PM&AL 2019;13(1)1-8.html

Il PDTA-HIV nella gestione del paziente cronicizzato: una proposta di documento condiviso

Rosaria Iardino 1, Alessandro Battistella 2

1 Presidente, Fondazione The Bridge

2 Senior, Centro Studi Fondazione the Bridge

Keywords: HIV; PDTA; Chronicity

Clinical / care pathways in the management of the chronically ill patient with HIV: proposal for a shared document

Pratica Medica & Aspetti Legali 2019; 13(1): 1-8

https://doi.org/10.7175/pmeal.v13i1.1418

Corresponding author

Rosaria Iardino

presidente@fondazionethebridge.it

Disclosure

Gli Autori dichiarano di non aver conflitti di interesse in merito agli argomenti trattati nel presente articolo.


Ricevuto: 9 gennaio 2019

Accettato: 27 febbraio 2019

Pubblicato: 18 marzo 2019

Perché affrontare il tema dei PDTA nell’HIV oggi

La malattia HIV/AIDS ha visto nell’ultimo periodo un radicale cambiamento nelle prospettive di vita delle persone HIV+ e con esso il delinearsi di uno scenario del tutto differente rispetto alle loro esigenze ed aspettative. Nel corso di pochi anni si è passati da una fase emergenziale, in cui la sopravvivenza del paziente era l’obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo, ad una cronicizzazione della malattia, che oggi consente di riflettere sulla qualità di vita delle persone HIV+ che le terapie possono consentire.

In questo contesto, le decisioni che le Regioni possono assumere attraverso la realizzazione di un PDTA-HIV devono tenere conto dei cambiamenti intervenuti in una malattia che ha visto una modifica così radicale delle possibilità di cura delle persone HIV+ e dello scenario complessivo riferito alla patologia. La sopravvivenza dei pazienti, la cronicizzazione, la netta diminuzione del costo delle terapie, l’aumento delle opzioni terapeutiche disponibili anche in caso di fallimento virologico, l’accesso immediato alla cura indipendentemente dal numero dei CD4, la disponibilità di molecole con miglior profilo di tollerabilità, la prospettiva di terapie da assumere con cadenza mensile: le novità che già hanno riguardato l’HIV o che sono dietro l’angolo sono così tante da rendere questa patologia un importante banco di prova del significato e dell’utilità di un PDTA.

L’importanza di un approccio diagnostico terapeutico innovativo nell’ambito dell’HIV dipende, inoltre, dalla radicale modifica delle aspettative dei pazienti e dalle ripercussioni, anche economiche, che decisioni su un PDTA-HIV potrebbero avere. Oggi, infatti, una persona HIV+ che assuma correttamente la terapia ha la possibilità di svolgere un’attività lavorativa senza alcun tipo di impedimento, può avere una vita relazionale del tutto normale, esprimere liberamente la propria sessualità e, in generale, avere aspettative di qualità di vita analoghe a una persona sieronegativa. Tra le patologie croniche l’HIV, se ben curata, è tra quelle che maggiormente consentono al paziente di ritrovare una qualità di vita appagante. Rimangono ancora problemi legati allo stigma e gravi ritardi rispetto alla prevenzione, ma per quanto riguarda diagnosi e terapie ci sono tutti i presupposti per assicurare alle persone HIV+ una qualità di vita in costante miglioramento.

Sino ad ora, nel nostro Paese, le linee guida sulla gestione diagnostico-clinica delle persone con infezione da HIV e sull’utilizzo dei farmaci antiretrovirali hanno per lo più tenuto nella dovuta considerazione questi elementi, formulando raccomandazioni e statement basati su evidenze scientifiche e cliniche che hanno tenuto in conto i nuovi scenari che i farmaci antiretrovirali consentono di delineare, rendendo sempre più possibile la stabilizzazione dei pazienti HIV+ e la cronicizzazione della malattia.

Nonostante questo, più di recente, alcune Regioni sembrano aver assunto un approccio all’HIV sostanzialmente orientato alla diminuzione della spesa, sviluppando PDTA fortemente indirizzati alla previsione di opzioni terapeutiche di minor costo. Si tratta di un approccio non condiviso da gran parte della comunità scientifica, la quale ritiene che vincolare il percorso terapeutico assistenziale per l’HIV ad obiettivi considerati statici, se non obsoleti, e soprattutto disegnarlo prioritariamente in base ad una logica amministrativo-gestionale finalizzata al contenimento della spesa sanitaria, rischierebbe di far fare al sistema sanitario un passo indietro inaccettabile, allontanando la possibilità di curare al meglio le persone HIV+, con ricadute immediate sulla loro qualità di vita e, indirette, sui costi sanitari e sociali che ciò potrebbe comportare.

Di fronte al rischio concreto di PDTA-HIV fortemente incentrati sul farmaco e finalizzati al risparmio di spesa, una riflessione sul significato di questo strumento gestionale potrebbe essere utile al rilancio di una riflessione complessiva su questa patologia, paradossalmente esposta ad incontrare difficoltà per un eccesso di successi nella cura che, se non adeguatamente amministrati e compresi, potrebbero indurre scelte programmatorie e gestionali rischiose.

Proprio per la specificità della malattia, l’HIV può divenire paradigmatico di un nuovo approccio al PDTA, che tenga davvero conto non solo dei costi e dei farmaci, ma anche della complessità della persona.

L’idea di condividere un documento orientativo di indirizzo di questo tipo è nata non solo dalla constatazione di una crescente distanza tra le linee guida per la cura dell’HIV definite dalla comunità scientifica e alcune disposizioni regionali sui percorsi diagnostico terapeutici, talvolta eccessivamente incentrate su regole finalizzate al mero risparmio economico, ma anche dalla consapevolezza che il nuovo quadro complessivo riferito all’HIV comporta la necessità di presidiare con attenzione il problema della gestione del paziente sieropositivo cronico, sempre più spesso anziano e affetto da più patologie.

Che iniziativa ha preso Fondazione e perché

Fondazione the Bridge è nata con il preciso intento di sviluppare collegamenti tra i diversi stakeholder, colmando la distanza culturale che spesso caratterizza chi, con diversi ruoli, deve affrontare le difficili sfide che la sanità oggi pone.

Da tempo Fondazione è impegnata ad evitare che l’HIV venga relegato al rango di una malattia ormai facilmente curabile, sia perché si tratta di una patologia con una propria complessità che non può essere ignorata, sia perché si tratta di una malattia la cui cura si intreccia in modo indissolubile con il tema dell’invecchiamento della popolazione. Le persone HIV+ fortunatamente oggi invecchiano, e questo pone, e porrà sempre di più, il problema di gestire in questi pazienti l’insorgere di nuove patologie tipiche dell’età, che possono rendere più complessa la gestione della terapia antiretrovirale.

Partendo da questa premessa, e considerando essenziale poter disporre dei diversi punti di vista degli stakeholder coinvolti nella gestione dell’HIV, Fondazione the Bridge ha invitato a sedere intorno a un tavolo alcuni tra i massimi esperti italiani nella cura dell’HIV, per approfondire il tema del PDTA-HIV partendo da un approfondimento di quanto avvenuto nelle poche Regioni che già si sono dotate di questo strumento. L’attenzione è stata focalizzata in particolar modo sui PDTA-HIV prodotti in Lombardia e in Veneto, due Regioni che, non avendo l’urgenza di ripianare deficit sanitari, sono più libere sotto il profilo della spesa e degli investimenti nella Salute.

Il gruppo di lavoro ha coinvolto clinici, responsabili di alcuni dei centri di infettivologia con più pazienti HIV+ in cura, esperti di politiche sanitarie, farmacoeconomisti, rappresentanti dei pazienti, farmacisti ospedalieri, psicologi clinici.

Dal punto di vista metodologico, l’iniziativa di Fondazione the Bridge sul PDTA-HIV si è sviluppata secondo un approccio che caratterizza il suo operato:

  • mettere le istituzioni e i soggetti decisori in grado di conoscere il punto di vista di più stakeholder, sviluppando riflessioni e approfondimenti che vengono poi sintetizzati in documenti propositivi;
  • coinvolgere decisori e stakeholder in una fase antecedente alla decisione organizzativa o gestionale da assumere, per consentire lo sviluppo di proposte in fase di definizione della politica, evitando di intervenire criticamente una volta presi i provvedimenti;
  • non limitare l’approfondimento a singole esperienze, ma svolgere confronti, in questo caso tra due Regioni tra le più avanzate nella cura dell’HIV, per capire vincoli e opzioni gestionali percorribili;
  • dare voce a chi non è al centro dei processi di cura, nel caso dell’HIV per esempio i bambini, le persone transessuali, gli anziani.

Con questa impostazione condivisa, il gruppo di esperti ha lavorato per supportare le istituzioni regionali in un’analisi complessiva sull’organizzazione del modello di cura dell’HIV, proponendo alcune riflessioni sulla gestione del paziente ormai da considerarsi cronico; per questo motivo, il punto di parenza della riflessione è stato individuato negli orientamenti che, riferendosi al Piano Nazionale della Cronicità del 2016, sono in corso di definizione nelle Regioni relativamente al nuovo approccio organizzativo e gestionale di alcune malattie croniche.

Finalità del lavoro è stata la stesura di un documento condiviso che possa divenire un punto di riferimento, uno strumento di orientamento e una guida per la definizione dei PDTA–HIV nelle Regioni, con l’obiettivo prioritario che l’approccio al paziente HIV+ divenga il più possibile omogeneo e orientato alla qualità di cura e di vita.

Il problema definitorio del PDTA

Dovendo affrontare il problema della gestione del paziente HIV+ cronico attraverso la stesura di un Piano Diagnostico Terapeutico Assistenziale condiviso, la prima necessità cui il gruppo di lavoro ha dovuto far fronte è stata l’individuazione di una definizione di PDTA che trovasse tutti i partecipanti concordi. Questo perché non esiste un’unica definizione di PDTA, problema che caratterizza molti sistemi sanitari che ricorrono ad uno strumento programmatorio di questo tipo.

I piani terapeutici, o diagnostico terapeutici, o diagnostico terapeutici assistenziali sono utilizzati in molti Paesi e sono conosciuti con terminologie tra loro differenti, che indicano approcci complessivi al tema della regolamentazione e omogeneizzazione dei percorsi di cura piuttosto differenti tra loro [1,2].

A livello internazionale una prima definizione, datata 1994, cui si fa spesso riferimento è la seguente: «Schedules of medical and nursing procedures, including diagnostic tests, medications, and consultations designed to effect an efficient, coordinated program of treatment» [3]. In seguito, nel 2005, un consensus meeting ha definito i PDTA una «metodologia mirata alla condivisione dei processi decisionali e dell’organizzazione dell’assistenza per un gruppo specifico di pazienti durante un periodo di tempo ben definito» [4].

Nelle varie definizioni di PDTA, si sono susseguite proposte tra loro assai diverse [5] che danno una chiara idea di come lo strumento sia frutto di approcci complessivi ai pazienti e ai percorsi terapeutici non uguali: prendendo come esempio solo alcune delle definizioni che nel tempo e nei diversi Paesi si sono succedute, appare evidente come parlare di regolazione di un “percorso critico” sia cosa ben diversa da parlare di “percorso assistenziale”, così come un “percorso di assistenza integrata” sia diverso da un “piano di gestione dei casi”, e un “percorso clinico” e una “mappa di assistenza” appaiano immediatamente come due cose non sovrapponibili. In questa pluralità di definizioni, la scelta di una definizione di PDTA è essenziale per procedere a definirne i contenuti.

Un’analisi della letteratura ha identificato come, al di là della terminologia non omogenea, peraltro sostenuta da approcci diversi al problema, esistano in letteratura opinioni diverse anche sull’impatto stesso dei PDTA [6].

Nel nostro Paese, alla indeterminatezza definitoria dello strumento si aggiunge una diversa interpretazione anche del livello istituzionale chiamato a redigere e far applicare i PDTA. Un’indagine condotta nel 2016 nelle Regioni italiane [7] ha evidenziato come i Piani Diagnostici Terapeutici Assistenziali siano diversamente interpretati a seconda dell’istituzione chiamata a redigerli. Esistono al riguardo almeno due differenti approcci di base: uno che vede la Regione come estensore del PDTA e un altro che porta l’estensione del PDTA a livello delle singole realtà aziendali; in realtà, in questi casi il PDTA regionale non viene sostituito da quello aziendale, ma quest’ultimo viene a specificare ulteriormente gli approcci terapeutici e assistenziali disponibili a livello aziendale [7].

Consapevole di questa indeterminatezza definitoria, nel cercare un approccio condiviso al PDTA-HIV, il gruppo di lavoro è partito da alcuni elementi certi riferiti nello specifico al nostro Paese.

Previsto dalla Legge finanziaria del 1996, il Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale è uno strumento finalizzato ad assicurare le prestazioni previste dai LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, secondo criteri di appropriatezza. Si tratta di uno strumento basato sull’evidenza scientifica e caratterizzato da una forte valenza organizzativa, finalizzato a definire il percorso terapeutico di un gruppo “omogeneo” di pazienti. In questo senso rappresenta uno strumento di corretta adozione delle Linee Guida. Esso si delinea come una trasposizione, nel concreto, di come debbano essere modellati alcuni servizi per alcune tipologie di pazienti.

Tutti i partecipanti al tavolo di lavoro hanno concordato sul definire l’obiettivo di un PDTA nell’incrementare la qualità dell’assistenza migliorando l’outcome dell’approccio terapeutico, promuovendo la sicurezza dei pazienti, aumentando la soddisfazione dell’utenza ed ottimizzando l’uso delle risorse.

Volendo, inoltre, evidenziare l’importanza dell’elemento processuale e di quello assistenziale nel suo significato più ampio, la definizione di PDTA che ha raccolto consenso tra i partecipanti al gruppo di lavoro è la seguente: «Percorso assistenziale definito come piano multidisciplinare e interprofessionale relativo ad una specifica categoria di pazienti in un determinato contesto, che utilizza indicatori di processo e di esito».

Rispetto poi all’ambito di realizzazione del PDTA, se nazionale, regionale o a livello di Azienda ospedaliera, l’esistenza di orientamenti assai diversificati nella gestione dell’HIV, nonostante chiare ed univoche linee guida proposte dalla comunità scientifica, suggerisce che i PDTA-HIV siano declinati a livello regionale, con indicazioni operative semplici e di facile realizzazione, essendo questo il livello massimo di omogeneità di regolazione e gestione oggi possibile.

Aspetti essenziali di un PDTA-HIV

Chiarita la natura gestionale e sistemica dello strumento, il Gruppo di lavoro ha condiviso alcuni aspetti essenziali nella definizione di un documento di indirizzo per la stesura di PDTA per l’HIV.

Il primo è l’orientamento gestionale del documento: un PDTA deve definire con chiarezza ambiti e percorsi di cura del paziente, soprattutto nel caso dell’HIV, patologia che sta vivendo un momento di profondo ripensamento.

Un secondo elemento è la necessità di coniugare qualità terapeutica e sostenibilità del sistema, nella consapevolezza del peso economico che l’HIV ha per alcuni SSR.

Il terzo elemento da valutare essenziale in un PDTA è l’orientamento a considerare centrale nel processo di cura il benessere del paziente, che si declina diversamente nelle diverse fasi della sua vita e della cura della patologia.

In questo senso la riflessione del gruppo di lavoro si è sviluppata a partire da tre diritti considerati essenziali nella cura delle persone che vivono con l’HIV, declinandoli in raccomandazioni per la definizione dei PDTA–HIV:

  • l’accesso universale alla cura dell’HIV;
  • l’appropriatezza terapeutica;
  • la continuità della cura.

Garantire questi tre diritti comporta specifiche scelte programmatorie e gestionali da parte delle Regioni che si trovano a dover gestire due questioni fondamentali e in parte potenzialmente sinergiche: assicurare nel tempo la sostenibilità economica della cura dell’HIV, che anche se con forti diminuzioni nel prezzo dei farmaci antiretrovirali rimane una delle voci di spesa più rilevanti per i SSR, e la necessità di assumere un approccio coerente con le nuove caratteristiche della patologia, uscita dalla fase di emergenza e diventata cronicizzabile o quanto meno stabilizzabile.

Partendo da questo orientamento condiviso si è cercato di individuare alcuni elementi essenziali che un PDTA HIV dovrebbe trattare a garanzia dei diritti dei pazienti.

I contenuti essenziali di un PDTA HIV

Un primo elemento a lungo dibattuto dal gruppo di esperti ha riguardato la gestione del paziente HIV, ed in specie del paziente HIV cronico, tipologia di persona HIV+ in cura ormai prevalente.

Un orientamento del tutto condiviso dal gruppo di lavoro è che un PDTA-HIV debba precisare con chiarezza quale sia la modalità di gestione del paziente HIV. Storicamente i pazienti HIV+ hanno avuto nell’infettivologo un punto di riferimento essenziale per ogni problematica sanitaria di un certo rilevo. È sempre stato l’infettivologo a gestire le diverse problematiche che l’HIV poteva far sorgere nel paziente, coordinandosi ove necessario con specialisti delle diverse discipline. Questo modello, un tempo assolutamente essenziale per la rischiosità e complessità della patologia, è unanimemente considerato uno dei motivi dei successi nella cura dell’HIV che il nostro Paese può legittimamente riconoscersi.

Oggi questo approccio organizzativo comincia tuttavia ad essere messo in discussione, per due diversi motivi.

Innanzitutto si consideri la maggiore semplicità di gestione della terapia, che per alcuni comporterebbe la necessità di minori competenze specialistiche ed una possibile presa in carico da parte di medici non infettivologi; il secondo riguarda l’aumento esponenziale delle comorbilità nei pazienti HIV+, che, con l’invecchiamento, si trovano ad affrontare malattie un tempo meno presenti, con la conseguenza per altri specialisti di dover gestire un complesso percorso di cura.

La normativa sulla cronicità, e le sue declinazioni regionali, ove esistenti, pongono al centro del dibattito organizzativo sull’HIV il problema di chi debba gestire il paziente “cronico sieropositivo”, o “cronico e sieropositivo”. La differenza tra le due definizioni è da un punto di vista linguistico minima, ma nasconde la vera essenza del problema della cronicità nella persona HIV+: se l’HIV connoti tutta la storia clinica del paziente, come sino ad oggi è avvenuto, o se l’HIV si inserisca come una delle cronicità possibili in un paziente.

Un PDTA-HIV deve partire da questa decisione di fondo, e tutti gli esperti hanno assunto al riguardo una posizione unanime: oggi, e almeno per il prossimo futuro, ogni paziente HIV+ dovrà essere gestito, dal punto di vista terapeutico, da un’Unità Operativa di Malattie Infettive. La specificità della malattia e la necessità di affrontare tempestivamente possibili cambiamenti nella situazione del paziente HIV+ rendono necessario mantenere valido l’attuale modello di cura, affidando all’infettivologo la responsabilità della gestione complessiva della persona sieropositiva. Una presa di posizione chiara, che raccoglie quanto di positivo è stato fatto in passato e lo inserisce in una situazione in cambiamento. Durante la discussione in gruppo è stato più volte ribadito come non sia opportuno modificare l’attuale assetto organizzativo, ma che sarebbe al contrario molto interessante riproporlo rispetto ad altre patologie croniche, dati gli ottimi risultati ottenuti con l’HIV.

Per garantire la continuità di cura, nel definire il modello di gestione dei pazienti cronici, un PDTA-HIV dovrebbe quindi prevedere che la Regione affidi la presa in carico del paziente HIV+ all’Unità Operativa di Malattie Infettive anche nel caso di pazienti affetti da più patologie rilevanti sul piano clinico. In una logica di integrazione incentrata sulla persona in cura, nel seguire il paziente l’infettivologo potrà avvalersi della consulenza di altri specialisti per la gestione di altre patologie, correlate all’HIV o del tutto indipendenti da esso. Questo non solo nel caso dei pazienti in cura da anni, che di solito hanno una relazione di fiducia fortemente connotata a livello relazionale con il medico curante, ma anche nel caso di nuovi pazienti HIV+, in cui la relazione con il medico infettivologo è di solito molto meno stretta, ma in cui la complessità della patologia è la medesima.

Per assicurare l’appropriatezza della cura, la fase acuta di patologie non correlate all’HIV, potrà essere gestita dallo specialista che eroga la prestazione prioritaria, salvo il ritorno del paziente in carico all’Unità Operativa di Malattie Infettive una volta risolta o stabilizzata la situazione.

Chiarito questo approccio di fondo nella gestione della patologia, passaggio ineludibile di un PDTA, sono stati analizzati altri elementi essenziali che un PDTA-HIV dovrebbe trattare.

Accesso alle cure

Il tema dell’accesso alle cure ai pazienti HIV+, che evidentemente deve sempre essere garantito, è opportuno sia inteso nei PDTA nell’ampia accezione di accesso alle terapie ottimali per ogni paziente, con la possibilità di utilizzo di terapie innovative laddove ritenute indispensabili.

Questo approccio rende evidente come l’eventuale utilizzo del PDTA–HIV come mero strumento di contenimento della spesa sanitaria sia considerato uno snaturamento dello strumento stesso. Oggi esistono farmaci per la cura dell’HIV assi diversi tra loro, molecole ancora utilizzabili di vecchia generazione, evidentemente più economiche, e farmaci più nuovi che presentano vantaggi terapeutici ulteriori rispetto alla capacità di bloccare la progressione della malattia. Il PDTA non può essere uno strumento finalizzato ad indurre i clinici ad utilizzare sempre e solo farmaci più economici al di là dell’effetto che questi hanno sul singolo paziente, soprattutto in una patologia in cui il benessere complessivo della persona HIV+ incide fortemente sulla aderenza alla terapia, e quest’ultima sulla efficacia della cura.

Al fine di assicurare il rispetto del diritto di accesso, così inteso, alla cura per tutti le persone HIV+, le Regioni attraverso i PDTA-HIV dovranno assicurare standard di cura che rendano disponibili al paziente tutti i farmaci e tutti i regimi di monitoraggio e diagnostica ritenuti necessari, indipendentemente dal loro costo, utilizzando come unica regola l’appropriatezza della cura scelta dallo specialista.

Questo orientamento è necessario per perseguire due obiettivi essenziali: ottenere il maggiore benessere possibile per la persona HIV+, un passaggio culturale importante oggi che si è usciti dalla fase emergenziale per entrare in quella della cronicizzazione, ed evitare che nell’offerta di diagnosi e cure da parte delle Regioni si vengano a creare, come oggi purtroppo ancora avviene, situazioni in cui in alcuni territori determinate terapie e/o supporti diagnostici siano preclusi o limitati.

Appropriatezza della cura

Individuando nell’appropriatezza della cura l’elemento chiave per la scelta dell’approccio terapeutico seguito da parte dello specialista, assume particolare rilevanza definire come questo concetto debba essere inteso e declinato in un PDTA–HIV.

È opinione del gruppo di esperti che il concetto di appropriatezza debba essere sviluppato partendo dall’impegno del medico curante nel prescrivere tutto ciò che è necessario per la persona HIV e niente di più del necessario, secondo l’assunto che l’appropriatezza si basi su “risultati di un processo decisionale che assicura il massimo beneficio netto per la salute del paziente, nell’ambito delle risorse che la società rende disponibili”, opinione in linea con quanto trattato nel Manuale di formazione per il governo clinico riferito all’appropriatezza a cura del Ministero della Salute [8]. L’appropriatezza dovrà rappresentare l’elemento chiave nella programmazione della cura dell’HIV; in questo senso il PDTA avrà valore di orientamento e indirizzo per l’infettivologo, lasciandogli la possibilità di adattare al caso specifico i percorsi diagnostici terapeutici personalizzati.

Un elemento essenziale dell’appropriatezza è legato all’utilizzo delle risorse: in questo senso al fine di mantenere sostenibili e in equilibrio nel tempo i sistemi sanitari regionali, i PDTA-HIV, pur mettendo a disposizione tutte le terapie disponibili, dovranno richiamare la necessità che, a parità di efficacia e tollerabilità, il medico faccia ricorso alla terapia meno costosa. Nell’ambito della appropriatezza va quindi considerato anche l’utilizzo del farmaco generico, qualora il piano terapeutico lo preveda.

Efficacia della terapia

Un orientamento importante, condiviso dagli esperti del gruppo di lavoro, è che proprio in considerazione della centralità del concetto di appropriatezza terapeutica, il PDTA non dovrà dare indicazioni riferite unicamente all’efficacia del farmaco antiretrovirale, ma anche a elementi quali il benessere complessivo del paziente, la tollerabilità del farmaco non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo e le possibili interazioni con altri farmaci assunti dal paziente.

L’accesso ai farmaci antiretrovirali deve poter garantire nel lungo periodo la massima aderenza al trattamento al fine di mantenere la soppressione virologica. In questo senso è preferibile ridurre al minimo il numero delle compresse, tenendo conto dei sempre più frequenti casi di comorbilità che comportano l’assunzione di più terapie. Ogni iniziativa volta alla scomposizione delle cosiddette “fixed dose combinations”, mancando di solide evidenze cliniche, dovrà quindi essere evitata e comunque mai effettuata senza la condivisione con il paziente. Si tratta di una raccomandazione importante, stante la tendenza in alcune Regioni a promuovere risparmi di spesa anche attraverso questo meccanismo.

Un PDTA-HIV deve contenere indicazioni per la cura e la gestione dell’HIV in pazienti in età pediatrica e indicazioni sulle modalità specifiche di monitoraggio della aderenza alla terapia nei bambini e negli adolescenti. Il tema dell’HIV in età pediatrica o nei pazienti più giovani è un elemento di cronica debolezza del nostro sistema di cura di questa malattia, e l’occasione della definizione di un PDTA-HIV deve essere colta per mettere a regime ogni possibile strategia per migliorare l’accesso e la gestione delle terapie antiretrovirali.

Continuità della cura e retention in care

Nel concetto di continuità della cura il PDTA–HIV deve sviluppare e favorire una visione di lungo, se non lunghissimo, periodo del paziente HIV. Le cure somministrate, la qualità di vita assicurata, la semplicità gestionale della cura dovranno essere pensate in riferimento ad una patologia cronica.

Nel mettere al centro la persona HIV+, i PDTA dovranno considerare come essenziali anche elementi quali la semplicità di accesso a terapie e controlli, o la flessibilità nella erogazione del farmaco, la prossimità del centro di cura, non solo con attenzione alla situazione presente, ma anche al futuro.

Un PDTA HIV è necessario consideri alcune variabili significative.

La prima è la ricaduta che una maggiore qualità della vita del paziente, attraverso l’accesso alle terapie più appropriate, può avere sulla aderenza alla terapia e, quindi, sulla sua capacità di mantenersi in salute sia rispetto all’HIV che a malattie correlate. Questo è in grado di incidere positivamente nel tempo sui costi sanitari diretti, favorendo una sostenibilità di medio-lungo periodo.

Anche dal punto di vista epidemiologico, una maggiore aderenza è in grado di accelerare il processo di eliminazione dell’infezione, grazie ad un maggiore controllo virologico nelle persone HIV+.

Dal punto di vista dei costi sociali della malattia, poter contare su terapie di nuova generazione in grado di migliorare la qualità della vita dei pazienti, comporta effetti positivi sui costi indiretti dell’HIV legati al miglioramento della capacità professionale, alla maggiore possibilità per i pazienti di investire sul loro futuro, alla minore esigenza di un supporto assistenziale.

Nel porre attenzione al paziente ispirandosi alla logica di un’infezione cronica, sarà opportuno che venga focalizzato il tema della retention in care, approfondendo i motivi per cui alcuni pazienti non effettuano regolari follow-up, non assumono la terapia, o non la assumono regolarmente. Una recente ricerca sui motivi alla base dei casi di lost in follow up in pazienti HIV ha evidenziato come nella mancata retention in care le caratteristiche personali del paziente pesino in modo preponderante, con percentuali di interruzione della cura preoccupanti nei pazienti più giovani o extracomunitari, ma anche alcuni elementi organizzativi riferiti alle visite e alla somministrazione dei farmaci incidano in modo significativo sulla disponibilità del paziente di mantenersi aderente alla terapia [9].

Devono quindi essere perfezionati, laddove inadeguati, gli interventi organizzativi in grado di facilitare l’accesso alla terapia, primo fra tutti l’introduzione di una maggiore flessibilità nella dispensazione dei farmaci se richiesta e motivata dal paziente.

Anche il tema delle terapie innovative dal punto di vista delle modalità di somministrazione deve essere trattato da un PDTA-HIV; i farmaci assumibili su base mensile, quando disponibili, giocheranno un ruolo importante nella qualità della vita delle persone HIV e nella possibilità di migliorarne la aderenza alla terapia, e dovranno essere resi disponibili per i pazienti appena possibile, in una logica di valutazione costo-efficacia che consideri non solo il prezzo del farmaco, ma anche le ricadute positive e negative legate ad una maggiore o minore aderenza terapeutica dei pazienti.

Conclusione

Finalità primaria del lavoro era raccogliere, dal confronto tra esperti nella cura e nella gestione dell’HIV, alcuni elementi ed orientamenti organizzativi considerati irrinunciabili nella gestione del paziente HIV+ cronico, al fine di garantire un trattamento che assicuri le migliori cure possibili. L’idea è che oggi più che mai sia importate poter contare, rispetto a questa patologia, su una visione a tutto campo dei nodi da affrontare, assumendo una logica di lungo periodo coerente con i profondi cambiamenti, in positivo, che hanno riguardato la cura di questa malattia.

Il contributo offerto dal gruppo di lavoro viene messo a disposizione dei decisori politici e dei tecnici regionali chiamati a definire le linee di indirizzo per la cura dell’HIV nel prossimo futuro. La speranza è che le riflessioni dei rappresentati della comunità scientifica, non orientate alla difesa di modelli di cura tradizionali ma alla assunzione di un reale approccio costo/benefici, possa essere di interesse per chi dovrà predisporre i futuri PDTA-HIV, con l’evidente auspicio che le tensioni verso un risparmio della spesa di breve periodo, che hanno caratterizzato alcuni provvedimenti regionali, vengano sostituite da una visione prospettica più di sistema.

Ringraziamenti

Si ringraziano tutti i partecipanti al gruppo di lavoro che ha permesso la realizzazione del documento cui fa riferimento questo articolo: Giuliano Rizzardini, Direttore Dip. Malattie Infettive – ASST Fatebenefratelli Sacco Polo Universitario H. Sacco Milano, Responsabile Comitato Scientifico di Fondazione The Bridge; Carlo Federico Perno, Professore Ordinario di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Università degli Studi di Milano, Direttore del laboratorio di Analisi Chimico Cliniche e Microbiologia e Direttore del Dipartimento Medicina di Laboratorio – ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano; Andrea Gori, Direttore UOC Malattie Infettive, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Università di Milano; Adriano Lazzarin, Primario della Divisione di Malattie Infettive IRCCS San Raffaele, Milano; Antonella d’Arminio Monforte, Direttore Clinica Malattie Infettive e Tropicali, Dipartimento di Scienze della Salute ASST Santi Paolo e Carlo Polo Universitario; Vania Giacomet, Responsabile Unità Semplice di Infettivologia Pediatrica presso ASST Fatebenefratelli Sacco Polo Universitario H. Sacco Milano; Carlo Giaquinto, Direttore dell’Unità di Malattie Infettive Pediatriche, Dipartimento della Salute della Donna e del Bambino, Università di Padova; Anna Maria Cattelan, Direttore Unità Operativa Complessa Malattie Infettive e Tropicali, Azienda Ospedaliera di Padova; Davide Croce, Direttore CREMS (Centro di Ricerca in economia e Management in Sanità e nel Sociale), LIUC Università Cattaneo, Castellanza; Umberto Restelli, Economista sanitario presso CREMS (Centro di Ricerca in economia e Management in Sanità e nel Sociale), LIUC Università Cattaneo, Castellanza; Michela Franzin, Farmacista presso IRCCS San Raffaele, Milano; Giovanni Di Perri, Professore Malattie Infettive Università degli Studi di Torino; Marina Malena, Dirigente Medico ULSS 20, Verona; Anna Lascari, Psicologa; Margherita Errico, Presidente NPS Italia onlus; Luisa Brogonzoli, Coordinatrice Centro Studi di Fondazione The Bridge; Eva Massari, Project Leader presso Fondazione The Bridge; Beatrice Nicotera, Ricercatrice Junior Centro Studi di Fondazione The Bridge.

Bibliografia

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  2. Zander K. Integrated Care Pathways: Integrated care pathways: eleven international trends. Journal of Integrated Care Pathways 2002; 6: 101-07
  3. Anderson KL, Anderson LE, Glanze WD (eds). Mosby’s Medical, Nursing, & Allied Health Dictionary (4 ° ed.). St. Louis: Mosby, 1994
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  5. De Bleser L, Depreitere R, De Waele K, et al. Defining pathways. J Nurs Manag 2006; 14: 553-63
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  7. Federsanità-Anci. HIV: modello di cura cronicizzato. Alla ricerca di una maggiore efficienza nella organizzazione e gestione della cura e nella prevenzione. Libro Bianco. Gruppo di lavoro Federsanità-Anci in collaborazione con Simit, 2016. Disponibile online su: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato5760108.pdf (ultimo accesso marzo 2019)
  8. Dipartimento della Programmazione e dell’Ordinamento del Servizio Sanitario Nazionale. Direzione Generale della Programmazione Sanitaria Ufficio III ex D.G. PROGS. Manuale di formazione per il governo clinico: Appropriatezza. 2012. Disponibile online su: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1826_allegato.pdf (ultimo accesso marzo 2019)
  9. Centro studi NPS Italia Onlus. Elementi predittivi di mancata retention in care nei pazienti HIV+. Il punto di vista di medici e infermieri, 2018

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