarda all’autonomia della persona nel campo della cura, specie in quelle situazioni in cui la malattia comprometta l’identità biografica della persona, come purtroppo avviene nelle patologie dementigene. Si tratta di una questione complessa sulla quale esistono luoghi comuni molto diffusi. Il primo: che la persona demente sia una persona sempre e comunque incapace di autonomia decisionale (moral agency). La seconda: che la moral agency sia equivalente alla capacità di intendere e di volere. La terza: che essa possa essere misurata con le batterie neurotestistiche (MMSE o test di Folstein) che, di norma, utilizziamo nella pratica clinica come test di screening delle demenza. La quarta: che esistano precisi livelli-soglia o score del MMSE al di sotto dei quali la persona demente deve essere considerata inequivocabilmente incapace di capire le informazioni, di integrarle coerentemente e di decidere liberamente.

Si tratta di luoghi comuni sulla cui pericolosità poco si è purtroppo riflettuto nonostante siano evidenti le banalizzazioni che ne derivano anche se, a dire il vero, qualche sporadica voce in controtendenza si è alzata dal mondo professionale [14] per provare a schiarire le ampie zone d’ombra contenute nella nuova versione del Codice di deontologia medica.

Mi spiego meglio. La deontologia medica era stata molto chiara nel 1998 affermando che il medico non può non tener conto della volontà espressa anticipatamente dalla persona quando la stessa non era più nelle condizioni di esprimere una chiara e inequivocabile manifestazione di volontà. La doppia negazione era naturalmente un rafforzativo linguistico non opinabile.

Il Codice deontologico del 2006 aveva operato una indiscutibile retromarcia: l’art. 38 dello stesso precisava, infatti, che la volontà della persona doveva essere manifestata in modo certo e documentato. E molto si è discusso sulla effettiva portata di quel “documentato” che qualcuno ha interpretato nella manifestazione olografa di una volontà, altri (tra cui il sottoscritto) con la possibilità di ricostruzione postuma della volontà della persona ricorrendo anche alla testimonianza dei familiari (e di chi ha conosciuto la persona) o alla sua annotazione nella documentazione clinica utilizzata dal medico nella relazione di cura. Ma un ancora più temibile arretramento è stato compito nell’ultima versione del Codice approvata a maggioranza e con grandissime polemiche il 18 maggio del 2014: l’art. 38 invita, infatti il medico a tenerne conto solo nell’ipotesi in cui esse siano state espresse in forma scritta, sottoscritta e datata e a verificarne la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria. Con una previsione, dunque, che indica le formalità burocratiche della loro redazione, che deve essere olografa e addirittura un controllo di coerenza non solo con la condizione clinica in atto, ma anche in termini di coerenza logica. Un altro esempio di cattiva regolamentazione che alimenta il sospetto che i medici italiani non siano sostanzialmente d’accordo con questa modalità di espressione anticipata della volontà, viste le gabole burocratiche indicate da una deontologia medica che io giudico senz’anima. Fermo restando che anche il Codice deontologico non esprime alcuna idea riguardo all’aspetto vincolante di questa volontà anticipata, limitandosi solo ad affermare che il medico ne debba tener conto.

In mancanza di una legge si discute quale sia il valore delle direttive anticipate di trattamento: se esse siano, cioè, un qualcosa di ridondante o se esse, al contrario, abbiano un’autorità morale che deve essere loro riconosciuta nonostante le nostre preferenze non possano essere considerate immutabili potendo esse cambiare nel tempo al variare delle nostre condizioni di salute. È chiaro, naturalmente, che questa autorità morale dipende dal grado di informazioni fornito alla persona e dall’esplicitazione di quali sono i trattamenti medici cui la stessa intende rinunciare e in quali circostanze. Ed è altrettanto chiaro che nella demenza la persona deve essere messa al corrente che nelle fasi intermedie della malattia i suoi interessi e i suoi valori potrebbero cambiare rispetto agli attuali.

E se la persona demente cambiasse idea rispetto ad una direttiva anticipata di trattamento precedentemente espressa, quale di esse avrà una maggiore autorità morale? Quella espressa quando questa aveva conservati i suoi interessi critici? O quella espressa quando la stessa, pur avendo perso la sua moral agency, è comunque in grado di provare ancora piacere e dolore e altri interessi di esperienza?

Qualcuno potrebbe osservare che il demente non è più una persona umana in senso pieno per cui occorre riconoscere l’autorità morale alle direttive anticipate rispetto ai desideri attuali. Questo può essere vero se assegniamo all’idea di persona umana il significato classico datole dalla filosofia con un forte pericolo però: perché l’affermare che la persona demente non è più una persona umana in senso pieno può portare a pericolosissime derive nichiliste che trasformano l’essere umano in un mezzo e non più in un fine. Può essere vero, anche se questo dipende da come vogliamo connotare l’idea di persona umana, pur evidenziando che la persona demente resta comunque un essere umano con un suo preciso statuto ontologico. Qualcun altro potrebbe al contrario sostenere l’idea che questa persona, nonostante non abbia più interessi critici, sia la stessa identità numerica di prima anche se i suoi tratti somatici possono essere cambiati dalla malattia e anche se la sua identità narrativa è venuta meno.

Con tutta una serie di questioni davvero difficili su cui provo ad esprimere qualche idea generale.

La mia idea è, che al di la delle questioni interpretative, si debba dare la precedenza agli interessi attuali della persona demente che ha interessi di esperienza in mancanza, naturalmente, di evidenze contrarie. Con la conseguenza, dunque, che l’autorità morale prevalente va riconosciuta agli interessi attuali della persona, anche se essi sono magari contrari rispetto a quelli indicati nella volontà anticipata. Se la persona demente ha invece perso tutti gli interessi critici e, parallelamente, anche gli interessi di esperienza, come accade purtroppo nelle fasi terminali della malattia e se la sua identità è, dunque, completamente ceduta sotto il peso della malattia, credo che l’autorità morale vada riconosciuta alla volontà anticipata che la stessa ha espresso. Con un’ulteriore idea di fondo: che il fiduciario (o l’entourage familiare) resta comunque la persona che, nelle situazioni difficili, deve saper interpretare il best interest del paziente e parlare non “al posto” dell’incapace ma “con” e “per” l’incapace che non ha più voce.

Il diritto a non soffrire

Di questo diritto se ne è parlato probabilmente troppo poco in ambito psicogeriatrico considerandolo una questione che riguarda la rete delle cure palliative quando, invece, il problema ha una portata più ampia. Non condividendo assolutamente l’idea che la palliazione è l’ultima spiaggia quando non c’è più nulla da fare sul piano clinico perché il saper misurare e contenere il dolore deve essere un patrimonio comune ad ogni medico: una sensibilità a cui non possiamo rinunciare se non vogliamo degradare l’arte della cura nella sola opzione tecnica.

Il Codice di deontologia medica offre spunti di discussione davvero interessanti. Di dolore parla l’art. 3 del Codice che, tra i doveri generali posti in capo al medico, indica – non certo a caso – anche «il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera». Il trattamento del dolore e il sollievo dalla sofferenza sono, così, secondo il Codice parte stessa dei doveri generali di ogni medico da non delegare sempre e comunque alla rete delle cure palliative.

Anche gli artt. 16 e 39 del Codice parlano di trattamento del dolore. L’art. 16 («Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati») parla di appropriatezza delle cure e, molto correttamente, esplicita che il «controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato». L’art. 39 («Assistenza al paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza») stabilisce poi che «il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita»: anche in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente visto che il medico deve comunque proseguire «nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento».

L’idea (in questo caso davvero) straordinaria espressa dal Codice è, dunque, quella che ogni medico deve saper improntare la sua opera considerando il dolore e impegnandosi sempre e comunque per il suo controllo adeguato, anche quando la persona abbia definitivamente compromesso lo stato di coscienza e non sia quindi più in grado di riferirlo a chi la assiste. Senza delegare il trattamento ad altri medici, a meno che ciò non sia naturalmente necessario per ragioni di esperienza e di competenza. E che, nel caso di dolore, non si deve discutere mai sull’appropriatezza del trattamento, che è spesso condizionata da ragioni di risparmio economico. Le correlazioni tra dolore e dignità della persona sono definite in maniera chiara e su di esse non occorre soffermarsi se non per ribadire che il dolore disumanizza, rende la vita insopportabile e fa perdere qualsiasi speranza di poter morire dignitosamente.

Ciò nonostante, anche in questo campo i medici scontano molte arretratezze (professionali, culturali e umane) sulle quali bisogna intervenire con coraggio riconoscendo le nostre insufficienze a meno che non si voglia pensare che ogni demente debba essere affidato alla rete delle cure palliative per la valutazione e il trattamento del dolore. Il dolore non è, a nostro modo di vedere, un pacco postale che può essere affidato ad un corriere di nostra fiducia quando la persona si affida a noi per essere accompagnata nella sua parabola di malattia. Anche perché le patologie dementigene, rispetto ad esempio a quelle oncologiche, manifestano straordinarie peculiarità che sarebbe scorretto non considerare.

Sappiamo, a questo riguardo, che gli anziani soffrono molto spesso di un dolore cronico con punte che arrivano oltre l’80%, che il dolore aumenta con l’età raggiungendo il suo plateau intorno ai 70-75 anni probabilmente a causa della disfunzione dei circuiti inibitori, che, altrettanto spesso, gli anziani non lo comunicano a chi lo ha in cura o lo comunicano in maniera particolare, che esiste una sottovalutazione diffusa nella sua gestione e che il dolore non è una sola esperienza sensoriale, influenzando negativamente non solo le funzioni cognitive ma anche il funzionamento complessivo della persona. E sappiamo anche che ogni declino cognitivo, indipendentemente dalla sua causa, condiziona non solo la capacità di esprimere il dolore ma soprattutto la sua qualità e quantità. Al di là della variabilità metodologica dei numerosissimi studi che sono stati al riguardo pubblicati è stato dimostrato che la soglia nocicettiva si riduce nella malattia di Alzheimer, suggerendo la maggior sensibilità del riflesso nocicettivo spinale. Al di là delle conferme empiriche di queste teorie, ciò che è certo è che la persona demente non è in grado di comunicare il dolore e la sua intensità per tutta una serie di ragioni evidenti: più spesso per la mancanza di consapevolezza, per la compromissione dei network tra l’ippocampo e le regioni frontali e per la perdita delle abilità comunicative. Per ovviare a ciò sono state predisposte molte scale di valutazione del dolore nella persona demente alcune delle quali sono state anche validate in Italia: tra quelle osservazionali la DOLOPLUS-2, tradotta in italiano nel 2010 e, soprattutto, la NOPPAIN validata in Italia da Ferrari et al. [22], che valuta la presenza e l’intensità del dolore di sei comportamenti rilevati nel corso di nove attività assistenziali quotidiane.

Conclusioni

Dare un orizzonte e un contenuto di protezione alla dignità umana non è, a mio modo di vedere, un optional ma una straordinaria priorità che deve interrogare il mondo professionale. Specie in tempo di crisi, in cui sono davvero forti le occasioni che tendono ad un drastico ridimensionamento dei diritti, soprattutto di quelli fondanti la solidarietà politica, economica e sociale delle persone più fragili, se vogliamo contrastare il crescere della disuguaglianza che, con i diritti di libertà e di solidarietà, fondano la dignità. Dignità che occorre riconsegnare al vertice della scala dei valori della democrazia, considerandola come un bene da tutelare in sé, di tutti e di ciascuno; anche e soprattutto nel caso in cui questo qualcuno assuma una debole proiezione sociale come avviene nel caso delle persone anziane, dei bambini, dei poveri, dei disabili, dei disadattati e degli emarginati. Senza ricorrere ad essa per utilizzarla a guisa di orpello retorico e senza nemmeno banalizzarla perché la genericità e l’ambiguità sono, ricorrendo ad una metafora, veicoli pericolosi che non dobbiamo guidare, nel traffico della modernità, con la speranza di raggiungere la mèta che, nella prospettiva sia cristiana che kantiana, resta quella di considerare la persona come fine e non già come mezzo e di vedere nella dignità il segno distintivo della comune appartenenza all’umanità, di un reciproco riconoscimento di quest’ultima, di una esigenza di tutela della persona in quanto tale. E indignandoci quando la dignità viene calpestata, derisa, ferita, disattesa, violata: nella consapevolezza che l’offesa alla dignità dell’altro (soprattutto se più debole) è anche e per ciò stesso un’offesa concreta alla nostra dignità e alla nostra stessa umanità. Perché i diritti, pur dichiarati e proclamati a gran voce nelle Carte, nelle Convenzioni e nelle Costituzioni sono poi traditi nei fatti proprio da chi dovrebbe promuoverli e dare ad essi una protezione [23]; e perché il mondo è ancora diviso in classi ricche e povere, in ceti che detengono il potere economico e sfruttano con sempre più innovative modalità i ceti poveri, perché ci sono popoli che hanno discrete per non dire buone prospettive di benessere e popoli che muoiono ancora di fame, di stenti e di banali malattie infettive; e perché, nonostante la globalizzazione economica, quella umana viene ancora contrastata da insufficienze e privilegi che sono spesso affrontati nei tanti (troppi) talk show televisivi con l’enfasi delle parole o dei proclami ma senza l’onestà di provare a correggerne davvero le storture.

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