PM&AL 2013;7(3)63-66.html

Le linee guida nella nuova legge di riforma della responsabilità medica

Gianluca Montanari Vergallo 1, Laura Iovenitti 2, Irene Catarinozzi 2, Carlo Angioni 1

1 Ricercatore confermato di Medicina legale, Università di Roma “Sapienza”

2 Specializzanda di Medicina legale, Università di Roma “Sapienza”

Abstract

The increasing complexity of clinical practice has significantly strengthened the need for guidelines that provide physicians with clear professional standards for inspiration and, not infrequently, cling to withstand the wind of a sometimes excessive responsibility of their activities. Clinical guidelines are defined as «systematically developed statements to assist practitioner and patient decisions about appropriate health care for specific clinical circumstances».

The fact that the guidelines indicate the rules of proper practice of the profession has led many doctors to hope that, according to them, they could avoid incurring liability. The doctrine has long held that the rules contained in the guidelines can have an abstract value, but the assessment of the behaviour of the physician must be conducted in the light of all the data of the individual and concrete clinical cases, which certainly can not be taken into consideration by the drafters of the guidelines. Although the medical-legal relevance of the guidelines was reduced by the Supreme Court in some cases, the legislature has decided to focus on guidelines to curb the phenomenon of defensive medicine and restoring tranquility to the doctors in the exercise of profession.

Purpose of our article is to present a commentary on Article 3 of Decree Law no. 158/2012 (so-called “Decreto Balduzzi”), to highlight some critical points that are likely to frustrate the objective of the legislature.

Keywords: Clinical guidelines; Medical liability; Decree Law no. 158/2012

The guidelines in the new law reforming the medical liability

Pratica Medica & Aspetti Legali 2013; 7(3): 63-66

Corresponding author

Gianluca Montanari Vergallo

montanari_gianluca@tiscali.it

Disclosure

Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

 

La crescente complessità della pratica clinica ha notevolmente rafforzato l’esigenza di linee guida che offrano ai medici chiari standard professionali cui ispirarsi e, non di rado, aggrapparsi per resistere al vento di una talora eccessiva responsabilizzazione della loro attività.

Tuttavia, a quest’esigenza sono state date risposte spesso tutt’altro che univoche, essendosi assistito ad un fiorire di linee guida da parte dei più vari organi nazionali e internazionali, istituti, gruppi di studio, società scientifiche e persino Regioni e aziende ospedaliere.

Le linee guida – la cui definizione è stata introdotta ufficialmente dall’Istituto di Medicina Statunitense nel 1992 – devono considerarsi come «raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medici e pazienti nelle decisioni circa le modalità di assistenza più appropriate per ogni specifica circostanza clinica» [1, 2].

Tale nozione è stata ulteriormente delineata in dottrina, soprattutto negli ultimi venti anni [3], individuando, come connotato comune delle stesse, il loro contenuto consistente in indirizzi operativi di comportamento clinico sia in ambito diagnostico, sia in ambito terapeutico.

Proprio il fatto che le linee guida indichino regole di corretto esercizio della professione ha indotto molti medici a sperare che, attenendosi alle stesse, avrebbero potuto evitare di incorrere in responsabilità.

Invero, la Magistratura non si è sempre pronunciata a favore di questa posizione; a riguardo, emblematica risulta una sentenza del 2010 che confermava la responsabilità per il reato di omicidio colposo al professionista che, proprio per essersi attenuto scrupolosamente alle linee guida, non procedeva immediatamente all’intervento chirurgico [4].

In verità, la dottrina ha da tempo chiarito che le regole contenute nelle linee guida possono avere un valore astratto, ma il giudizio sulla correttezza dell’operato del medico deve essere condotto alla luce di tutti i dati dei singoli e concreti casi clinici, i quali certamente non possono essere tenuti in considerazione dagli estensori delle linee guida [5-7]. Infatti, compito del professionista è quello di rispettare il valore tecnico-scientifico delle linee guida – considerate come corrispondenti alla migliore scienza – potendosene discostare esclusivamente previa giustificata motivazione.

Inoltre, non assumendo carattere di protocollo, rappresentano delle indicazioni “di minima” per il sanitario che – in caso di necessità – non deve ritenersi esonerato dall’eseguire ulteriori approfondimenti o accertamenti volti alla tutela del bene salute [8, 9].

La giurisprudenza ha condiviso tale insegnamento affermando che, come l’adeguamento alle linee guida non esclude la colpa del professionista, così la sua scelta di discostarsi dalle stesse non costituisce di per sé colpa né generica né specifica, essendo, anzi, espressione della sua autonomia [10, 11]. Infatti, le linee guida possono essere utilizzate come parametro di misurazione della colpa del sanitario, sempre con riferimento alle necessità del caso concreto e non escludendo un eventuale discostamento dalle stesse [1].

Talora la rilevanza medico-legale delle linee guida è stata ulteriormente ridimensionata dalla Suprema Corte, arrivando a sostenere che la dimissione del paziente dall’ospedale non appena si raggiunga la stabilizzazione del quadro clinico rappresenta una linea guida economicistica che, dando prevalenza all’esigenza di risparmio su quella di tutela del paziente, non deve essere seguita dai medici [10, 12].

Nonostante questa chiara presa di posizione della giurisprudenza, il legislatore ha deciso di puntare proprio sulle linee guida per arginare il fenomeno della medicina difensiva e restituire serenità ai medici nell’esercizio della professione.

Infatti, l’art. 3 del decreto legge n. 158/2012 (c.d. decreto Balduzzi), come modificato dalla legge di conversione n. 189 dell’8 novembre 2012, ha stabilito che «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo».

Dunque, limitando l’attenzione al tema delle linee guida, da questa disposizione emergono tre contenuti teorico-pratici.

Sul piano generale, si conferma la rilevanza orientativa delle linee guida, perché il legislatore ammette inequivocabilmente la possibilità che il medico sia in colpa nonostante la loro osservanza [13, 14].

Infatti, anche dopo l’entrata in vigore della riforma, la Suprema Corte ha ribadito che la violazione delle linee guida non costituisce colpa specifica ex art. 43 c.p. [1, 15].

Sul piano penalistico, nei casi in cui il medico segue le linee guida, la responsabilità è limitata alla sola colpa grave, mentre è esclusa per colpa lieve. Dunque, il legislatore ha «parzialmente decriminalizzato le fattispecie incriminatrici colpose» di omicidio e di lesioni, con conseguente applicazione del citato art. 3 anche ai processi in corso in virtù dell’art. 2 c.p. in quanto norma più favorevole all’imputato [15].

Viceversa, in ambito civilistico, nella quantificazione del risarcimento il giudice deve tenere in considerazione il fatto che il medico abbia seguito le linee guida con colpa lieve.

Quindi, l’osservanza di linee guida scientificamente accreditate può avere l’effetto di escludere la punibilità in sede penale e di ridurre in ogni caso l’ammontare del risarcimento del danno.

Questa nuova rilevanza delle linee guida si rivela problematica e rischia di non realizzare gli obiettivi, pur condivisibili, che hanno mosso il legislatore.

Infatti, anche a prescindere dalle eccezioni di legittimità costituzionale alle quali questa disciplina si espone e sulle quali torneremo a breve, la Suprema Corte ha già ampiamente ridotto la portata applicativa della riforma.

In primo luogo, questa limitazione di responsabilità penale alla colpa grave non può essere invocata «allorquando i profili di colpa contestati riguardano la prudenza e la negligenza, giacché le linee - guida contengono solo regole di perizia e non afferiscono ai profili di imprudenza e di negligenza» [16].

Inoltre, l’osservanza di una qualsiasi linea guida avente un qualche seguito nella comunità scientifica non basta ad escludere la punibilità per colpa lieve.

Invero, «quando si discuta della perizia del medico, affinché le linee - guida possano avere rilievo nell’accertamento della responsabilità, occorre si tratti di linee - guida che indichino standards diagnostico terapeutici conformi alla regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e che non risultino, invece, ispirate a esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente. Infatti, solo nel caso di linee - guida conformi alle regole della migliore scienza medica è possibile utilizzarle come parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico e attraverso le indicazioni dalle stesse fornite è possibile per il giudicante (…) individuare o escludere eventuali condotte censurabili secondo il parametro di riferimento indicato dall’art. 3 l. n. 189 del 2012» [16].

Così interpretando la riforma, la Suprema Corte si espone a due rilievi critici perché: a) distorce il concetto di linea guida, in quanto non esistono linee guida prettamente economicistiche ed altre esclusivamente finalizzate alla salute del paziente: ogni linea guida è diretta ad indicare un corretto e proporzionato uso delle limitate risorse disponibili in funzione della protezione del paziente [6]; b) rischia di condurre alla sostanziale disapplicazione della riforma, che invece è coerente con l’impostazione, sancita dalla Corte costituzionale, secondo cui il diritto alla salute deve essere tutelato compatibilmente con le risorse disponibili [17, 18].

In altra sentenza, la Suprema Corte, pur non aderendo apertamente all’irreale distinzione tra linee guida “scientifiche” ed “economicistiche”, ribadisce che esse non possono essere di per sé rilevanti perché si tratta di «diverse fonti, diverso grado di affidabilità, diverse finalità specifiche, metodologie variegate, vario grado di tempestivo adeguamento al divenire del sapere scientifico. Alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri ancora da organismi ed istituzioni pubblici, da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversità dei soggetti e delle metodiche influenza anche l’impostazione delle direttive: alcune hanno un approccio più speculativo, altre sono maggiormente orientate a ricercare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità; altre ancora sono espressione di diverse scuole di pensiero che si confrontano e propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti.

Tali diversità rendono subito chiaro che, come si è accennato, per il terapeuta come per il giudice, le linee guida non costituiscono uno strumento di precostituita, ontologica affidabilità. (…) Dunque, anche nell’ambito delle linee guida non è per nulla privo di interesse valutare le caratteristiche del soggetto o della comunità che le ha prodotte, la sua veste istituzionale, il grado di indipendenza da interessi economici condizionanti. Rilevano altresì il metodo dal quale la guida è scaturita, nonché l’ampiezza e la qualità del consenso che si è formato attorno alla direttiva. A tale riguardo è sufficiente rammentare sinteticamente che si è con ragione diffuso un orientamento che rapporta la qualità scientifica delle indagini e delle “istruzioni” che se ne traggono alle prove oggettive che le corroborano.

Il legislatore ha evidentemente inteso la delicatezza del problema e ne ha indicata la soluzione, rapportando le linee guida e le pratiche terapeutiche all’accreditamento presso la comunità scientifica» [15].

Dunque, questa sentenza sembra confermare la logica per cui, poiché la limitazione di responsabilità si applica solo in presenza di linee guida accreditate nella comunità scientifica, la responsabilità sussiste anche per colpa lieve ogni qualvolta il giudice ritenga, alla luce dei sopra indicati parametri, che la linea guida non è accreditata sul piano scientifico.

Questa logica, tuttavia, appare incompatibile con l’intenzione del legislatore, che consiste nel dare ai medici precise regole di comportamento così da arginare le pratiche di medicina difensiva.

Infatti, se l’applicazione della limitazione di responsabilità dipendesse in ogni giudizio dalla valutazione del giudice e del c.t.u. sulla rilevanza scientifica della linea guida, l’obiettivo perseguito dal legislatore rimarrebbe lettera morta.

Tuttavia, anche volendo seguire interpretazioni più coerenti con la ratio legis, il nuovo ruolo delle linee espone la riforma a seri problemi di costituzionalità, già sollevati dal Tribunale di Milano sotto numerosi profili, alcuni dei quali di chiaro interesse anche medico-legale [19].

Un primo aspetto evidenziato dal Tribunale di Milano consiste nella mancanza di tassatività della norma, con conseguente violazione dell’art. 25 Cost.

Infatti, la formulazione del sopra riportato art. 3 del decreto legge n. 158/2012 è talmente elastica che non consente né al giudice né ai medici di determinare esattamente i confini dell’esimente. Peraltro, manca qualsiasi definizione o criterio di determinazione sia della differenza tra colpa lieve e colpa grave sia delle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, al contrario di quanto previsto dalla normativa in materia di sicurezza sul lavoro, che appunto si occupa precisamente di serietà e di scientificità delle linee guida agli artt. 2 lett. v) e z), 6 lett. d), 9 lett. i) e l) D.Lgs. n. 81/08 [19, 20].

Altro motivo di incostituzionalità è stato individuato dal Tribunale nella lesione dell’autonomia del medico, tutelata dall’art. 33 Cost., e nella violazione del principio di uguaglianza.

Infatti, quanto al primo profilo, la riforma «deresponsabilizza penalmente soltanto chi si attiene alle linee guida e alle buone prassi con l’effetto di inibire e atrofizzare la libertà del pensiero scientifico, la libertà di ricerca e di sperimentazione medica, la libertà terapeutica che costituisce una scelta del medico e del paziente, perché confina ogni scelta diagnostica e/o terapeutica all’interno di ciò che è stato già consacrato e cristallizzato dalle linee guida o dalle buone prassi» [19]. In effetti, le linee guida non dovrebbero limitare la libertà terapeutica, bensì orientare il medico verso il miglior uso delle risorse disponibili in funzione della protezione del paziente [3]. Inoltre, il rigido riferimento alle linee guida quale criterio per accertare la sussistenza della colpa, rischia di ridurre l’accertamento della responsabilità colposa alla pura inosservanza della regola prescritta; trasformando così i delitti di lesione e omicidio esclusivamente a reati di condotta [21].

Quanto alla disparità di trattamento tra medici, «L’area di non punibilità è ingiustificatamente premiale per coloro che manifestano acritica e rassicurante adesione alle linee guida o alle buone prassi ed è altrettanto ingiustificatamente avvilente e penalizzante per chi se ne discosta con una pari dignità scientifica» [19].

Infine, un ulteriore profilo di disuguaglianza è stato sollevato nel confronto tra medici e altri dipendenti pubblici.

I primi, infatti, beneficerebbero di una limitazione di responsabilità penale alla sola colpa grave, mentre tutti gli altri dipendenti pubblici, pur esercitando una «attività che ha una relazione quotidiana con i medesimi beni giuridici (salute, integrità psicofisica della persona, vita, incolumità pubblica, incolumità individuale, incolumità di beni, erogazione di un servizio pubblico) non sono graziati dalla colpa lieve. Questi ultimi, infatti, a parità di condotta lievemente colposa, lesiva dei medesimi beni giuridici, continuano a rispondere ordinariamente dei medesimi reati colposi. (…) Di certo la nostra legislazione prevede per alcuni dipendenti pubblici una responsabilità soltanto per colpa grave ma con riferimento alla responsabilità civile e amministrativa non alla responsabilità penale. (…) Un esonero da responsabilità penale per qualsiasi tipo di reato lievemente colposo soltanto per gli esercenti la professione sanitaria, pone una possibile lesione del principio di eguaglianza anche nella responsabilità penale dei dipendenti pubblici ex artt. 3 e 28 Cost.» [19].

Pertanto, alla luce di queste prime sentenze, la giurisprudenza non appare orientata a valorizzare il nuovo e più pregnante ruolo che il legislatore ha voluto riservare alle linee guida nelle aule giudiziarie. Se questa tendenza giurisprudenziale dovesse consolidarsi, occorrerà trovare nuovi strumenti legislativi per arginare la medicina difensiva e valorizzare la dignità della professione medica in funzione della tutela della salute dei pazienti.

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