PM&AL 2018;12(1)21-24.html

“Malasanità”: breve osservazione a proposito di un singolare quesito posto ai Consulenti Tecnici d’Ufficio in un caso di accertamento tecnico preventivo ex art. 8 della cosiddetta Legge Gelli-Bianco

Paolo Girolami 1

1 Laboratoire d’Ethique Médicale et Médecine Legale, Università Paris Descartes, Paris

“Malasanità”: brief observation on a singular question posed to Technical Consultants in a case of prior technical assessment pursuant to art. 8 of the so-called Legge Gelli-Bianco

Pratica Medica & Aspetti Legali 2018; 12(1): 21-24

https://doi.org/10.7175/pmeal.v12i1.1384

Corresponding author

Paolo Girolami

paolo.girolami@unito.it

Disclosure

L'Autore dichiara di non aver conflitti di interesse in merito agli argomenti trattati nel presente articolo.


Nel luglio del 2018 il Giudice di un Tribunale riceveva istanza di accertamento tecnico preventivo ex art. 8 della cosiddetta Legge Gelli Bianco (Legge n. 24/2017) [1], che, come è noto, impone, a chi voglia esercitare di fronte al Giudice «un’azione risarcitoria derivante da responsabilità sanitaria, di tentare prima un percorso negoziale al fine di verificare la possibilità di evitare il processo» [2]. Nel caso in questione, il Giudice adíto, ai Consulenti Tecnici d’Ufficio (CTU) nominati poneva il seguente quesito: «Accertare l’entità delle lesioni e postumi permanenti residuate al signor XY a seguito della mala sanità, il nesso di causa tra le lesioni lamentate e l’operato dei sanitari Usl, nonché la congruità delle spese mediche, la necessità di spese mediche future in modo da addivenire ad una composizione della lite».

Quello che qui interessa, senza entrare nel merito della vertenza che potrebbe costituire una violazione del segreto d’ufficio e professionale in quanto il procedimento è ancora in corso, sembra un problema apparentemente secondario, di semplice natura semantica, ma, ad avviso di chi scrive, di ordine primariamente semeiologico, in riferimento all’espressione “mala sanità” usata nel quesito.

Nell’enciclopedia Treccani il termine “mala sanità” è così descritto: «malasanità (o mala sanità) s. f. (solo al sing.). – Espressione polemica coniata nel linguaggio giornalistico, e usata specialmente nel riferire fatti di cronaca che costituiscono esempî tipici di uno stato di disservizio nel funzionamento delle strutture pubbliche e degli organi sanitarî cui è istituzionalmente affidato il compito di provvedere alla salute dei cittadini» [3].

Ora, è evidente anche ad un profano della medicina che tale espressione, proprio per il suo carattere polemico/dispregiativo, usata in un quesito peritale espresso in un’aula di Giustizia, non rende merito né alla tanto vantata imparzialità del Giudice, né tantomeno al rispetto dei sanitari il cui operato è ancora in fase di accertamento sotto il profilo della corretta condotta e neppure alla Usl da cui essi dipendono. Si potrebbe tentare una giustificazione affermando che il termine “malasanità” costituisce la traduzione approssimativa del termine anglosassone “malpractice”, ormai usata comunemente anche nel linguaggio italiano in prestito linguistico, ma un rapido sguardo ad un dizionario inglese ci rassicura relativamente all’uso del termine in stretta connessione alla valutazione della condotta, in particolare, nell’ambito della pratica medica. In inglese il termine “malpractice” significa: «Improper, illegal or negligent professional behaviour», secondo la definizione leggibile sul sito internet degli Oxford Dictionaries [4].

Addentrandoci brevemente nella differenza tra i due termini, è facile rendersi conto, da quanto appena detto, che il termine “malasanità” si riferisce ad una cattiva gestione o al perverso assetto di una istituzione, la sanità, la quale, in quanto istituzione, implica un sistema organizzato di persone, in primis, i professionisti della sanità, e di mezzi, atti a ottemperare, su vasta scala, al fine ultimo di realizzare l’essenza stessa della medicina, che è quello di porre rimedio alla malattia, di ristabilire, per quanto possibile, lo stato preesistente di salute, di impedire un ulteriore progressione del “male” che affligge la persona in quanto entità psico-fisica. In quanto sistema organizzato, esso è simile ad ogni altra organizzazione, ancorché criminale, che nel gergo giornalistico e criminologico, viene spesso stigmatizzata con l’aggettivo qualificativo “mala”, come per esempio “ malavita” o anche semplicemente con il sostantivo “mala”. È su tale assonanza tra il termine malasanità e il termine malavita che si concentrano le critiche di chi scrive, quasi che in certi settori della organizzazione sanitaria, nella sanità appunto, siano “di solito” riconoscibili aggregazioni volontarie di persone volte a mortificare e alterare lo scopo della medicina, al fine di trarne un beneficio illecito o comunque sopportare/supportare scientemente, per noncuranza, negligenza, ecc., le deviazioni da standard prestabiliti di efficienza.

Per quanto riguarda la “malpractice”, ci troviamo in uno spazio semantico differente. In questo caso infatti l’aggettivazione negativa non si incentra sulla cattiva (mala) gestione o efficienza di un sistema, essendo piuttosto in gioco la cattiva “pratica” professionale, quindi in riferimento all’attività comportamentale di uno o più professionisti, i quali, trovandosi inevitabilmente ad operare in un sistema organizzato, quale è il mondo della medicina, deviano dalle norme di buona pratica professionale.

Come ci ricorda il filosofo tedesco Gadamer in un interessante scritto, intitolato “Filosofia e Medicina Pratica” [5], la medicina pratica, così come ciascuno di noi l’ha sperimentata o sul corpo proprio o su quello altrui, o perché paziente o perché professionista, cela nel suo entroterra un importante campo di riflessione etica sul quale conviene soffermarsi per comprendere certe derive, delle quali il quesito peritale costituisce un significativo sintomo.

Il termine “pratica” si contrappone, nel linguaggio corrente, a quello di “teoria”, il primo potendosi correttamente assimilare, senza tuttavia soprapporvisi, a quello di “arte”, il secondo rimanda invece al concetto di “legge”, cioè alla statuizione di una regola in astratto, che solo nella sua applicazione ad un caso concreto assume il suo vero significato.

Come afferma Gadamer, l’idea di pratica, o meglio quello di arte, evoca il principio del saper fare proprio dell’artefice, cioè di colui che è in grado, grazie alle sue abilità, di fabbricare un oggetto. In campo medico l’arte del professionista (indicando con tale termine l’intero corpo dei sanitari) si inserisce in un quadro ben più ampio: quello della scienza. Dall’epoca di Galileo la scienza si caratterizza per il fatto che essa è capace, adottando uno schema matematico, di sostituire l’oggetto concreto osservato con un elemento teorico, così da poterlo inserire in un sistema di leggi universali. Il tentativo di trasporre in medicina (ci riferiamo qui alla medicina clinica non certo al campo sperimentale) tale processo di trasmutazione si scontra con delle enormi difficoltà. In medicina infatti non troviamo degli oggetti ma dei casi, cioè delle persone, il cui stato di salute confligge con delle resistenze nei vari campi in cui opera la medicina (prevenzione, cura, riabilitazione). Ma ogni persona è un unicum, un caso a sé. Ogni caso, ci ricorda Gadamer, inspirandosi a Platone, è un’entità osservabile che possiede una misura esteriore, facilmente misurabile, e una misura interiore, inerente all’oggetto nelle sue specifiche qualità. I greci erano soliti distinguere tra μέτρον (metron), termine utilizzato per indicare la misura, e μέτριον (metrion), indicante ciò che è misurato, cioè conforme alla giusta misura. In medicina, ogni caso si caratterizza per il fatto di essere soggetto ad una misura esteriore, preso nella sua realtà biologica. Gli accertamenti per immagine, gli esami di laboratorio, ecc., sono tutti dati che potremmo definire “scientifici”, che nulla ci dicono però della misura interiore di quel caso, del suo modo di essere, che inevitabilmente risente anche di una serie di relazioni interpersonali derivante dalla miriade di istituzioni e di organismi in cui è o è stato inserito. Si tratta di una dimensione del caso che la scienza e le sue applicazioni tecniche non riesce a dominare, a ridurre all’oggettivamente misurabile, a trasporre in un’entità astratta, da inserire nel mondo delle leggi scientifiche universali. Alla realtà ben nota, e ormai preponderante in medicina, del malato cronico si associa l’idea della salute cronica, un bene che l’istituzione sanitaria, a qualsiasi latitudine, non è in grado di assicurare, perché ogni caso è una persona che porta con sé il requisito dell’essere in un mondo finito, quindi della finitezza. Se la guarigione è, in approssimazione, il ritorno allo stato anteriore (il ricongiungimento della fine all’inizio) che geometricamente potremmo raffigurare con la chiusura di un cerchio, la morte è il fallimento (inevitabile per ciascun uomo) di questo tentativo di chiusura. Una realtà che la nostra società è sempre meno disposta ad accettare, essendo sempre più convinta del dominio della scienza sulla vita e della riducibilità di ogni esperienza umana ad una legge, la cui misura è prestabilita dalla stessa scienza e applicabile sempre e comunque a ciascun caso. Il mancato adeguamento del caso alla regola, che, come abbiamo cercato di dimostrare, è sempre provvisorio e aleatorio, tenuto conto dell’incommensurabilità della misura interna all’oggetto, ovvero alla persona, è vissuto e giudicato come un’ingiustizia. In altre parole, si è tentati di far prevalere sempre la teoria, con le sue leggi universali, sulla pratica, con le sue misure particolari e, per molti versi, inadeguate.

Si è parlato fin qui di medicina e con essa di malattia, che costituisce, almeno etimologicamente, il vivere l’esperienza del male sul proprio corpo, nella sua dimensione psico-fisica. Nondimeno è stata richiamata l’idea di istituzione che porta in sé il germe del male, che abbiamo raffigurato con l’idea, cara alla medicina, della finitezza. Aggiungiamo ora un nuovo concetto, quella della ingiustizia. Il migliore modo per avvicinarsi al concetto dell’ingiustizia, spiega il filosofo francese Ricœur [6-8], è quello del vissuto di un’ingiustizia, quell’esperienza che, almeno una volta nella vita, ha indotto ciascun essere vivente a chiedersi nello sgomento: «Perché a me?». Nell’idea complessa di ingiustizia sono infatti concentrate l’esperienza del male (emblematicamente inspiegabile nell’Antica Scrittura per Giobbe), della disparità di trattamento, della rivendicazione di un atto riparatore del torto subíto, che di solito coincide con l’espiazione della colpa attribuita all’agente e, non ultimo, il giudizio imparziale di una figura terza, il Giudice, che, senza condizionamenti e preconcetti, sia in grado di valutare il caso e di ricreare, almeno teoricamente, le condizioni iniziali di quella parità scalfita dal male inferto.

Così come la medicina sta alla malattia come suo specifico oggetto, altrettanto può dirsi del diritto in rapporto alla giustizia. Può sembrare superfluo affermare che il diritto soffre dei medesimi difetti della medicina. Come la medicina, anche il diritto è sempre alla ricerca del giusto rimedio. Al di là delle leggi positive, delle prove scientifiche, dei precedenti giurisprudenziali, esiste una dimensione incommensurabile del male, al suo interno, di fronte alla quale il diritto stesso rimane silente.

Come afferma il filosofo francese Olivier Abel all’inizio dello scritto intitolato “Justice et mal” [9], il male si caratterizza per due differenti aspetti. Il primo è rappresentato dal fatto che il male si declina sempre al plurale, è proteiforme e la sua concettualizzazione o la sua raffigurazione sotto una sola definizione o immagine seppellirebbero tutte le sue altre manifestazioni nel silenzio, le forzerebbero al silenzio e ciò farebbe ancor più male. Il secondo riguarda la veemenza stessa della reazione, della risposta ad una figura di male, divenuta il male assoluto per un’epoca, una società, un soggetto, che può generare effetti perversi, torti inattesi. L’indignazione veemente o gli stratagemmi più smaliziati contro un male (nemico) prestabilito lasciano senza difesa di fronte ad un male inatteso, che nel combattimento si è fomentato. Peggio ancora: non si può sperimentare questo male inedito finché si continua a combattere contro la figura precedente del male. Ed è così che la catena del male, sempre presente sotto forme differenti e inattese, forma una storia del male, senza la quale non si comprende né la storia della giustizia e neppure la storia umana.

Ed è proprio in ragione della veemenza della risposta, l’indignazione di fronte al male additato a pubblico scandalo (a motivo della drammatizzazione della sofferenza e della mobilizzazione dell’emozione collettiva), che si comprende come nella nostra società, nella quale la notizia è istantanea e la nozione di tempo è abolita, la denuncia è già condanna, e i pubblici poteri sono chiamati con forza a fare subito giustizia sia pure sommaria [10]. La risposta deve essere infatti immediata essendo richiesta una reazione repressiva istintiva di fronte ad un male che sembra infettare la società intera con le sue istituzioni e organizzazioni, mietendo vittime. Il lessico sprona tale tendenza, basta aggiungere l’aggettivo “mala” (malasanità, malagiustizia, malapolitica, ecc.) per suscitare unanime e pregiudizievole indignazione.

Per impedire tale deriva gli organi investiti di pubblici poteri, anche giudiziari, sono chiamati a opporsi ad ogni tentazione di giustizialismo, astenendosi dall’utilizzo di termini gergali dispregiativi che non rendono l’onore dovuto né al diritto né alla medicina (nonché alle istituzioni ad essi deputate), ambedue alla continua ricerca del giusto rimedio al mal-essere dell’uomo nel mondo.

Bibliografia

  1. Legge 8 marzo 2017, n. 24. «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie». Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 64 del 17 marzo 2017
  2. Bove M. Il tentativo obbligatorio di conciliazione nella responsabilità medica. In: La nuova responsabilità civile e medica: aspetti sostanziali e processuali, Struttura formazione decentrata Corte di Cassazione, Roma, 9 maggio 2018. Disponibile online su http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Rel._Bove_-_Art._8_legge_Gelli.pdf (ultimo accesso novembre 2018)
  3. Enciclopedia Treccani. Lemma “Malasanità”. Disponibile online su www.treccani.it (ultimo accesso novembre 2018)
  4. Oxford Dictionaries. Lemma “Malpractice”. Disponibile online su https://en.oxforddictionaries.com (ultimo accesso novembre 2018)
  5. Gadamer HG. Philosophie et médecine pratique. In: Gadamer HG. Philosophie de la santé (traduit de l’allemand par Dautery M). Paris: Grasset et Mollet Editions, 1998 (p. 103-112)
  6. Ricœur P. Le juste. Paris: Ed. Esprit, 1995 (p. 11)
  7. Ricœur P. La critique et la conviction. In: La critique et la conviction. Entretien avec François Azouvi et Marc de Launay. Paris: Hachette, 2001 (p. 182-183)
  8. Pierron JP. Soin, institution et reconnaissance. In: Pierron JP. Ricœur. Paris: Vrin, 2016 (p. 135-150)
  9. Abel O. Justice et mal. In: Garapon A, Salas D (eds). La justice et le mal. Paris: Ed. Odile Jacob, 1997 (p. 113-144)
  10. Garapon A. Droit et morale dans un démocratie d’opinion. In: Garapon A, Salas D (eds). La justice et le mal. Paris: Ed. Odile Jacob, 1997 (p. 185-214)

Refback

  • Non ci sono refbacks, per ora.


Copyright (c) 2018 L'Autore