PM&AL 2011;5(3)95-99.html

La responsabilità dell’ospedale per la somministrazione di farmaci

Elena Albini 1

1 Avvocato, Foro di Milano

Abstract

Malpractice cases may be related to different kinds of errors. Among them, it has been estimated that the poor or incorrect monitoring of adverse events is the leading cause of patients’ injuries in hospitals. Such cases can give rise to litigations where it is difficult to establish responsibilities. The Author discusses the case of a woman who reported a vestibular damage following streptomycin administration. Three sets of proceedings were faced, and different verdicts were returned. The processes focused on the evidence that should be presented by the ASL or by the damaged patient, and on the timing of administration of streptomycin, a known ototoxic antibiotic.

Keywords: Drug administration; Streptomycin; Ototoxicity; Hospital responsibilities

Hospital responsibility for drug administration

Pratica Medica & Aspetti Legali 2011; 5(3): 95-99

Introduzione

Caratteristiche

Eventi avversi prevedibili

Eventi avversi non prevedibili

Pazienti

Età media

39,5 anni

50,1 anni

Sesso (donne/uomini)

60%/40%

49%/51%

Setting

Ospedaliero

47%

49%

Ambulatoriale

53%

51%

Gravità

Significativa

17%

26%

Severa

36%

29%

Rischiosa per la vita

31%

29%

Fatale

16%

17%

Tabella I. Caratteristiche dei casi di malpractice legati agli eventi avversi da farmaci derivanti da un’analisi condotta negli USA su 2.040 casi. Modificata da [2]

La terapia farmacologica nel senso più ampio del termine è un processo di azioni che avvengono prima, durante e dopo la somministrazione di un farmaco. Esistono, infatti, diversi passaggi, ognuno dei quali può essere fonte di errore:

  • scelta del trattamento;
  • prescrizione del farmaco, che deve tenere conto delle potenziali interazioni con farmaci già assunti dal paziente;
  • eventuale preparazione del farmaco;
  • identificazione del paziente che deve ricevere il farmaco;
  • somministrazione del farmaco;
  • monitoraggio di possibili effetti collaterali.

Se l’errore non viene corretto nel corso degli step successivi, può causare un danno al paziente.

Negli ospedali la principale causa di danno è costituita dagli eventi avversi da farmaci [1].

Rothschild e colleghi hanno condotto uno studio mirato a stabilire quale fosse l’incidenza di errori correlati ad eventi avversi da farmaci e quali le loro caratteristiche. In Tabella I sono riportati gli esiti di tale analisi, da cui si evince principalmente come le conseguenze per i pazienti possano essere gravi [2].

Oltre alle evidenti ripercussioni sulla salute del paziente, il mancato o errato monitoraggio degli effetti collaterali di un farmaco può avere delle sequele a livello giudiziario. Tali casi, inoltre, sono spesso di non facile soluzione, sia per la complessità farmacologico-clinica spesso sottesa, sia per l’elevato numero degli attori potenzialmente coinvolti nella somministrazione (medico, infermiere e, in alcuni casi, anche lo stesso paziente), nonché i diversi livelli di responsabilità rintracciabili (medico, ASL, ospedale, ecc.). Di seguito è riportato un caso giudiziario esemplificativo.

La vicenda giudiziaria

La suprema Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata in merito a un caso di malpractice relativo alla somministrazione di un farmaco in una struttura ospedaliera pubblica. Il caso, deciso dalla sezione III della Cassazione Civile con la sentenza n. 20954 del 30.9.2009, è il seguente.

Nell’anno 1990, una paziente ha convenuto in giudizio una ASL presso il cui ospedale era stata ricoverata a causa di una broncopolmonite basale sinistra con reazione pleurica trattata con streptomicina (ma, recte, “streptochemicetina”). La donna richiede la condanna al risarcimento dei danni subiti per la lesione del labirinto posteriore destro diagnosticatale successivamente, nel corso di altro ricovero ospedaliero, cui era stata costretta dalla sindrome vertiginosa da cui era affetta, e che ha affermato essere stata causata dalla somministrazione del farmaco in questione, effettuata nell’ospedale convenuto, senza la necessaria diligenza.

La ASL convenuta ha resistito in giudizio negando il nesso causale tra la lesione del labirinto e la somministrazione di streptomicina, in quanto ha sostenuto che la somministrazione sarebbe stata diligentemente effettuata nella quantità iniziale di 2 g al giorno e successivamente a dose dimezzata.

Streptomicina

Streptomicina è un antibiotico che appartiene alla classe degli aminoglicosidi; si conosce ormai da tempo l’ototossicità di questa classe di farmaci, che agiscono sulle cellule ciliate cocleari o su quelle vestibolari, a seconda del singolo principio attivo. Streptomicina, così come anche gentamicina, è un farmaco fondamentalmente vestibulotossico, cioè in grado di distruggere o danneggiare la struttura e la funzionalità delle cellule ciliate del labirinto e le loro connessioni al sistema nervoso centrale. Nello specifico, sembra che streptomicina causi la necrosi delle cellule ciliate vestibolari soprattutto nell’epitelio della crista ampullaris, e che danneggi anche utricolo e sacculo. A livello sintomatologico, ciò si traduce nell’insorgenza di vertigini, atassia e/o nistagmo [3].

Sentenza di I grado

Il Giudice di primo grado, avvalendosi della perizia del Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) preposto, ha rigettato la domanda della paziente in quanto la stessa non ha fornito prove riguardanti il fatto che streptomicina le fosse stata somministrata anche dopo l’insorgenza della sindrome vertiginosa. Infatti, benché la paziente avesse ricevuto il farmaco a dosaggio pieno per tre giorni dopo la defervescenza, il CTU ha giudicato che i medici potessero essere considerati colpevoli solo se streptomicina non fosse stata sospesa dopo che la paziente aveva riportato il sintomo.

Il tribunale, però, ha compensato le spese, giudicando che, pur in assenza di colpa, il danno fosse stato indubbiamente causato dalla terapia farmacologica con streptomicina.

Avverso la sentenza di primo grado, avvenuta nel 2004, la paziente ha proposto appello.

Sentenza di II grado

La Corte d’Appello adita – con l’ausilio di due supplementi di perizia tecnica – ha respinto nuovamente la domanda della paziente, argomentando che la medesima non ha dimostrato (come, invece, si assumeva suo onere da parte della Corte) di aver comunicato al personale sanitario che i disturbi dell’equilibrio si erano manifestati prima della sospensione del farmaco. Per questo motivo la Corte d’Appello nella sentenza, emessa nel 2005, ha anche condannato l’appellante alle spese in favore della ASL subentrata.

La Corte d’Appello ha rilevato che nella cartella clinica non erano presenti informazioni riguardanti la sintomatologia avvertita dalla paziente, mentre ella aveva affermato, sin dalla domanda introduttiva del giudizio di primo grado, di aver avuto vertigini fin dal momento in cui era stata dimessa dall’ospedale. Inoltre la paziente appellante sosteneva di aver informato inutilmente e continuativamente il personale sanitario riguardo al disturbo: ma, poiché il medico che aveva prescritto streptomicina era in ferie in quel periodo, nessun altro medico in servizio si è assunto la responsabilità di sospendere l’antibiotico, che pertanto è stato somministrato fino al momento del ritorno dello stesso. La Corte d’Appello ha invece giudicato che tale tesi della paziente non fosse convalidata dalla consulenza otorinolaringoiatrica (ORL) cui era stata sottoposta.

Su ricorso della paziente, la decisione della Corte d’Appello è stata sottoposta infine all’attenzione del Supremo Collegio.

Sentenza di III grado

La paziente ha contestato la decisione della Corte d’Appello, affermando che fosse fondata solo sulla mancanza di prova che streptomicina fosse stata somministrata in presenza di sindrome vertiginosa, senza tener conto del dato certo riguardante l’avvenuta somministrazione dell’antibiotico per dieci giorni, anche dopo la scomparsa della febbre. Il CTU aveva invece affermato che:

  • il prolungamento della somministrazione di streptomicina dopo la defervescenza (a pieno dosaggio e poi a metà dosaggio per altri tre giorni) è stato inutile rispetto alla malattia che si voleva curare;
  • in caso di insorgenza di sintomi vestibolari, streptomicina deve essere sospesa immediatamente;
  • in assenza di sintomi vestibolari è necessario somministrarla durante il periodo febbrile e 3-4 dopo la defervescenza;
  • la consulenza ORL “lascia ragionevoli dubbi” in quanto una visita di sei mesi dopo refertava una sindrome vertiginosa da lesione del labirinto posteriore destro di natura verosimilmente iatrogena;
  • è molto probabile che la somministrazione di streptomicina anche dopo i primi sintomi (che la paziente sosteneva di aver comunicato) abbia contribuito ad aggravare il danno, sino alla sua irreversibilità (dopo oltre 10 anni la paziente ne soffriva ancora).  

La Corte di Cassazione ha rilevato che il Giudice territoriale «ha conferito determinante rilevanza alla mancanza di prova, da parte della paziente, di aver comunicato al personale medico o paramedico che gli asseriti disturbi si erano manifestati prima ancora della sospensione della somministrazione del farmaco, ma ha del tutto omesso di considerare che già il […] la febbre era inferiore ai 37 gradi, in un contesto nel quale il nesso causale tra somministrazione del farmaco e le lesioni del labirinto erano ormai accertate, in esito al giudicato interno formatosi sul punto a seguito della sentenza di primo grado».

Inoltre la Corte d’Appello non ha analizzato il problema relativo alla modalità con cui sarebbe stato possibile fornire tale prova, soprattutto dal momento che, secondo la paziente, la ASL non le ha indicato i nomi del personale in servizio nei giorni in questione.

Ma, da un punto di vista strettamente giuridico, il problema supera l’aspetto del come la paziente avrebbe potuto fornire la prova ritenuta mancante e investe l’aspetto della distribuzione dell’onere della prova per i casi in cui un paziente, ricoverato in una struttura, assuma di aver subito un danno a seguito del trattamento medico ricevuto.

In questi casi, la natura contrattuale del rapporto tra la paziente e la struttura ospedaliera comporta l’applicabilità della regola posta dall’art. 1218 Codice civile [4], a mente del quale il creditore (paziente), che alleghi l’inadempimento, deve provare solo la sussistenza di nesso causale fra questo e il danno, mentre compete al debitore (ASL) offrire la prova della non imputabilità della sua causa: dunque, dell’assenza di colpa. La Corte ha rilevato altresì che la colpa «va valutata in relazione all’affidamento del paziente nella diligenza del debitore della prestazione sanitaria, nella specie caratterizzata dalla somministrazione di un farmaco di risaputa ototossicità, sicché più ancora che all’intervenuta denuncia dei propri malesseri da parte della paziente avrebbe dovuto aversi riguardo all’avvenuto interpello della stessa sull’assenza di sintomi collaterali, neppure esso annotato nella cartella clinica, costituente documento la cui formazione rientra pur sempre nella totale disponibilità di una sola delle parti del rapporto obbligatorio e le cui eventuali carenze non possono in alcun modo ridondare a carico del paziente» come reiteratamente affermato dalla Corte territoriale.

Sulla scorta degli argomenti sopra riportati, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso rimettendo la causa alla Corte d’Appello per la decisione, anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

Discussione

I punti salienti della sentenza si individuano nell’analisi del rapporto tra paziente ed ente ospedaliero. La sentenza pone l’accento sulla natura contrattuale del rapporto paziente/ospedale con ogni ovvia conseguenza in termini di distribuzione dell’onere della prova tra le parti, per l’ipotesi di contestazione sull’adempimento del contratto da parte di una delle parti interessate.

Il secondo punto di interesse si individua nell’analisi eseguita dalla Corte con riferimento al contenuto della cartella clinica quale documento di formazione unilaterale da parte dell’ospedale, la cui lacunosità – viene detto – non può risolversi in un danno a carico del paziente.

Vediamo più chiaramente i due punti.

Il primo punto di analisi è relativo alla distribuzione dell’onere della prova in giudizio. La questione è estremamente importante in quanto, in base al principio che andiamo a esporre, si individuano gli elementi di prova che le parti devono sottoporre al giudice per dare fondamento alla domanda formulata. Nell’ipotesi in cui una delle parti ometta di fornire la prova cui è onerata, il giudizio viene, infatti, deciso in base all’onere della prova, inadempiuto.

La disposizione generale sull’onere della prova è l’articolo 2697 Codice civile [5]. In base alla norma citata spetta all’attore, pena la soccombenza, provare l’esistenza del diritto che vuol far valere in giudizio; viceversa, una volta provato il fatto costitutivo del diritto, grava sul convenuto la prova delle fattispecie modificative, impeditive o estintive per poter contrastare la pretesa avversaria.

Ne consegue che il punto di partenza dell’indagine sulla distribuzione dell’onere della prova dell’esatta esecuzione della prestazione sanitaria è il disposto dell’articolo 1218 Codice civile [4], relativo alla responsabilità del debitore.

Secondo la tesi prevalente in dottrina e in giurisprudenza, nell’ipotesi di inadempimento totale spetta quindi al debitore dimostrare di aver adempiuto la prestazione dedotta in giudizio.

Tale conclusione è comunemente argomentata in dottrina dalla difficoltà di prova che incontrerebbe il creditore nel dimostrare una circostanza negativa indefinita, e cioè il mancato conseguimento della prestazione.

Le sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 3533/201) hanno quindi stabilito il principio secondo cui la prova del corretto adempimento grava sempre sul debitore.Con tale pronuncia la Suprema Corte, nel comporre un contrasto insorto tra le sezioni semplici in relazione alla prova dell’inadempimento, ha affermato che il creditore che agisca in giudizio a tutela del suo diritto, a prescindere dal rimedio azionato (adempimento, risoluzione e/o risarcimento) deve solo provare la fonte legale o negoziale del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa. Le ragioni che inducono le Sezioni Unite ad accordare prevalenza a tale indirizzo, in precedenza minoritario, sono:

  • il principio di “persistenza presuntiva” del diritto, alla stregua del quale «una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine grava sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo» costituito dall’adempimento;
  • l’identità del fatto costitutivo – l’esistenza dell’obbligazione contrattuale – del diritto all’adempimento, del diritto alla risoluzione e del diritto al risarcimento;
  • il principio di riferibilità o di vicinanza della prova, che «pone l’onere della prova in ogni caso a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento»;
  • infine la difficoltà per il creditore di fornire la prova di un fatto negativo.

Applicando il concetto citato alla responsabilità medica, la giurisprudenza ha affermato il seguente principio: «Consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile».

Nel caso deciso dalla sentenza in analisi, il paziente ha dato la prova del danno (lesione del labirinto) e del nesso causale tra esso e la condotta del personale sanitario (la somministrazione di streptomicina), mentre i sanitari non hanno dato prova dell’assenza di loro colpa nella causazione del danno.

In questo caso, il ricorso è stato accolto dal Supremo Collegio tenendo conto del mancato assolvimento dell’onere della prova da parte della parte processualmente onerata.

Per giungere alla decisione citata, la Corte, come sopra detto, ha analizzato anche il contenuto della cartella clinica sottolineando che trattasi di documento di formazione unilaterale il cui contenuto (lacunosità) non può comportare un danno per il paziente.

Come noto, la cartella clinica è una registrazione dei rilievi clinici, degli indirizzi diagnostici e dei dispositivi terapeutici; è una costante certificazione di ciò che si rileva e ciò che si fa da parte del personale medico e paramedico.

Quanto al contenuto della cartella clinica, la giurisprudenza ha affermato che tutti i medici che concorrono alla cura del paziente sono tenuti, per quanto di competenza, alla corretta compilazione e verifica della cartella clinica.

Le attestazioni contenute in cartella clinica relative alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, in quanto esplicazione del potere certificativo e della natura pubblica dell’attività sanitaria hanno valore di atto pubblico e, come tali, fanno piena prova fino a querela di falso della provenienza della cartella e di tutta l’attività in essa menzionata. Tutti i medici che prestano in qualche modo assistenza al paziente sono tenuti parimenti alla corretta compilazione, per quanto di propria competenza, della cartella clinica; anche nel caso di sanitario interpellato per un consulto, deve ritenersi che esista l’obbligo di partecipare alla redazione della stessa o, comunque, di controllarne la completezza e il contenuto. «Nella valutazione dell’esattezza della prestazione medica valore indiziante è attribuito alla corretta ed esaustiva compilazione della cartella clinica, con la conseguenza che le omissioni imputabili al medico nella redazione della stessa cartella clinica possono rilevare ai fini del nesso eziologico presunto», come afferma la Cassazione Civile n. 5444 del 14.3.2006.

Sempre con riferimento al contenuto della cartella clinica la giurisprudenza costante afferma che la imperfetta compilazione della cartella clinica (la cui corretta compilazione e tenuta compete al sanitario) non può pregiudicare il paziente, nel caso in cui non si possono trarre utili elementi di valutazione della condotta del medico. Se il documento clinico è incompleto possono essere ammesse presunzioni logiche come fonti di prova, così Cassazione Civile n. 11316 del 21.7.2003.

La cartella clinica costituisce quindi una prova documentale che trova ingresso nel processo per l’accertamento delle verità contrapposte dedotte dalle parti con riferimento agli interventi medici e alle terapie cui è stato sottoposto il paziente.

Il Giudice è chiamato a valutare il contenuto del documento sottoposto al suo vaglio per pronunciarsi in merito alle richieste delle parti. In tale scenario, si tiene conto, ovviamente, che la cartella clinica è un documento formato dai sanitari nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, ad esempio, come afferma il Tribunale Roma, 28 gennaio 2002: «Quando la corretta esecuzione di un intervento chirurgico richiede il compimento di una determinata operazione, e questa non risulti dalla cartella clinica, sussiste una presunzione “juris tantum” di omissione a carico del medico, il quale avrà l’onere, se vuole andare esente da responsabilità di provare di avere effettivamente compiuto l’operazione non annotata nella cartella clinica».

Da quanto precede emerge l’importanza della corretta compilazione della cartella clinica che, introdotta nel processo, diviene la prova documentale della esecuzione e della modalità di esecuzione della prestazione contestata in giudizio.

Disclosure

L’Autrice dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.

Bibliografia

  1. Marcon G, Barbiero E. Terapia farmacologica. Rischi, errori e danni. Torino: SEEd, 2007
  2. Rothschild JM, Federico FA, Gandhi TK, Kaushal, R, Williams DH, Bates DW. Analysis of medication-related malpractice claims. Causes, preventability, and costs. Arch Intern Med 2002; 162: 2414-20
  3. Selimoglu E. Aminoglycoside-induced ototoxicity. Curr Pharm Des 2007; 13: 119-26
  4. Codice Civile, art. 1218 “Responsabilità del debitore”
  5. Codice Civile, art. 2697 “Onere della prova”

Corresponding author

Avv. Elena Albini

Studio Legale Pedrazzini Albini

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