PM&AL 2011;5(2)57-64.html

Ruolo e finalità della bioetica nella moderna medicina intensiva: il Gruppo di Studio di Bioetica della SIAARTI

Giuseppe R. Gristina 1

1 Coordinatore Gruppo di Studio Bioetica Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI). Centro per lo Shock e il Trauma. Dipartimento Emergenza Accettazione. Ospedale S. Camillo-Forlanini, Roma

Abstract

The Bioethics Study Group SIAARTI was officially set up in 1999. It was established to meet a need due to the changes in Intensive Medicine caused by the continuous pharmacologic and biotechnologic development in recent years. In fact a problem was posed: to balance the new intervention possibilities and the juridical and moral responsibilities raised by their management.

The main purpose of BSG consists in proposing itself as mediator of a cultural process (1) defining and understanding the moral questions raised by the changes that the whole Intensive Medicine has caused about the birth, the care and the death of human beings; (2) offering to intensivists operative tools – recommendations – to solve, in clinical practice the complicated themes above mentioned.

The present article runs through the moral reflection led by BSG SIAARTI in the last years, and explains the contents of these operative tools through the definition of the theoretic setting that produced them.

Keywords: end of life, intensive care, bioethics

Role and purposes of bioethics in the modern Intensive Medicine: the Bioethics Study Group SIAARTI

Pratica Medica & Aspetti Legali 2011; 5(2): 57-64

Introduzione

Nell’ambito dei moderni sistemi sanitari i reparti di Terapia Intensiva (TI) sono caratterizzati da due funzioni cruciali connesse:

  • l’uso di ingenti risorse tecnologiche, diagnostiche e terapeutiche;
  • la cura dei malati più gravi.

Nella pratica clinica queste funzioni pongono oggi agli intensivisti una questione fondamentale: se è giusto fare sempre tutto ciò che è tecnicamente fattibile o se la loro azione debba ispirarsi anche ad altri principi e criteri.

Uno dei limiti dell’agire clinico in TI riguarda infatti non solo l’imprevedibilità dell’esito di un trattamento, ma anche l’appropriatezza dell’uso di strumenti che potrebbero trasformare in alcuni casi la morte da evento puntuale in un processo prolungato nel tempo o la vita in un qualcosa che il malato stesso potrebbe giudicare non degna di essere più vissuta.

Le dimensioni del problema e i contenuti morali

Due recenti studi definiscono le dimensioni del tema: il primo ci dice che ogni anno, nelle 450 TI dei nostri ospedali, si ricoverano circa 150.000 persone delle quali ne morirà in media una ogni cinque (30.000 decessi per anno; 20% dei ricoveri) [1]; il secondo, condotto sulle scelte di trattamento dei malati alla fine della vita, ci informa che su 3.793 malati morenti osservati in un campione di 84 TI del nostro Paese, la desistenza terapeutica1 era attuata nel 62% dei casi [2].

Queste informazioni contengono un rilevante complesso di questioni morali riguardanti l’esistenza di un diritto a morire, di un dovere di lasciar morire o di aiutare a morire, se questo sia eutanasia, se e quanto sia lecito parlare di direttive anticipate, che cosa si intenda per futilità delle cure.

Questi temi hanno suscitato nella medicina intensiva una triplice riflessione: l’evoluzione scientifica, nel suo incessante processo di definizione prima e di superamento di limiti biologici poi, impone un riesame critico dei principi etici, mostrando che questi possono entrare in conflitto tra loro e che non esiste un principio supremo che definisce il dovere prevalente; che cosa sia bene e giusto fare o non fare in termini clinico-assistenziali nei confronti dei malati morenti in TI; se questo fare o non fare – esito pratico della riformulazione dei principi morali – debba esser sottoposto alle leggi dello Stato oppure se sia possibile ammettere un’area in cui la condotta delle persone sia affidata solo alle regole derivanti dalla responsabilità.

Su un piano filosofico questi temi hanno aperto un dibattito aspro.

Il tema della disponibilità/indisponibilità della vita: quale rilevanza in medicina intensiva?

Il pensiero laico sostiene che i concetti di bene e giusto, quando confrontati con le nuove situazioni prodotte dal progresso scientifico, non trovano una risposta univoca in valori codificati e richiedono uno sforzo elaborativo di nuovi riferimenti etici, nati dalle convinzioni raggiunte dalla coscienza morale dei malati, dei loro cari e dei medici.

Questa tendenza dell’etica medica nasce alla fine degli anni ’70: in mancanza di un riferimento a valori assoluti vengono stabiliti principi generali (autonomia, beneficialità, non maleficialità, giustizia distributiva) da cui derivano norme morali cui bisogna fornire, caso per caso, contenuti e specificazioni ulteriori [3].

Si afferma l’ipotesi di un’etica limitata ad affiancare le persone nell’acquisizione della consapevolezza di essere individui moralmente responsabili.

La relazione medico-malato si riconfigura, e a quest’ultimo è riconosciuto il diritto di scegliere per sé secondo un’autonoma valutazione di rischi, costi e benefici di un trattamento fino a considerarne legittimo il rifiuto.

La conclusione di queste argomentazioni consiste nel ritenere la vita un bene disponibile e la scelta di morire anziché vivere un diritto.

I fautori dell’indisponibilità della vita, invece, correlano questa al principio della sacralità che richiama la sua creazione da parte di Dio [4,5].

Sulla disponibilità o indisponibilità della vita è tutt’ora incentrata la discussione.

A fronte della rigidità del dibattito sul piano teorico, al letto del malato sorgono due rilevanti questioni:

  • se l’etica abbia qualcosa da dire sul tema della fine della vita ai malati che sperimenteranno le nuove condizioni del morire prodotte dallo sviluppo scientifico nelle TI;
  • se l’etica possa offrire risposte ai medici circa i comportamenti da tenere nei confronti dei morenti, garantendo un tessuto connettivo morale sul quale integrare gli elementi di giudizio forniti dalla scienza.

Rispondere a questi quesiti definisce prima di tutto se le questioni pratiche che riguardano la vita e la morte degli esseri umani – non solo le loro scelte ideali, ciò in cui si crede, non solo la forza delle motivazioni che queste scelte ideali forniscono, ma anche i comportamenti che ne derivano – rientrino ancora nella sfera di un discorso etico o se questa risposta debba divenire unico appannaggio del legislatore.

Pertanto, assumere la responsabilità di mantenere lo sviluppo del ragionamento morale ancorato al tema della disponibilità/indisponibilità della vita umana significa minare il nesso tra la molteplicità dei modi con cui una giustificazione morale opera e le azioni che ne deriveranno.

La tentazione è quella di affidare alla normazione giuridica la soluzione per ogni situazione.

Così, in TI, la preoccupazione degli interessi morali sia di chi è candidato a morire sia di chi se ne prende cura rischia di risolversi in una mera procedura tecnica finalizzata a una negoziazione sulle convenienze prevalenti (del medico, del malato, dei suoi prossimi) non più ispirandosi all’uguale considerazione di coloro che sono coinvolti nella condizione della fine della vita.

Cogliendo questi aspetti irrisolti, il Gruppo di Studio di Bioetica (GSB) della Società di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) ha elaborato nel 2003 e nel 2006 due documenti di raccomandazioni che aprono uno spazio ampio alla riflessione morale, attribuendo alla bioetica stessa il ruolo di coscienza critica del sapere e della prassi in ambito clinico intensivistico [6,7].

La bioetica in TI può intendersi allora come il processo culturale con cui si cerca di fornire elementi per una riflessione mirata sia a comprendere le questioni morali originate dai mutamenti che la medicina intensiva ha provocato circa la nascita, la malattia e la cura, sia a fornire strumenti relazionali per costruire, in un contesto clinico di confine, un’alleanza che prevenga la morte o prepari gli attori ad affrontarla.

Questa ricerca è tanto più autentica poiché è proprio nelle TI che i malati e i loro cari, assieme a medici e infermieri, sperimentano poteri e limiti della scienza medica in un rapporto esclusivo il cui taglio non può esser costretto in alcun paradigma ideologico o giuridico.

Si tratta di due diverse tensioni morali – dell’inizio della cura, quando tutto è ancora possibile, e della fine – che si giocano in uno spazio aperto alla relazione umana ma chiuso ad assunti teorici universali, ove si colgono i fenomeni della patologia prima, il sollievo per la guarigione o l’inevitabilità della morte poi.

È solo in questo spazio non coercibile in codici o regolamenti, creato dalla comunione tra esseri umani e governato da diritti morali, che può concepirsi – quando necessaria – la desistenza dai trattamenti medici come atto di cura che, dismesso l’obiettivo di guarire vanificato dalla gravità e irreversibilità della malattia, assume il carico della transizione dalla vita alla morte [8].

La questione delle direttive anticipate e della desistenza terapeutica

Desistere dai trattamenti è una decisione difficile da prendere per qualsiasi medico di TI [9] e lo studio di Bertolini e colleghi sottolinea che per la severità della malattia, per la sedazione e l’analgesia necessarie, i malati di TI non sono in grado di esprimere una volontà (l’81% non può esprimere un consenso all’ingresso in TI, l’88% non può esprimere un consenso al piano di cure) [2].

Ma i risultati dello studio di Bertolini e colleghi dicono anche un’altra cosa di estrema importanza: la desistenza dalle cure intensive nei malati al termine della vita è attuata nelle TI che, a parità di gravità, ottengono i risultati migliori in termini di sopravvivenza, mentre è nei i centri con uno standard di cura peggiore (mortalità più alta) che si attuano più spesso trattamenti sproporzionati per eccesso2 [2].

Questo significa due cose: che è priva di fondamento la tesi della china scivolosa per cui la limitazione delle cure apre la porta al cinismo facendo delle TI luoghi dove si “uccidono” i malati; che esiste una stretta correlazione tra Evidence Based Medicine ed Ethics Based Medicine .

Per questo si avverte oggi una domanda di decisioni chiare e condivise: non per affidare ad altri la responsabilità delle scelte, ma per ricostruire le volontà del malato alla luce dei valori cui egli si è richiamato nella sua esistenza. In sintesi, interpretare la desistenza terapeutica non come decisione medica unilaterale per un singolo ma come scelta clinica ispirata dall’eguale considerazione degli interessi di tutti coloro che sono coinvolti nella speciale condizione della fine della vita.

È qui che si inscrive il tema delle direttive anticipate come strumento che dovrebbe aiutare non certo a conculcare la riflessione, ma a colmare il divario tra possibilità teoriche, fattibilità reale dell’azione clinica e dilemmi etici correlati al tema dell’insistenza-desistenza terapeutica [10].

Così, nella fase più critica della malattia, il contenimento delle aspettative del malato e dei suoi cari è affidato oggi proprio agli intensivisti, mentre il primo obiettivo di un sistema sanitario dovrebbe essere quello di diminuire le aspettative dei cittadini nei confronti di una medicina mitica e salvifica poiché la morte è inevitabile e gran parte delle malattie gravi non può essere guarita [11,12].

In questo senso, in un’epoca di ineludibili limitazioni economiche e di costi crescenti, il criterio di una corretta allocazione delle risorse nel settore della medicina intensiva assume un valore etico stringente in termini di giustizia distributiva. Le Raccomandazioni del GSB SIAARTI del 2003 [6], pianificando l’accesso e la dimissione dalle TI sulla base del rapporto costo/beneficio, coniugano questi concetti ispirandosi al criterio di pratica medica basata sulle evidenze (EBM) espresso da Sackett: «l’EBM costituisce un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del malato» [13].

Il processo delle decisioni condivise: un’alternativa efficace

In linea con numerosi documenti pubblicati da diverse società scientifiche di medicina intensiva in Europa e negli Stati Uniti [14-22] il GSB SIAARTI ha iniziato un percorso culturale che, attraverso la valorizzazione dei processi di comunicazione [7], ha come obiettivo il raggiungimento del rispetto per l’autonomia del malato non più capace tramite il riconoscimento del ruolo centrale svolto dalle famiglie nel contribuire alla definizione di un processo clinico-assistenziale commisurato ai valori cui egli si è ispirato nella sua vita, e perciò alle sue preferenze, piuttosto che alle preferenze dei medici.

Un approccio decisionale, quindi, fondato sulla condivisione, alternativo sia a quello unilaterale del medico (paternalismo) sia a quello altrettanto unilaterale della famiglia (totale autonomia), nel quale medici e familiari definiscono insieme il migliore percorso clinico durante il quale sono garantiti conforto e sostegno adeguati alle esigenze di ogni malato e della sua famiglia [23-27].

Il dialogo dovrebbe allora essere caratterizzato da sincerità e coerenza, veridicità e gradualità e condotto utilizzando come parametri di riferimento cinque punti dimostratisi fondamentali per ottenere una comunicazione efficace [23]:

  • interpretare il malato come persona;
  • ascoltare la sua intera rete di prossimità;
  • riconoscere le emozioni dei suoi cari;
  • ispirare le decisioni alle dichiarazioni dei familiari riguardo al sistema valoriale del malato;
  • incoraggiare i membri della famiglia a porre domande.

A riprova, diversi studi hanno dimostrato che una migliore comunicazione fondata su questi presupposti, oltre a coniugarsi a un maggior livello di soddisfazione dei malati e dei loro familiari, si associa anche a più bassi livelli di burn-out nel team curante [28,29].

La scelta delle cosiddette TI aperte, appoggiata dal GSB, contribuisce ad affrontare il notevole impegno umano e morale dei medici, degli infermieri e delle famiglie nei confronti dei malati [30,31].

Il peso delle parole

Così, mentre nelle sedi istituzionali si discute ancora riguardo alle questioni di fine vita, nelle TI italiane la responsabilità morale dei medici garantisce al malato un’attenzione alla dignità e alla sofferenza con assunzioni di responsabilità da cui derivano azioni i cui significati si rinvengono nei nostri documenti ufficiali [6,7] e in studi clinici [2,32,33], testimoniando quanto sia fittizia ogni disputa in merito.

Perché, quando è impossibile far coincidere le aspettative di vita con gli esiti realistici delle terapie, quando una leale dialettica tra medico e malato spinge a limitare le cure, il corretto uso di concetti quali accanimento terapeutico, sospensione della cura, eutanasia, diviene argomentazione etica cogente per le azioni o le non-azioni che ne derivano.

Ma per definire la liceità della desistenza terapeutica, oltre a definire gravità e prognosi della malattia, occorre affrontare, al letto del malato, alcuni temi con forti implicazioni etiche e giuridiche.

È necessario comprendere se la limitazione delle cure come risposta al diritto di morire equivale al concetto di eutanasia, se questa ha qualcosa a che fare con il termine omicidio (eutanasia attiva), se anche il lasciar morire (eutanasia passiva) ha qualcosa a che fare con quel termine.

A queste domande esiste già una risposta: la desistenza che gli intensivisti attuano nel 62% dei casi di cui Bertolini e colleghi ci hanno parlato, chiarendo definitivamente che essa è parte integrante della buona pratica clinica.

Oggi infatti, molti medici di TI sanno che considerare disponibile la vita umana non le toglie gli attributi di sacralità e dignità; che riconoscere sacra la vita umana equivale a rispettare i principi morali cui ciascuno malato si è ispirato; che tale rispetto si può concretizzare anche nel riconoscimento del diritto a morire con dignità [34,35].

I medici di TI sanno che non è possibile negare, in nome di una dignità assoluta, il diritto a chiunque di attribuire significati autonomi a questo termine, perché non esiste un unico modo di dare significati alla dignità, che rappresenta invece il paradigma lungo il quale si declina la vita di ogni singolo essere umano.

I contenuti etici delle nostre azioni dipendono infatti dalla persona che siamo, non dal ricavare l’autorità per i nostri principi morali da una fonte o da un’altra, poiché sono coloro che non affidano a un’autorità esterna la giustificazione dei propri principi morali che possono ricercare in modo aperto ciò che conta per distinguere una condotta morale da una non morale [36].

Gli intensivisti sanno che nel contesto clinico in cui un malato è giunto alla fine della vita i dati di fatto sono:

  • la liceità morale della richiesta del morente di non essere sottoposto a sofferenze;
  • l’irreversibilità del processo del morire scientificamente verificata;
  • il limite sperimentato della cura;
  • l’inutilità della sua prosecuzione;
  • la necessità di rispettare l’autonomia del malato.

La morte di un malato in TI dopo un lungo periodo di trattamenti mostratisi inutili e dopo la loro sospensione concordata con lui o con i suoi cari non è percepita allora come un omicidio: è semmai una sconfitta.

Per esprimere un giudizio che qualifichi il lasciar morire occorre quindi conoscere le caratteristiche dell’atto, il motivo che spinge a compiere l’azione, la richiesta del malato; soltanto questi fattori aggiuntivi permettono di collocare l’atto su un piano di coordinate morali, consentendone la distinzione dall’uccidere.

Così, il confine tra i significati dei termini desistenza terapeutica ed eutanasia si riduce al contenuto emotivo negativo che la parola evoca, derivante dall’uso fattone dalla Germania nazista per giustificare un genocidio condotto in nome della razza ariana [37].

Se liberiamo eutanasia dal suo retaggio storico recente, sgombriamo il campo da un ostacolo a comprendere che sono i giudizi morali che definiscono le azioni come giustificabili o ingiustificabili e che determinano in che cosa consista desistere dai trattamenti o uccidere.

Così, l’eutanasia torna al suo primo significato: morte dignitosa, senza sofferenza.

Allora, se sul piano teorico ha senso distinguere tra eutanasia attiva volontaria (atto con il quale si aiuta a morire una persona che, affetta da una grave malattia e vicina alla morte, ne fa richiesta in modo consapevole), eutanasia involontaria (atto con il quale, sulla base di direttive anticipate, si aiuta a morire una persona non più competente), omicidio (uccisione non voluta dalla persona consapevole che viene fatta morire) ed eutanasia passiva (far sì che la morte sopraggiunga a seguito della sospensione o non erogazione delle cure) [38], sul piano clinico pratico tale distinzione è del tutto inutile alla comprensione dei problemi.

Vi è per questo una ragione individuabile nel fatto che, in linea con le definizioni date, la desistenza terapeutica dovrebbe assimilarsi all’eutanasia passiva; tuttavia, la desistenza porta comunque con sé il significato attivo della decisione di dismettere i trattamenti con l’innegabile effetto di un’abbreviazione del processo del morire. Potremmo allora considerare la desistenza terapeutica come eutanasia attiva volontaria o involontaria; in entrambi questi casi è però vero che desistenza terapeutica non significa provocare la morte somministrando farmaci.

La verità è che, al letto del malato, le parole fino ad oggi utilizzate per spiegare significati e differenze del fare o del non fare sono ambigue, non aiutano a comprendere il paradigma vita-malattia-morte, lasciano in ombra la trama della relazione di cura, e non sembrano reggere alla prova dei fatti.

Esse, con la forza evocatrice di cui sono dotate, servono soltanto ad alimentare lo sterile confronto teorico su disponibilità/indisponibilità della vita.

Ciò che conta invece è la presa d’atto da un lato dell’impossibilità di garantire al malato, tramite guarigione o stabilizzazione, una qualità di vita che egli stesso possa considerare degna di essere vissuta, dall’altro di stare soltanto prolungando sofferenze che non consistono solo nel dolore fisico ma anche in alcuni casi nel panico e nel delirio generati dalla consapevolezza della morte incombente e del disfacimento del proprio corpo [39].

Nella realtà della clinica – attestata l’impossibilità di modificare la prognosi sulla base dell’evidenza scientifica – il non agire corrisponderà all’interruzione di ogni inutile terapia, non essendo alcun medico obbligato a erogare cure che non fanno il bene del malato [40]; l’agire consisterà nel concedere la liberazione dalla sofferenza secondo i canoni della sedazione palliativa [7]3.

In verità, nella pratica clinica intensivistica, l’obiettivo di aiutare una persona a concludere il processo del morire avviato da una malattia grave e irreversibile sospendendo i trattamenti e alleviando la sofferenza va ben oltre la differenza tra eutanasia attiva, omicidio, eutanasia passiva: esso è parte integrante della relazione di cura ed è oggi tra le funzioni istituzionali primarie dei medici di TI [41].

Conclusioni

In conclusione, nella moderna visione maturata dagli intensivisti circa un approccio etico alle problematiche correlate alla fine della vita in TI, vi sono:

  • il ripudio dei processi del morire segnati da continue sofferenze indotte da trattamenti giudicati ormai futili;
  • la consapevolezza che tali sofferenze sono evitabili tramite analgesia e sedazione alle dosi necessarie cui non può esservi limite;
  • la negazione dell’idea, in sé contraddittoria, per cui la morte debba intervenire in modo naturale poiché in TI il morente è accompagnato con l’uso di apparecchiature e farmaci e perciò in modo innaturale;
  • la consapevolezza che la desistenza terapeutica nel malato al termine della vita è un atto clinicamente appropriato ed eticamente doveroso.

È per questo che le Raccomandazioni SIAARTI per l’Approccio al Malato Morente prevedono la sospensione dei supporti vitali dopo aver condiviso la scelta con il malato o con un suo rappresentante [7].

Oggi questo travagliato percorso culturale, mediato dal GSB della SIAARTI, ha prodotto, nella gran parte dei medici di TI, la consapevolezza che la morte, parte integrante e ineludibile della vita, interviene a causa della malattia; che è possibile sospendere o non erogare i trattamenti inutili accettando la sostanziale equivalenza etica delle due opzioni; che non esistono trattamenti ordinari o straordinari, ma solo trattamenti utili o inutili; che non ha senso parlare di accanimento terapeutico, contraddizione in termini che genera soltanto confusione; che invece sarebbe più appropriato parlare di trattamenti futili in quanto considerati sproporzionati dal malato stesso oltre che dal medico.

Ma se si riconoscono al malato il diritto morale di morire e al medico l’eticità della desistenza terapeutica, non è più possibile sostenere che il ruolo primario degli intensivisti sia quello di mantenere sempre e comunque in vita pena l’applicazione di ben precise sanzioni, e sia più forte del diritto del malato a morire.

Non è in questione il principio di beneficenza implicito nella funzione del medico, ma l’accettazione della necessità di adattare i doveri imposti dalla professione al continuo divenire della pratica medica.

Il nuovo Codice di Deontologia ha recepito questo principio [42] e sono proprio i medici di TI – quelli che dispongono oggi della più ampia e potente gamma di mezzi terapeutici – ad aver compreso per primi l’importanza di finalizzare la desistenza terapeutica alla semplice offerta di un aiuto ad affrontare la morte.

Il GSB della SIAARTI ha fatto propri questi contenuti e li ha sintetizzati nel documento di raccomandazioni del 2006; in esso sono contenute molte risposte alle questioni trattate:

  • è doveroso non prolungare il processo del morire;
  • ogni volontà del malato sulla limitazione delle cure sarà tenuta in massima considerazione;
  • in mancanza di dichiarazioni anticipate e nell’impossibilità del malato di comunicare, la decisione di limitare un trattamento intensivo e la relativa responsabilità degli atti che ne conseguono spettano al medico; egli svolge un ruolo di sintesi acquisendo ogni informazione sulle volontà del malato, le sue convinzioni religiose e culturali. Confrontando tali informazioni con la propria valutazione sul migliore interesse per il malato alla luce delle prospettive terapeutiche, adotterà la decisione più vicina alla realizzazione della volontà del malato;
  • la palliazione deve alleviare i sintomi del processo del morire e garantire fino all’ultimo la migliore qualità di vita;
  • nel malato al termine della vita la sedazione e l’analgesia ai dosaggi necessari a eliminare il dolore e la sofferenza sono sempre clinicamente appropriate ed eticamente doverose.

In un’epoca di grandi e consolidate conquiste scientifiche poste al servizio della nascita e della vita dell’uomo, il GSB della SIAARTI ritiene che il proprio mandato consista principalmente nel profondere il maggior impegno possibile nel valorizzare la relazione di cura attraverso un processo di miglioramento continuo della comunicazione in un’ottica di decisioni condivise con i malati e i loro cari, per restituire all’esperienza della malattia e della morte il ruolo che hanno come parte integrante della vita.

Questo sarà però possibile solo accettando un dialogo tra pari, che significa responsabilità di tutti gli interlocutori – ciascuno nell’ambito delle proprie conoscenze e della propria storia personale – nella composizione di una sintesi etica, che si traduce in una scelta che non può essere né per sempre né per tutti.

Non si tratta di relativismo morale, ma di profondo rispetto per l’uomo nel suo divenire e nel suo essere con gli altri uomini.

Disclosure

L’Autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.

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42. FNOMCeo. Codice di Deontologia Medica 16.12.2006. Titolo II, Capo IV, Art. 16: Accanimento terapeutico; Art. 38: Autonomia del cittadino e Dichiarazioni Anticipate. Titolo III, Capo I, Art. 20: Rispetto dei diritti della persona; Capo V, Art. 39: Assistenza al malato a prognosi infausta. Disponibile all’indirizzo www.FNOMCeO.it

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Dott. Giuseppe R. Gristina

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1 Sospensione o astensione dai trattamenti quando evidentemente futili

2  Trattamenti sproporzionati per eccesso = trattamenti futili = trattamenti destinati a non ottenere l’esito per cui vengono posti in atto (accanimento terapeutico)

3 In proposito è opportuno chiarire che la rilevanza morale di garantire un’indolore transizione dalla vita alla mortenon si esaurisce nella salvaguardia dell’interesse giuridico del medico che agisce; la distinzione concettuale introdotta dalla dottrina del “duplice effetto” tra azioni previste/volute e risultati ottenuti/non cercati, pur costituendo un riferimento essenziale nella concezione assolutistica dell’etica deontologica, produce una riduzione dell’intera vicenda morale di chi soffre al termine della vita

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