La medicina difensiva: una ricerca sul Pronto Soccorso in Italia
Maurizio Catino 1, Massimo Pesenti Campagnoni 2, Chiara Locatelli 3
1 Professore associato di Sociologia dell’Organizzazione; Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca
2 Direttore Dipartimento Emergenza, Azienda USL della Valle d’Aosta
3 Collaboratrice Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca
Abstract
This article presents the results of a survey focused on the measurement of the extent of defensive behaviours within the Emergency Departments in Italy, and on the comprehension of the related reasons. Defensive medicine takes place when physicians modify their behaviour to reduce the exposure to legal claims by patients. The phenomenon is directly related to the significant growth in medical malpractice litigation over recent years. 90.5% of respondents declared that they had practiced at least one defensive medicine behaviour during the previous working month. This article discusses the factors, such as the blame culture and the increase of medical malpractice litigation, that may lead to defensive behaviours and result in negative effects both in terms of costs and patient safety. A clear need arises to promote a different approach which might cope the problem of medical error – at a cultural, organisational and legal level – just as in other organisations subjected to high-risk conditions. The deterrent of punishment does not increase the reliability of such organisations, nor improves their safety level.
Keywords: defensive medicine, medical error, blame culture, just culture
The defensive medicine: an investigation into Emergency Departments in Italy
Pratica Medica & Aspetti Legali 2011; 5(1): 35-43
Premessa
Questo articolo presenta i risultati di una ricerca sul fenomeno della medicina difensiva in emergenza e sui fattori che contribuiscono alla sua diffusione.
La medicina difensiva si manifesta «quando il medico ordina esami, procedure o visite, o evita pazienti a rischio, o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la propria esposizione al contenzioso legale. Nei casi in cui i medici effettuano esami o procedure in eccesso, praticano la c.d. medicina difensiva positiva. Se, invece, evitano alcuni pazienti o procedure, praticano la c.d. medicina difensiva negativa» [1]. Esistono, dunque, due tipi di comportamento difensivo: l’uno orientato a effettuare azioni e procedure in eccesso; l’altro indirizzato a eludere alcuni trattamenti che possono essere considerati a rischio.
Tale fenomeno è strettamente collegato all’aumento del contenzioso medico-legale, all’aumento delle richieste di risarcimento da parte dei pazienti. Ciò rivela come – anche in Italia – gli operatori sanitari siano particolarmente esposti al rischio di dover affrontare procedimenti giudiziari.
Nell’arco di tredici anni, dal 1994 al 2007, il numero dei sinistri denunciati alle imprese assicurative italiane nel campo della responsabilità civile in ambito sanitario è passato complessivamente da poco più di 9.500 a circa 30.000, facendo registrare un incremento del 200% [2].
I dati nazionali e internazionali
Studio |
Anno |
Paese |
Comportamenti difensivi (%) |
Tancredi |
1978 |
USA |
70 |
Summerton |
2000 |
UK |
90 |
Studdert |
2005 |
USA |
93 |
Hiyama |
2006 |
Giappone |
98 |
Jackson Healthcare |
2008 |
USA |
72 |
Società Italiana di Chirurgia |
2009 |
Italia |
77,9 |
Massashussetts Medical Society |
2009 |
USA |
83 |
Tabella I. Sintesi delle principali ricerche che stimano la diffusione dei comportamenti difensivi
Sono numerosi gli studi individuati in letteratura (Tabella I) che rilevano il cambiamento dei comportamenti dei medici minacciati dalla pressione di incorrere in provvedimenti legali [3-5]. Già nel 1978 Tancredi e i suoi collaboratori identificarono una serie di problemi relativi alla medicina difensiva [6]. Essi conclusero che una percentuale rilevante di medici (70%) praticava la medicina difensiva per paura di essere coinvolta in contenziosi medico-legali. In quel periodo, inoltre, la Health Insurance Association of America calcolò che l’impatto economico della medicina difensiva si aggirava intorno ai 3-6 milioni di dollari all’anno.
Negli Stati Uniti, durante gli anni ’80 e ’90 sono stati condotti 47 studi promossi da alcuni gruppi di ricerca e da singoli accademici [7]. Molti di essi hanno cercato di stimare i costi generati dalla medicina difensiva. Il più importante era stato portato avanti da Reynolds e Lewin-VHI [8]. Dapprincipio Reynolds stimava in 12 miliardi di dollari il costo totale della medicina difensiva durante l’anno 1987, mentre Lewin-VHI osservò che nel 1993 tali costi ammontavano a 24 miliardi di dollari. Altre ricerche hanno rilevato che l’uso “difensivo” della tecnologia ha un effetto valanga: sempre più specialisti utilizzano procedure diagnostiche non necessarie o prescrivono trattamenti aggressivi per situazioni cliniche a basso rischio. Tale approccio si sta trasformando in una pratica standard adottata dai medici [4], generando un impatto molto forte sui costi e contribuendo ad abbassare la qualità dei servizi sanitari. Alcune stime indicano che in USA la pratica della medicina difensiva incide sul 12% delle spese sanitarie complessive [9]. Una ricerca condotta dal Department of Health Policy and Management della Harvard Medical School ha dimostrato che la maggioranza degli specialisti di diverse aree terapeutiche adotta questa strategia professionale. I ricercatori americani hanno analizzato un gruppo di specialisti operanti nelle aree terapeutiche con maggiore incidenza di cause giudiziarie (medicina d’emergenza, chirurgia generale, chirurgia ortopedica, neurochirurgia, ostetricia e ginecologia, radiologia). Prendendo in esame un totale di 824 medici operanti in sei strutture sanitarie della Pennsylvania, si osserva che il 93% dichiara di praticare la medicina difensiva [4].
Nel 2006 la Pricewaterhouse Coopers elaborò un rapporto in merito agli sprechi del sistema sanitario americano, rilevando che tali perdite ammontavano a 1,2 milioni di miliardi di dollari l’anno [10]. Attraverso un’analisi dei dati della NAMCS (National Ambulatory Medical Care Survey), Merenstein e collaboratori avevano valutato l’appropriatezza di un campione di prescrizioni mediche comparandole con gli standard stabiliti dalla USPSTF (United States Preventive Services Task Force) [11]. Facendo riferimento a un numero di diverse tipologie di prescrizioni, essi avevano riportato che la percentuale delle prescrizioni non necessarie variava dal 5% al 37%, e avevano stimato che il costo annuale di quegli sprechi variava da 47 a 194 milioni di dollari. All’interno di uno studio svolto tra il 2001 e il 2005, che coinvolse alcuni medici californiani che operavano in alcuni reparti scelti casualmente, Rodriguez e collaboratori riportarono che circa il 50% di essi aveva dichiarato la propria preoccupazione di essere coinvolto in contenziosi di tipo medico-legale [12].
Risultati simili sono stati ottenuti da una ricerca condotta in Giappone nel 2006 su un gruppo di 131 gastroenterologi, dove il 98% degli intervistati riportava di aver praticato la medicina difensiva, e si è rilevato che ciò era legato all’incremento della litigation. Secondo i ricercatori, la tendenza dei medici a effettuare esami in eccesso e a evitare procedure rischiose è connessa altresì alla presenza di una crescente preoccupazione, generata dalla sovraesposizione mediatica del problema della malpractice e dal conseguente atteggiamento circospetto del paziente [5]. Tra novembre 2007 e aprile 2008 la Massachusetts Medical Society ha condotto un’ampia indagine su 838 medici appartenenti a otto specialità (anestesiologia, medicina di emergenza, chirurgia generale, medicina di famiglia, medicina interna, chirurgia neurologica, ostetricia e ginecologia e chirurgia ortopedica). I risultati hanno mostrato che l’83% dei medici intervistati riporta pratiche di medicina difensiva, con una media che si aggira tra il 18% e il 28% di esami, procedure diagnostiche e consulti non necessari, a cui si aggiunge il 13% di ricoveri richiesti per ragioni cautelative. I ricercatori hanno stimato che il costo di tali esami in eccesso ammontava a 281 milioni di dollari, cifra calcolata attraverso il tasso dei rimborsi di Medicare del Massachusetts nell’anno 2005/2006. Inoltre, il costo dei ricoveri non necessari era pari a 1,1 miliardo di dollari [13].
Tra ottobre 2009 e marzo 2010, la Jackson Healthcare (Georgia) condusse una serie di indagini nazionali per quantificare e qualificare gli atteggiamenti, le percezioni e le opinioni dei medici nei confronti della riforma sanitaria e della medicina difensiva. I risultati dell’indagine hanno consentito di stimare la spesa per esami e trattamenti non necessari tra 650 e 850 miliardi di dollari. Tali esami erano stati effettuati principalmente per evitare possibili azioni medico-legali. Inoltre, nel marzo 2010, la Jackson Healthcare ha condotto la sua terza indagine nazionale online per quantificare l’impatto della medicina difensiva sui costi sanitari, sulla qualità e sull’innovazione: il 72% dei rispondenti ha riportato che la medicina difensiva ha un impatto negativo sulla cura dei pazienti; il 57% degli intervistati affermava che la medicina difensiva ostacola la loro abilità di decision-making; il 53% ha riportato di ritardare l’adozione di nuove tecniche/procedure/trattamenti a causa della paura di un contenzioso medico-legale [14]. Precedenti esperienze di contenzioso, a proprio carico e a carico dei colleghi, influenzano in maniera significativa il comportamento degli operatori sanitari. In un’indagine realizzata nel Regno Unito nel 2002, ad esempio, è stato osservato che il 56% degli operatori sanitari ha ricevuto una denuncia da parte dei pazienti e che tali accuse sembrano avere un importante effetto sul medico a livello emozionale e relazionale: appare ragionevole ipotizzare che, a un aumento del contenzioso, corrisponda un aumento della comparsa di atteggiamenti difensivi [3].
In altri casi ancora è stato visto che l’aumento dell’incertezza diagnostica rappresenta un fattore di significativa importanza nell’influenzare i comportamenti di medicina difensiva. La tecnologia, di conseguenza, ricopre un ruolo decisivo, in quanto gli specialisti ammettono di utilizzarla per tranquillizzare i pazienti e se stessi. L’uso difensivo della tecnologia, però, ha un effetto “valanga”: più gli specialisti prescrivono procedure diagnostiche inutili o trattamenti aggressivi per condizioni a basso rischio, più questo tipo di approccio tende a diventare lo standard legale per la pratica clinica [4]. È evidente come tutto questo abbia un impatto significativo sui costi a carico del Servizio Sanitario Nazionale e della collettività.
Le pratiche di medicina difensiva sono state studiate attraverso numerose indagini negli Stati Uniti. Al contrario risultano piuttosto rare le ricerche condotte in Europa e, in particolare, in Italia. Nel nostro Paese la Società Italiana di Chirurgia ha promosso nel 2008 un’indagine finalizzata a individuare i comportamenti di medicina difensiva più diffusi tra i chirurghi [15]. In questa ricerca, realizzata dal Centro Studi Federico Stella (Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e condotta con il Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca, è stato rilevato che il 77,9% dei medici ha affermato di aver praticato comportamenti di medicina difensiva durante l’ultimo mese di lavoro considerato. In un sistema con disponibilità economiche e operative limitate, come quello sanitario, l’allocazione di risorse in attività non necessarie può determinare gravi carenze all’interno di servizi indispensabili per la sicurezza del paziente. La medicina difensiva contribuisce, infatti, alla riduzione della qualità dell’assistenza sanitaria: procedure diagnostiche invasive (ad esempio biopsie) non necessarie rappresentano inutili rischi per l’utenza; risultati ambigui o falso-positivi producono inoltre stress emotivi e la necessità di ulteriori accertamenti diagnostici, innescando un’escalation scarsamente controllabile.
La ricerca
L’indagine sulla medicina difensiva in emergenza è stata promossa dalla Academy of Emergency Medicine and Care (AcEMC) e dalla Direzione del Dipartimento d’Emergenza dell’Ospedale “U. Parini” di Aosta1 e finanziata dalla Direzione Generale dell’Ausl di Aosta. La ricerca, condotta da chi scrive, è stata realizzata tra giugno e settembre 2010. Gli obiettivi dell’indagine sono stati:
- misurare la frequenza dei comportamenti di medicina difensiva;
- comprendere i fattori che inducono i medici dei dipartimenti di emergenza a modificare il proprio comportamento professionale in tale direzione.
Avvalendosi del contributo delle ricerche internazionali, è stato costruito un primo questionario strutturato, in cui sono stati classificati i principali comportamenti difensivi e le motivazioni a essi correlate.
All’indagine hanno risposto 1.392 medici di diverse specialità provenienti da tutte le regioni italiane (1.327 questionari validi). La compilazione del questionario è avvenuta secondo i seguenti canali:
- via web, con la pubblicazione di un file elettronico sul sito internet dell’AcEMC (www.acemc.it) (84,5%);
- attraverso la posta elettronica (0,3%);
- via fax (15,2%).
I principali risultati
Il 90,5% dei medici intervistati ammette di aver adottato almeno un comportamento di medicina difensiva durante l’ultimo mese di lavoro. In Tabella II sono riportati i comportamenti dichiarati dagli intervistati.
Comportamento difensivo |
Medici (%) |
Richiesta di esami di laboratorio non necessari |
77,7 |
Inserimento di annotazioni inutili in cartella clinica |
72,8 |
Richiesta di consulenze di altri specialisti non necessarie |
67,3 |
Richiesta di esami invasivi inutili per non contrastare il parere del consulente interpellato |
64,1 |
Richiesta di un ricovero non necessario solo per assecondare le pressioni dei familiari del paziente |
63,3 |
Richiesta di un ricovero per un paziente gestibile ambulatorialmente |
61,2 |
Enfatizzazione di alcuni aspetti clinico-anamnestici per giustificare la correttezza della propria diagnosi |
51,8 |
Tabella II. Comportamenti di medicina difensiva dichiarati dai medici intervistati
Le motivazioni principali dichiarate sono:
- il 69% ha timore di un contenzioso medico-legale;
- il 50,4% ha timore di ricevere una richiesta di risarcimento;
- il 50% risente dell’influenza di precedenti esperienze di contenzioso a carico dei propri colleghi;
- il 34,3% è influenzato da precedenti esperienze personali di contenzioso.
Inoltre, emerge che il 21,2% degli intervistati manifesta la preoccupazione di incorrere in sanzioni disciplinari inflitte dalla propria organizzazione. Ciò lascia presumere che, “normalmente”, per la gestione degli errori l’organizzazione non esercita né gerarchia né controllo, attività di fatto delegate al contenzioso (penale e civile) e all’opinione pubblica. In base a tali dati, è possibile affermare che la percezione di una prassi accusatoria e generatrice di contenziosi medico-legali induce spesso i medici a modificare le proprie condotte professionali. La tutela della salute del paziente può così diventare, per il professionista sanitario, un obiettivo subordinato alla minimizzazione del rischio legale e punitivo. Tra le motivazioni, inoltre, non vanno trascurate le problematiche di tipo organizzativo. Si è osservato infatti che:
- il 76,1% dei medici ritiene che una delle cause dei comportamenti difensivi sia l’eccessivo afflusso di pazienti;
- il 75,4% attribuisce il problema alla carenza dei posti letto;
- il 50,2% reputa come significativi gli effetti della stanchezza e della paura di sbagliare.
Analisi e riflessioni sui risultati
I dati emersi da questa ricerca confermano quanto è stato rilevato da altri studi in diversi Paesi e in differenti contesti ospedalieri. I comportamenti di medicina difensiva sono diffusi e sono fortemente influenzati dal timore dei medici di essere coinvolti in contenziosi legali. I principali contributi che si possono trarre dalla ricerca sono:
- elevata incidenza della medicina difensiva. Come detto, il 90,5% dei medici ammette di aver praticato almeno un comportamento di medicina difensiva durante l’ultimo mese di lavoro. Tra questi, il 77,7% ha richiesto esami di laboratorio non necessari; il 72,8% ha inserito annotazioni inutili in cartella clinica; il 67,3% ha richiesto consulenze di altri specialisti non necessarie; il 64,1% ha richiesto esami invasivi inutili per non contrastare il parere del consulente interpellato; il 63,3% ha richiesto un ricovero non necessario solo per assecondare le pressioni dei familiari del paziente; il 61,2% ha richiesto un ricovero per un paziente gestibile ambulatorialmente; infine, il 51,8% ha enfatizzato alcuni aspetti clinico-anamnestici per giustificare la correttezza della propria diagnosi;
- maggiore diffusione di medicina difensiva tra i giovani medici. A conferma di quanto emerso in altre ricerche, i dati analizzati mettono in evidenza la maggiore propensione dei medici più giovani nel dichiarare la pratica della medicina difensiva, rispetto ai più anziani. La percentuale di quelli che ammettono di ricorrere ad atteggiamenti difensivi raggiunge il 94,5% all’interno della classe di soggetti che hanno tra 26 e 36 anni di età, contro l’84,4% dei soggetti aventi tra 60 e 70 anni;
- la frequenza dei comportamenti di medicina difensiva è omogenea, indipendentemente dalle caratteristiche socio-anagrafiche degli intervistati. Non emergono differenze significative in relazione alle variabili socio-anagrafiche. Fatta eccezione per le classi di età e per alcune caratteristiche della struttura lavorativa, non sono state evidenziate diversità sostanziali nella frequenza dei comportamenti difensivi. Le percentuali restano elevate sia tra coloro che sono stati vittima di contenzioso (91,5%), sia tra coloro che dichiarano di non aver subìto delle ripercussioni giudiziarie (89,2%). Ciò può essere spiegato col fatto che la circolazione delle informazioni su procedimenti di natura legale di colleghi medici, rende simili le due popolazioni (i medici con contenzioso e quelli senza), in quanto condividono le medesime preoccupazioni;
- timore diffuso di ripercussioni legali. Il 69% dei medici che adottano atteggiamenti difensivi manifesta il timore di subire un contenzioso legale, il 50,4% dichiara di avere paura di ricevere una richiesta di risarcimento danni e il 50% dimostra di essere influenzato dalle precedenti esperienze di contenzioso subite dai colleghi;
- importanza degli aspetti organizzativi. Una parte rilevante dei medici intervistati esprime serie preoccupazioni nei confronti di alcuni aspetti organizzativi che possono determinare il comportamento difensivo. Il 76,1% dichiara di essere influenzato dall’eccessivo afflusso di pazienti, il 75,4% dalla carenza dei posti letto e il 50,4% dalla stanchezza e dalla paura di sbagliare.
Le preoccupazioni degli intervistati sul contenzioso sono motivate dall’incremento esponenziale delle richieste di risarcimento dei pazienti rilevato dall’ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) nel 2009 [2]. Dal 1994 al 2007, infatti, il numero dei sinistri denunciati è passato complessivamente2 da poco più di 9.500 a circa 30.000, con un incremento del 200%. In particolare, i sinistri denunciati legati alla copertura dei singoli medici hanno fatto registrare un aumento più sostenuto, passando da 3.222 del 1994 a 13.415 del 2007, mentre i sinistri denunciati legati alla copertura delle strutture sanitarie sono passati da 6.345 a 16.128. Di conseguenza, i premi incassati negli anni precedenti la rilevazione di tali dati sono risultati insufficienti per pagare i sinistri e ciò ha determinato un notevole incremento dei premi assicurativi. Le ripercussioni economiche sono, dunque, particolarmente significative.
Diversi studi hanno mostrato che molti medici credono che essere vittima di contenzioso legale possa danneggiare la propria reputazione professionale. Le ripercussioni psicologiche del contenzioso e, in particolare, la perdita dell’autostima sono altrettanto importanti. Lo stato d’ansia provocato dalla convocazione in tribunale per un’istanza perdura a lungo anche oltre la conclusione della sentenza [16]. Il paziente a volte è visto come un vero e proprio antagonista e la relazione con esso ne esce compromessa a causa di un eccesso di prudenza [17,18]. Tutti questi dati, pertanto, confermano la percezione di un atteggiamento accusatorio e colpevolizzante all’interno della cultura sanitaria. Tale approccio culturale, per quanto sia indispensabile nei casi di dolo o grave negligenza, se adottato in via generale sulla restante parte degli errori generati da inefficienze di sistema, contrasta con le iniziative organizzative di apprendimento dagli errori e con la promozione della sicurezza [19]. Una reporting culture e una blame culture non possono coesistere.
L’approccio accusatorio all’errore: blame culture vs just culture
Ogni qualvolta accade un incidente di rilievo in un’organizzazione, come ad esempio in un ospedale, si avvia un procedimento orientato ad accertare cause e responsabilità dell’evento e a comminare sanzioni. Questo approccio si focalizza sugli errori e sulle mancanze degli individui, assumendo che le persone sbaglino perché poco attente al compito. Tale approccio adotta un modello causale lineare, centrato sulla ricerca e sulla rimozione di coloro che saranno ritenuti responsabili dell’evento, trascurando, o lasciando sullo sfondo, il ruolo del contesto organizzativo [20,21]. Poiché il fine ultimo dell’approccio accusatorio è l’assegnazione della colpa, la ricostruzione della catena degli eventi si ferma quando viene individuato qualcuno o qualcosa di appropriato a tale colpa. Il risultato è che si ottengono analisi superficiali, che non consentono miglioramenti tali da prevenire il riaccadere di eventi simili. Si attribuisce eccessiva importanza a colui che è situato nell’interfaccia dell’incidente, e che di fatto eredita falle e difetti di chi progetta, organizza e gestisce il più ampio sistema organizzativo. In un’analisi incidentale tesa a individuare le responsabilità, ci si focalizza sugli atti insicuri (errori e violazioni) che hanno condotto all’evento. Dall’indagine vengono esclusi o sottostimati quei fattori relativi ad aspetti organizzativi decisionali e di progettazione (fattori latenti), che potrebbero aver avuto un ruolo anche decisivo nel predisporre le condizioni incidentali e che, se non rimossi, continuano a mantenere la loro potenziale pericolosità. È certamente più facile individuare il soggetto a più stretto contatto con il sistema (il pilota dell’aereo, il medico, l’infermiere, l’operatore al pannello di controllo, il macchinista del treno, ecc.) quale responsabile dell’accaduto piuttosto che i fattori latenti, di natura organizzativa e manageriale.
Ciò accade per diversi fattori: perché è più facile cognitivamente; perché il sistema giudiziario penale è basato sulla responsabilità personale; perché talvolta le organizzazioni coinvolte hanno indubbi vantaggi, legali e assicurativi, nell’attribuire all’operatore la responsabilità causale dell’evento (anche se i dati ANIA segnalerebbero il contrario); perché è diffusa una cultura della colpa basata sul capro espiatorio. Già diversi anni fa, Drabeck e Quarantelli [22] sostenevano la perfetta razionalità nell’individuazione dei capri espiatori a seguito dei disastri e l’utilità per i gruppi dirigenti nell’attribuire le colpe a singole persone: la loro incriminazione, e quindi la loro trasformazione in capri espiatori, diventa così un espediente per ritardare ed evitare mutamenti strutturali, dal momento che l’opinione pubblica viene indotta a credere che la punizione esemplare dell’individuo “colpevole” possa servire come futuro deterrente.
L’approccio accusatorio, tuttavia, comporta una serie di “effetti perversi” o effetti di composizione [23]. Si tratta di quegli effetti non voluti derivati da azioni intenzionali. In primo luogo, la ricerca del colpevole non cambia lo stato delle cose e non migliora l’organizzazione. In secondo luogo, un approccio che guarda al passato crea un senso di paura per le sanzioni e le controversie legali, ostacolando il reporting degli errori da parte degli operatori di front-line e inibendo l’apprendimento organizzativo. L’approccio accusatorio, perciò, non consente di eliminare le condizioni di rischio e non esclude la possibilità che uno stesso evento possa ripetersi in presenza di altri attori. Tale approccio, inoltre, si caratterizza per due fattori: l’hindsight bias3 [24] e il foundamental attribution bias4 [25,26]. Questi fattori rendono difficile la discussione non soltanto degli errori che hanno generato conseguenze, ma anche dei near miss (mancati incidenti). Ciò accade in quanto le persone temono di essere colpevolizzate e gli errori vengono continuamente attribuiti a tratti indesiderabili della personalità, alla mancanza di competenze e alla negligenza. Merry e Smith [27], con riferimento al sistema sanitario, affermano che lavorare sotto la minaccia di una controversia legale crea un clima di paura che non conduce al miglior uso delle persone in un sistema medico. Proprio per questi motivi, i medici tendono a nascondere gli errori e a promuovere i comportamenti di medicina difensiva (sovra-prescrizione di esami e trattamenti, elusione di procedure rischiose). La persistenza di una cultura della colpa, rafforzata da un certo tipo di azione giudiziaria, diviene il primo ostacolo alla creazione di una cultura efficace della sicurezza del paziente. Un sistema professionale come quello medico, a rischio continuo di indagine penale, non è, quindi, un sistema più attento e diligente, ma è un sistema che riduce i rischi di chi agisce cercando maggiori tutele formali, anche a scapito dell’utenza, con la medicina difensiva, ad esempio, o con la c.d. medicina dell’obbedienza giurisprudenziale. Con tale definizione si intende «la progressiva accettazione e cristallizzazione di precetti di condotta medica di provenienza giurisprudenziale che spesso non hanno reale fondamento nella scienza e nella prassi medica» [28].
La ricerca del colpevole non favorisce il reporting degli errori e crea un circolo vizioso (vedi Figura 1), in quanto ostacola la possibilità di apprendere dai fallimenti e favorisce la diffusione di comportamenti difensivi.
Figura 1. Il circolo vizioso della blame culture [21]
Gli svantaggi della colpevolizzazione e della responsabilità penale sono evidenti e molteplici [29]. Una cultura medica, focalizzata principalmente sulla colpevolezza individuale (inquadrata nelle categorie giuridiche della colpa, e della colpa penale in particolare), impedisce di realizzare quelle analisi sistematiche proattive che sarebbero efficaci nel prevenire gli errori. Gli individui nelle organizzazioni potrebbero essere riluttanti nel riportare informazioni negative, specialmente quando queste possono generare delle sanzioni, o uno screditamento professionale. Dekker osserva che i procedimenti giudiziari, o la possibilità che si verifichino, può generare un clima di paura, rendendo le persone restie alla condivisione delle informazioni [30]. L’errore può essere spiegato e ridotto soltanto adottando un’organizzazione e metodologie appropriate. Tuttavia, occorre precisare la distinzione tra gli errori “onesti”, generati da fattori organizzativi, e gli errori e le violazioni provocate da situazioni di dolo e grave negligenza, che sono di effettiva pertinenza dell’ambito legale e giudiziario. Questa distinzione è alla base della cosiddetta just culture.
In accordo con Benn, Healey e Hollnagel [31], per promuovere la sicurezza del paziente, le organizzazioni sanitarie dovrebbero spostarsi da un focus retrospettivo nei confronti degli eventi avversi a un processo proattivo di miglioramento che anticipa attivamente e mitiga le vulnerabilità interne al sistema. Le organizzazioni sanitarie devono sviluppare la capacità di imparare dagli errori e dai fallimenti. È necessario che diventino più resilienti e affidabili. Un’organizzazione resiliente [32] individua con successo le condizioni pericolose e le corregge prima che si generino serie conseguenze [33]. Per fare ciò, è richiesta profonda trasformazione culturale. Per favorire la visibilità degli eventi anomali e dei near miss (mancati incidenti) è necessario, da un lato, avere maggiori e realistiche informazioni sugli incidenti, dall’altro, creare una just culture all’interno della quale le persone si sentano libere di poter discutere dei fallimenti per poter apprendere da questi. Occorre precisare che just culture non significa blame-free. Un’organizzazione totalmente no blame rischia di comportare, di fatto, un’approvazione di tutti gli atti insicuri. Una cultura organizzativa nella quale tutte le azioni sono possibili secondo la discrezionalità delle persone è una cultura che perde credibilità agli occhi delle persone stesse. Come sostiene Reason [19], un prerequisito per un’equa e giusta cultura della sicurezza è che tutti i membri di un’organizzazione comprendano dove sia tracciata la linea tra i comportamenti inaccettabili che meritano di essere sanzionati e il resto dei comportamenti, per i quali una punizione non appropriata non aiuta a promuovere la sicurezza (il cosiddetto “errore onesto”).
Emerge l’esigenza di ripensare l’utilizzo del diritto penale in contesti come quelli delle organizzazioni ad alta affidabilità, promuovendo una diversa civic epistemology [34] in caso di incidenti causati da errori non intenzionali. La sanzione penale è considerata un importante strumento per il controllo sociale delle organizzazioni, ma ci sono forti dubbi, e una scarsa evidenza empirica, sul suo potere deterrente in caso di incidenti [35] e sul ricorso al diritto penale come strumento privilegiato per impedire futuri incidenti tecnologici così come gli errori in medicina [36,37]. La percezione di una prassi giurisprudenziale particolarmente rigorosa, sul terreno della responsabilità penale e civile, induce spesso i medici a modificare le proprie condotte professionali: la tutela della salute del paziente può, così, diventare, per il sanitario, un obiettivo subordinato alla minimizzazione del rischio legale.
In sintesi, la blame culture nelle organizzazioni sanitarie ha un’origine sia endogena, sia esogena. Endogena, in quanto basata sul mito dell’infallibilità medica e che porta a considerare gli errori come uno stigma per la persona che sbaglia. Esogena, in quanto legata agli strumenti legali, di repressione in particolare come la sanzione penale. Ne consegue che, per cambiare il sistema, occorre agire su entrambi i livelli, sia sul piano normativo (esogeno), sia sul piano organizzativo e culturale (endogeno).
Conclusioni
La ricerca fornisce molteplici indicazioni per riflettere su:
- il superamento del “mito dell’infallibilità” medica: i medici vengono preparati a svolgere un’attività pratica priva di errori, ponendo particolare importanza alla perfezione sia nel trattamento sia nella diagnosi. Ciò crea la credenza (errata) che gli errori siano inaccettabili e legati alla competenza del medico. Per cui, soltanto i medici non bravi sbagliano. I medici ritengono, quindi, di poter operare senza errore, di essere infallibili, stabilendo così un’errata correlazione tra errore e negligenza, con la conseguenza che gli errori diventano fonte di stigma e non sono analizzati e rimossi. Come ha affermato Atul Gawande, «il problema non è impedire ai cattivi medici di far del male, ma di impedire che ciò accada ai bravi medici» [38];
- la necessità di considerare l’errore umano come un’opportunità da cui apprendere, per limitare la ripetizione degli stessi eventi in futuro e per consentire il miglioramento della sicurezza del paziente, anche attraverso la promozione di sistemi di segnalazione che facilitino i ritorni di esperienza e la discussione aperta;
- il fatto che un approccio al sistema non significa diminuire le responsabilità dei singoli («La colpa è del sistema, cosa posso farci io»), ma semmai allargare le responsabilità per il miglioramento, coinvolgendo tutti quei soggetti che a vario titolo possono contribuire a ridurre l’occorrenza e la ricorrenza di tali eventi incidentali. Approccio al sistema non significa blame-free, ma distinguere gli errori onesti dagli atti non accettabili;
- l’importanza di sviluppare una cultura della sicurezza che promuova reporting e learning e che sia just. Una cultura che promuova le segnalazioni degli errori, dei problemi e l’apprendimento organizzativo. Solo raccogliendo, analizzando e disseminando le informazioni sugli eventi passati, e sui segnali di pericolo presenti, un’organizzazione può migliorare le condizioni di sicurezza e di affidabilità. Senza questa “memoria organizzativa critica”, un sistema non può apprendere, non può individuare ed eliminare le trappole di errore, non può migliorare e rafforzare le difese. Affinché il reporting sia possibile, occorre che le informazioni riportate non siano utilizzate in un procedimento penale contro chi ha contribuito alla segnalazione. È necessario prevedere qualche forma di protezione dei dati sugli incidenti, pena il possibile disincentivo per i professionisti nel contribuire ai sistemi di incident reporting;
- la necessità di promuovere una just culture, senza la quale è impossibile un’effettiva reporting culture. La just culture è stata definita dall’ICAO (International Civil Aviation Organisation) e da Eurocontrol, come una cultura in cui gli operatori di front-line non vengano puniti per le azioni, le omissioni o per le decisioni commisurate alla loro esperienza, ma esclusivamente per gli atti di negligenza, le violazioni e le azioni distruttive considerate non tollerabili;
- la necessità di ridisegnare l’attuale modello di attribuzione della responsabilità penale e civile. La responsabilità penale del sanitario dovrebbe essere limitata ai soli eventi avversi realizzati con “colpa grave”, accompagnata dall’introduzione di programmi di giustizia riparativa. L’obiettivo è quello di ricercare un equo bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare gli operatori sanitari da iniziative giudiziarie che spesso vengono avvertite come arbitrarie e ingiuste e la necessità di tutelare i diritti dei pazienti che si ritengano danneggiati da episodi di medical malpractice.
Disclosure
Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse in merito ai temi trattati nel presente articolo.
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Corresponding author
1 Per il loro contribuito alla promozione e alla realizzazione della ricerca, desideriamo ringraziare: la Dott.ssa Stefania Riccardi (Direttore Ausl Valle d’Aosta); il Dott. Ivo Casagranda (Presidente AcEMC); il Dott. Carlo Locatelli (Segretario AcEMC)
2 Nel campo della responsabilità civile nel settore sanitario esistono due coperture: una riguardante le strutture sanitarie (rientrano in questa categoria tutte le polizze che coprono la responsabilità civile medica della struttura sanitaria sia pubblica sia privata), l’altra riguardante i singoli medici (rientrano in questa categoria tutte le polizze che coprono la responsabilità civile professionale dei medici a prescindere dalla loro appartenenza a una struttura sanitaria)
3 L’hindsight bias si caratterizza per due aspetti: 1) l’effetto del “si sapeva bene”, per cui gli analisti enfatizzano ciò che gli individui avrebbero dovuto sapere e prevedere; 2) l’inconsapevolezza dell’influenza che la conoscenza dei risultati esercita sulle percezioni dei fatti accaduti. I fatti appaiono quindi più lineari ed evidenti anziché ambigui, contrastanti e con un senso non definito, come probabilmente sono apparsi prima agli attori di quegli stessi eventi. Etichettare un’azione passata come erronea è molto spesso un giudizio basato su differenti informazioni disponibili per le persone, dopo che l’evento è accaduto
4 Con foundamental attribution bias si intende la tendenza che porta ad attribuire la colpa per i cattivi risultati conseguiti all’incapacità e all’inadeguatezza di un attore, piuttosto che considerarli come il prodotto di una situazione specifica, o come il risultato di fattori situazionali al di fuori del controllo di tale attore