PM&AL 2016;10(2)53-56.html

Valenza umana della cura (care) dei pazienti in stato vegetativo permanente e ruolo dei caregivers

Cristina Bruccoleri 1, Luciano Sesta 2, Antonina Argo 3

1 Dottore in Infermieristica, Master di Cure Palliative, Università degli Studi di Palermo

2 Dottore di ricerca in Filosofia, post-doc, Dip. Scienze per la Promozione della salute G. D’Alessandro, Università degli Studi di Palermo

3 Professore Associato di Medicina Legale, Dip. Scienze per la Promozione della salute G. D’Alessandro, Università degli Studi di Palermo

Abstract

As stated by the Royal College of Physicians, «patients who remain in a vegetative or minimally conscious state following profound brain injury present a complex array of clinical and ethical challenges to those who care for them». Patients in clinical condition of Permanent Vegetative State (SVP) are unaware of self and environment, enable of language comprehension or expression; they are able to survive along provided that we are able to ensure primary care, such as eating and hydration.

With regard to this existential landmark, caregiver’s role is not only legally related, as guardian of will of his/her relative but also as “mediator” between the SVP patient and heath care professionals; in fact, the caregiver emphasizes the intentionality of patient behaviors, transforming them into care needing. Moreover, since the disease does not only indicate an impairment of one or more functions of an organ, and then the body, but also covers the mind, then the psyche, the sick body reflects in this way the soul’s suffering and this suffering has an impact on family caregivers.

Keywords: Vegetative State; Consciousness; Human person; Caregiver

Human value of care and caregivers' role in the management of permanent vegetative state (SVP) patients

Pratica Medica & Aspetti Legali 2016; 10(2): 53-56

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v10i2.1246

Corresponding author

Antonina Argo

antonella.argo@unipa.it

Disclosure

Gli autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Cenni storici e terminologia clinica

«Lo stato vegetativo (SV) è una condizione funzionale del cervello, che insorge subito dopo l’evento acuto che lo ha determinato, diventando riconoscibile solo quando finisce il coma che, sovrapponendosi, lo maschera» [1]. Lo SV, con mantenimento delle funzioni neurovegetative che permettono i ritmi sonno-veglia e la respirazione spontanea, è dizione inadeguata e fuorviante se utilizzata al di fuori del ristretto ambito clinico. Per non esperti la dizione SV evoca una qualità di vita di tipo “vegetale”, e quindi non umana. Il primo caso di SV venne descritto nel 1899 da Rhosenblat. La “sindrome” di SV venne quindi descritta nel 1940 da Ernest Kretschmer come «sindrome apallica». Nel 1963 il termine fu coniato da Arnaud e colleghi per descrivere i pazienti sopravvissuti a gravi traumi cranici. Nel 1972 il neurochirurgo scozzese Bryan Jennet e il neurologo americano Fred Plum descrissero e introdussero le caratteristiche cliniche dello SV e coniarono il termine SV Persistente (SVP), osservando che «lo SV persistente non è una malattia cronicizzata, ma un modo di esistere innaturale, una condizione artificiale prodotta dalla moderna medicina» [2]. Tale affermazione comporta interrogativi medici, legali ed etici.

Nel 1993 l’American Academy of Neurology sentì la necessità di abolire l’uso interscambiabile dei termini e introdusse quelli di stato vegetativo, stato di minima coscienza e sindrome locked-in (LIS). Nella LIS le vie motorie e di comunicazione tra gli emisferi e i muscoli periferici sono interrotte, per cui la persona giace a letto e necessita di tutta l’assistenza richiesta come in uno stato vegetativo, ma lo stato e il contenuto di coscienza sono mantenuti, ossia le funzioni intellettivo-cognitive non sono compromesse. Nel 1994, la Multi-Society Task Force (MSTF) on PVS (Persistent Vegetative State) stilò dei criteri per diagnosticare lo stato vegetativo, tuttora validi [3]:

  • nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante;
  • incapacità a interagire con gli altri;
  • assenza di qualsiasi gesto volontario, di risposte motorie, verbali e comportamentali in seguito a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorosi;
  • assenza di comprensione o produzione verbale;
  • conservazione più o meno completa delle funzioni ipotalamiche e troncoencefaliche sufficienti a garantire la sopravvivenza in presenza di cure mediche e infermieristiche;
  • incontinenza urinaria e fecale;
  • variabile conservazione dei nervi cranici (riflessi della pupilla, oculo cefalici, corneali, vestibolo-oculari e suzione) e di quelli spinali;
  • intermittente vigilanza che si manifesta con la presenza di cicli sonno-veglia, come ad esempio il periodo di apertura spontanea degli occhi.

La probabilità di recupero diminuisce progressivamente con il passare del tempo dall’evento acuto, ma non è possibile stabilire un limite temporale che denoti l’irreversibilità dello SV poiché sono stati aneddoticamente riportati alcuni casi di recupero parziale del contatto con il mondo esterno anche dopo moltissimo tempo. Il coma (dal greco κώμα “sonno”) è la conseguenza di un processo patologico che, direttamente o indirettamente, ha coinvolto l’encefalo e ne ha compromesso la funzione, fino a produrre incoscienza. Così come i pazienti in coma, quelli in SV non dimostrano segni di comportamento cosciente, ma un’apertura spontanea degli occhi con evidenza dei cicli sonno-veglia all’elettroencefalogramma (EEG). Il coma è «quello stato di sospensione della coscienza di sé e del mondo, di impossibilità di entrare in rapporto con chi ti circonda, con chi ti vuole parlare, aiutare […] uno stato che non è vita e non è morte, ma che vita e morte riassume, specchio di ciò che siamo e che saremo» [4]. È una condizione clinica simile al sonno, da cui il paziente non è risvegliabile con stimoli adeguati, senza interazione tra vigilanza e coscienza, in cui il paziente non compie nessun atto intenzionalmente. Non vi è evidenza di cicli sonno-veglia all’EEG e le risposte motorie consistono interamente in attività riflessa, con alterazioni delle funzioni vegetative, quali la respirazione e l’attività cardiocircolatoria. Il coma può progredire verso la morte encefalica oppure perdurare per un tempo limitato, giorni o settimane, e termina nel momento in cui il paziente riapre gli occhi spontaneamente o a seguito di stimoli esterni. La riapertura degli occhi stabilisce la fine del coma, ma non lo stato clinico che ad esso segue. È, infatti, necessario individuare se, oltre alla ricomparsa della vigilanza, è presente una condizione di parziale o completa coscienza.

La coscienza (dal latino cum scire: «sapere insieme») rappresenta uno stato interiore che si può comunicare; tale definizione è ambigua, dal momento che nella LIS la coscienza, in mancanza dei riflessi oculari, può essere presente senza possibilità di essere manifestata. La definizione di coscienza nei secoli ha impegnato in accese – ed ancor attuali – dispute filosofi e scienziati, e a tal riguardo è stato ancor recentemente osservato che «già i Greci sapevano che il normale comportamento cosciente dipende da una funzione cerebrale intatta e che i disordini della coscienza sono un segno d’insufficienza cerebrale» [5]. Nell’accezione moderna, la coscienza si identifica con la piena consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante [5]. Può essere definito cosciente chi è sveglio, chi pensa, e prova emozioni. Componenti principali della coscienza sono:

  • la vigilanza, cioè lo stato di veglia, stare ad occhi aperti, “wakefulness” per la letteratura anglosassone. Per potersi pienamente relazionare con l’ambiente, essa richiede inoltre l’integrità con i sistemi motorio e sensitivo;
  • la consapevolezza, rappresentata dalla somma delle funzioni cognitive e affettive (“awareness”).

Durante il coma, il sonno o l’anestesia sia la vigilanza che la consapevolezza sono al minimo; nello SV vi è la presenza della vigilanza, quindi vi è un alternanza del ritmo sonno-veglia, ma vi è un’assenza di consapevolezza. I pazienti in SV sono svegli ma senza consapevolezza di se stessi.

La diagnosi clinica di «Disorders of Consciousness» utilizza differenti scale di valutazione che considerano variazioni comportamentali dell’individuo osservate da clinici e personale infermieristico, terapisti e familiari. Metodiche strumentali aiutano la comprensione dei meccanismi fisiopatologici che determinano lo stato di non responsività, differenziando il coma e lo SV da LIS, integrano la valutazione prognostica e ne monitorano l’evoluzione. La Multi Society Task Force on PVS [3] ha introdotto il termine SV Permanente per descrivere lo SV dopo 12 mesi dal trauma cranico e dopo 6 mesi da cause non traumatiche. Il concetto di permanenza dello SV «non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico»; inoltre implica irreversibilità, e quindi si tratta di una terminologia prognostica e non diagnostica: «SV persistente è una diagnosi, SV permanente è una prognosi». Secondo la Task Force statunitense e il Royal College of Physicians [6,7], il termine “persistente” si riferisce solo a una «condizione di passata e continua disabilità con un futuro incerto». Non si può prevedere con assoluta certezza che la coscienza non sarà mai recuperata (Royal College of Physicians (2003) [7], come presuppone lo “SV permanente”; tuttavia le chances di recupero diminuiscono considerevolmente con il perdurare dello SV.

I criteri diagnostici di SVP comprendono [8]:

  • nessuna evidenza di:
    • coscienza di sé o di consapevolezza dell’ambiente ed incapacità ad interagire con gli altri;
    • comportamenti durevoli, riproducibili, finalizzati o volontari in risposta alle stimolazioni;
    • produzione o comprensione verbale.
  • presenza di:
    • apertura degli occhi;
    • pattern sonno-veglia EEG più o meno rudimentale;
    • funzioni vitali autonome (respiro, circolo, etc.);
    • incontinenza vescicale e rettale;
    • deficit di vario grado della funzionalità dei nervi cranici;
    • presenza variabile di riflessi troncoencefalici e spinali;
    • motilità oculare assente o erratica;
    • rarità dell’ammiccamento;
    • schemi motori primitivi;
    • rigidità-spasticità;
    • posture patologiche.

Sintesi delle questioni bioetiche rilevanti connesse allo SV e a similari condizioni di vulnerabilità della persona

Nel giugno del 2010, ne “I criteri di accertamento della morte”, il Comitato Nazionale per la Bioetica affermò che la legislazione italiana è garantistica e prudenziale e inoltre «l’atteggiamento scientificamente rigoroso di identificare la morte con la “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” rende impossibile nel nostro Paese confondere la morte encefalica con uno stato di coma profondo o con lo stato vegetativo» [9].

Il bioeticista Reichlin pone tre domande che sintetizzano le maggiori questioni etiche:

«Gli individui in SVP possono essere definiti “persone”?»

«Quali sono i nostri doveri di assistenza nei loro confronti?»

«L’ipotesi di sospendere la nutrizione ed idratazione artificiali a persone in SVP equivale ad accettare l’eutanasia?»

Ci si interroga in che modo la persona “incapace” possa ancora essere protagonista del suo processo terapeutico, sia a livello giuridico che morale; se sia lecito interrompere l’alimentazione artificiale, o se le Direttive Anticipate di Trattamento (DAT) siano uno strumento idoneo ad esprimere la volontà della persona [10]. Si tratta di fatto di una scelta fatta «allora per ora», in quanto estensione nel tempo di una sua precedente volontà, e ci si chiede, ancora, se quest’ultima, la volontà, possa essere ricostruita sulla base di testimonianze, in assenza di un documento scritto. La situazione in cui una persona vive una vita esclusivamente “vegetativa”, con o senza ausili di sostegno vitale artificiale, produce, spesso, la destabilizzazione delle categorie morali e giuridiche esistenti, in quanto si tratta di situazioni “limite” che dissolvono il confine tra la vita e la morte. La persona in SV, infatti, si trova in una condizione di assoggettamento al potere dello Stato, con la sua legislazione e la sua gestione delle risorse sanitarie ed economiche. Occorre quindi ribadire con forza la «valenza umana della cura (care) dei pazienti in SVP» [11].

La relazione tra il paziente e caregiver

Negli ultimi decenni in Italia si è registrata una maggiore incidenza e prevalenza dei pazienti con quadri clinici complessi dominati da gravi alterazioni dello stato di coscienza che includono il coma, lo SV e lo stato di minima coscienza (SMC), a causa dei progressi della medicina dell’emergenza e delle tecniche rianimatorie. Lo SV si differenza da malattie croniche quali Alzheimer e sclerosi laterale amiotrofica, ove la diagnosi arriva dopo un percorso graduale, nel quale il paziente è ancora in grado di comprendere le sue condizioni, e la famiglia si interroga sull’evolversi della malattia. Nello SV, poiché non c’è stato un segno premonitore, sintomo o malessere sottovalutato, tutto cambia all’improvviso e il familiare si ritrova impotente fuori dalla porta di un reparto di terapia intensiva, ad aspettare. Dal punto di vista psicologico il tempo assume una rilevanza importantissima. I sanitari, partendo proprio da questo elemento basilare, dovrebbero modulare il proprio intervento, le modalità di comunicazione e l’approccio con i familiari. La posizione che assume il caregiver talvolta appare addirittura più tormentata e difficile di quella del paziente. Se l’avvicinamento al proprio caro contiene una dose troppo alta di oscuramento di sé e dei propri bisogni, si produce una situazione cronica di stress, responsabile di stati depressivi, angosce e ansia elevata. Poiché la posizione di aiuto non permette al caregiver di trasferire nella relazione con il proprio caro queste emozioni penose, egli è costretto a deviarle sui rapporti sociali e lavorativi, e se in essi non trova un aiuto è possibile che si crei una diffusa situazione di crisi, caratterizzata da ritiro sociale, decadimento delle prestazioni di lavoro. L’evento inatteso e le relative conseguenze improvvisamente cambiano la vita di tutta la famiglia, che si trova espropriata del proprio caro ed è immersa in una condizione di estrema drammaticità. Occorre organizzare attorno al paziente una serie di interventi coadiuvanti il lavoro d’équipe – psicologi, infermieri, terapisti – in modo da coinvolgere anche la famiglia nel processo decisionale su cosa è meglio fare o non fare per il paziente. Il principale obiettivo è quello di sostenere sia il caregiver sia gli altri membri della famiglia, chiamati a gestire una persona che è ancora viva, ma che non è più quella che era prima.

Con il passare del tempo diviene importante anche un lavoro di elaborazione del lutto, tanto doloroso quanto indispensabile. Stern ha osservato che: «lo SV può essere considerato un paradosso emotivo per i caregivers perché non permette ad essi di giungere ad una elaborazione del lutto non essendo il paziente morto e presentando movimenti involontari ed una maggiore autonomia dagli ausili rispetto a quando si trovava in terapia intensiva» [12]. In questo contesto sanitario ed esistenziale, l’infermiere, come cita l’Articolo 39 del Codice Deontologico: «sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto». Dovrà quindi lavorare su un processo di lenta separazione e di perdita che ha molti punti in comune con la reazione di chi vive un lutto, con tappe rappresentate da negazione, iperattivismo, collera, senso di colpa. Il caregiver comincerà allora ad accettare la propria impotenza e il proprio dolore e riuscirà a trovare un equilibrio tra se stesso e lo stato in cui risiede il proprio caro.

Bibliografia

  1. Ministero della Salute. Libro bianco sugli stati vegetativi e di minima coscienza, 2010. Disponibile online su http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1377_allegato.pdf (ultimo accesso maggio 2016)
  2. Jennet B, Plum F. Persistent vegetative state after brain damage: a syndrome in search of a name. Lancet 1972; 1 (7753): 734-7
  3. The Multi-Society Task Force on PVS. Medical aspects of the persistent vegetative state (1). N Engl J Med 1994; 330(21): 1499-508
  4. Verlicchi A, Zanotti B. Coma e stato vegetativo: ricerca dei metodi di “risveglio”. Trento: New Magazine edizioni, 2000; p. 305-19
  5. Marcello N, Grisendi I. La compromissione dello stato di coscienza. In: Manzoni GC, Torelli P. Neurologia. Bologna: Società Editrice Esculapio, 2012; p. 115
  6. Royal College of Physicians 2013. Prolonged disorders of consciousness: national clinical guidelines: Preface. Disponibile online su: https://www.rcplondon.ac.uk/guidelines-policy/prolonged-disorders-consciousness-national-clinical-guidelines (ultimo accesso maggio 2016)
  7. Bates D. The vegetative state and the Royal College of Physicians guidance. Neuropsychol Rehabil 2005; 15(3-4): 175-83
  8. Commissione Tecnico-Scientifica (istituita con D.M. 12 Settembre 2005). Stato vegetativo e stato di minima coscienza. Documento finale. Roma, 14 dicembre 2005. Disponibile on line su: http://www.aduc.it/generale/files/allegati/cure_stato_vegetativo.pdf (ultimo accesso maggio 2016)
  9. Comitato Nazionale di Bioetica. I criteri di accertamento della morte. In: Comitato Nazionale di Bioetica. Pareri 2009-2010.
  10. Sesta L. Quando la coscienza dorme. Un contributo al dibattito sul caso Englaro. Questioni di Bioetica 2009; 8: 57-94
  11. Comitato Nazionale di Bioetica. L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente testo approvato nella seduta plenaria del 30 settembre 2005.
  12. Stern J, Sazbon L, Becker E, et al. Severe behavioural disturbance in families of patients with prolonged coma. Brain Injury 1988; 21: 256-62

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