PM&AL 2014;8(4)135-138.html

Il diritto è giurisprudenza: «Del doman non v’è certezza». Commento a: Tribunale di Milano, sez. I civ., sentenza 17 luglio 2014 (Est. Patrizio Gattari)

Marina Grassini 1

1 Specializzanda, Scuola di specializzazione per le professioni legali, Università di Siena

Abstract

Today, more and more evidence is perfected a peculiar creation process of law: law is jurisprudence! The judgment of the Court of Milan, here under review, sets out a direction completely contrasting with the well-established theory of liability of “social contact” in the health sector.

The point at issue? The same for some time, now: the Decree Balduzzi revived the responsibility model in force before the landmark ruling in 1999, or only represented a failure of the Legislator?

The jurisprudential debate arises from the interpretation of Article 3 of Law 189 of November 8, 2012, the conversion of D.L. September 13, 2012 n. 158, the notorius “Decree Balduzzi”.

The Court of Milan promotes the interpretation that the second part of Article 3 of Law n. 189/2012, would change the “living law”, making a choice in line with the purpose of containing the costs of compensation of public health and to remedy the phenomenon of so-called “defensive medicine”, “throwing to the nettles” the usability in practice of the theory of social contact. The position taken by the Court of Milan cannot be shared: the reference to art. 2043 of the Civil Code must be interpreted as a failure of the Legislator, too worried about reducing health care costs. We must therefore continue to apply the model of liability of art. 1218 of the Civil Code, and then the theory of social contact. Anyway: posterity will judge!

Keywords: Medical liability; Social contact; Decree Balduzzi

Law is jurisprudence: “there is no certainty of tomorrow”. Comment to: judgment of the Court of Milan, July 17th 2014

Pratica Medica & Aspetti Legali 2014; 8(4): 135-138

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v8i4.965

Corresponding author

Marina Grassini

marina.grassini.3wtm@alice.it

Disclosure

L'autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

 

Il titolo del presente scritto è emblematico: oggi, e con sempre maggior evidenza, si perfeziona un eterodosso processo di creazione del diritto. Il percorso ermeneutico di matrice manualistica che dalla disposizione faceva emergere la norma giuridica, come Venere dalle acque, oggi è esattamente invertito: è dalla norma che nasce la disposizione, è la giurisprudenza che crea la legge. Sì, perché non troverebbe altrimenti spiegazione la circostanza per cui, a distanza di un solo giorno, due Tribunali di merito definiscano un’analoga controversia pervenendo a soluzioni assolutamente divergenti: Tribunale di Milano, sez. I civ., sentenza 17 luglio 2014 (Est. Patrizio Gattari) e Tribunale di Brindisi, sentenza 18 luglio 2014 (Est. Antonio Ivan Natali).

Il punto controverso? Il medesimo ormai da tempo: il Decreto Balduzzi ha occasionato la riviviscenza del modello di responsabilità anteriore al revirement del 1999, oppure ha solo rappresentato una “svista” del Legislatore?

Se dunque il Tribunale di Brindisi si colloca in un’ottica assolutamente conservatrice, e in linea con l’orientamento dominante della Suprema Corte, “eversiva” si può invece definire la pronuncia del Giudice milanese, qui in commento.

Il dibattito giurisprudenziale trae origine dall’esegesi dell’art. 3 della Legge 8 novembre 2012 n.189, di conversione del D.L. 13 settembre 2012 n. 158, il famigerato “Decreto Balduzzi”: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo».

La sentenza del Tribunale di Milano, sin da subito, delimita l’ambito di applicazione della summenzionata disposizione, precisando che essa non incide in alcun modo né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata), né su quello del medico che abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale, per i quali, in caso di inadempimento, trova sempre applicazione la disposizione di cui all’art. 1218 del codice civile (c.c.). In particolare, tra la struttura sanitaria pubblica o privata e il paziente, si perfeziona, con la sola accettazione del malato nella struttura, anche per facta concludentia, un contratto atipico cosiddetto «di spedalità» o di «assistenza sanitaria», che obbliga la struttura ad erogare prestazioni non solo strictu sensu sanitarie, bensì anche di natura “alberghiera” (es. vitto, alloggio, etc.), l’inadempimento delle quali non può che dar luogo ad una responsabilità ex art. 1218 c.c.

Medesima disposizione trova altresì applicazione nel caso in cui il medico abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale, differente dal rapporto che lega il sanitario alla struttura in cui opera, nonché dal rapporto tra paziente e struttura: anche in tal caso, è indubbio che il danneggiato possa invocare la tutela risarcitoria ex art. 1218 c.c.; pertanto, in entrambe le ipotesi, è indifferente che il creditore/danneggiato agisca in giudizio, a fini risarcitori, nei confronti della sola struttura, del solo sanitario, o di entrambi: sarà sempre esperibile un’azione di responsabilità contrattuale o da inadempimento.

Differente è invece il caso in cui il medico, agente all’interno della struttura in qualità di dipendente o collaboratore, non sia legato da un contratto d’opera al paziente danneggiato, ovvero da un contratto autonomo e diverso da quello che lo lega alla struttura: è in tale fattispecie, secondo il Giudice milanese, che troverebbe applicazione la disposizione di cui all’art. 3 della Legge n.189/2012. In assenza cioè di un contratto tra medico operante nella struttura e paziente, non si instaurerebbe, come da sempre sostenuto, il c.d. «contatto sociale», fonte di un obbligo risarcitorio ex art. 1218 c.c., bensì sarebbe l’art. 2043 c.c. a disciplinare la tutela risarcitoria, in ossequio al dato letterale del citato art. 3, con l’evidente conseguenza che nel caso in cui, oltre al medico, venisse convenuta in giudizio la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, il regime della responsabilità sarebbe distinto: l’art. 2043 c.c. troverebbe applicazione per la condotta medica, l’art. 1218 c.c. per la struttura.

Il Tribunale di Milano si rende dunque portavoce di quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il secondo periodo dell’art. 3 della L. n. 189/2012, muterebbe il “diritto vivente”, operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri risarcitori della sanità pubblica e di rimedio al fenomeno della c.d. medicina difensiva, “gettando alle ortiche” la utilizzabilità in concreto della teoria del contatto sociale. Ma invero le soluzioni cui si perviene nella sentenza non convincono. Il Giudice milanese, confutando quanto statuito dalla VI sezione della Corte di Cassazione nell’ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940, ripercorre l’iter legislativo dell’art. 3 del D.L. 158/2012, il quale in sede di conversione, aveva subìto una radicale modifica nel suo contenuto. Nella formulazione originaria infatti, alcun riferimento vi era né alla responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria, né alcun richiamo alla responsabilità ex art. 2043 c.c. Il dato legislativo era il seguente: «fermo restando il disposto dell’art. 2236 c.c., nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie, il giudice, ai sensi dell’art. 1176 c.c., tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buona pratiche accreditate dalla comunità scientifica». Dunque, è dall’espresso riferimento all’art. 2043 c.c. in sede di conversione, che il Tribunale di Milano ha dedotto l’adesione a tale modello di responsabilità.

È evidente che il supporto motivazionale non sia persuasivo. Per fortuna il legislatore ha modificato la pregressa disposizione, che altrimenti sarebbe risultata “tamquam non esset”, data la sua assoluta assenza di significato!

Prima di entrare nel merito della questione, si rende però forse opportuno un chiarimento: ma quali sono gli effetti concreti di un mutamento di indirizzo giurisprudenziale in tema di responsabilità medica? In altri termini, quali sono gli effetti dell’applicazione dell’art. 2043 c.c., piuttosto che del consolidato art. 1218 c.c.?

A costo di ripetizioni, invito, anzitutto, il lettore a prestare attenzione ad un dato di importanza fondamentale: questo problema si pone SOLO con riferimento alla responsabilità del sanitario che NON sia legato da un contratto d’opera al paziente; riguarda cioè tutti quei casi in cui avrebbe trovato applicazione la teoria del contatto sociale! Continua invece a regnare l’art. 1218 c.c. su tutte le ipotesi di responsabilità della struttura, nonché di sanitari legati al paziente da un contratto d’opera professionale.

Ma entriamo nel dettaglio. L’art. 1218 c.c. si profila nel panorama giuridico quale norma madre in materia di responsabilità contrattuale, altrimenti detta responsabilità da inadempimento di pregressa obbligazione. Sì, perché l’art. 1218 c.c., per trovare applicazione, necessita della preesistenza di un rapporto giuridico tra le parti: il debitore, che non eseguirà esattamente la prestazione dovuta, sarà tenuto al risarcimento del danno, qualora non riesca a provare che l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. La medesima disciplina si applica altresì nell’ipotesi in cui, pur non esistendo un contratto tra le parti, tra esse si sia instaurato comunque un rapporto, originato dalla fiducia che il paziente ripone nelle competenze e nella professionalità del sanitario, il c.d. “contatto sociale qualificato”, tale da legittimare l’applicazione dell’art. 1218 c.c.

Differente è invece la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., che presuppone invece l’assenza di un preesistente rapporto giuridico tra le parti: si parla infatti comunemente di responsabilità “del passante” o “del chiunque”, in quanto chiunque abbia posto in essere un fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, è obbligato al risarcimento del danno.

Il regime delle responsabilità presenta ovviamente significative differenze, che incidono tanto sul termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, tanto sugli oneri probatori: se nell’ipotesi del “contatto sociale” il creditore/danneggiato gode di un termine decennale per l’esperimento dell’azione giudiziale, nel caso di illecito aquilano, si vedrà decurtato il medesimo termine di ben cinque anni! Allo stesso modo, nel primo caso, il creditore/danneggiato avrà l’onere di allegare e provare l’esistenza del rapporto di cura, il nesso causale e il danno, dovendo solo allegare, ma non provare, la colpa medica; diversamente nell’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c., incomberà esclusivamente sulla persona del danneggiato la prova della sussistenza di tutti i presupposti della responsabilità!

È dunque evidente come l’orientamento della sentenza sia la risposta al dichiarato intento del Legislatore di fronteggiare la pletora di azioni giudiziali e dunque di ridurre i conseguenti oneri risarcitori: tale finalità non può però, in quanto tale, giustificare l’adesione ad un diverso modello di responsabilità!

Vi sono infatti molti argomenti che smentiscono la portata rivoluzionaria del “famoso” art. 3, e non fanno altro che confermare la consolidata e storica teoria del “contatto sociale”, con conseguente applicazione della norma di cui all’art. 1218 c.c.

È opportuno anzitutto contestualizzare la disposizione in questione, atteso che essa fa espresso riferimento alla responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria, escludendola, per colpa lieve, nel caso in cui questi, nello svolgimento della propria attività, si attenga a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

La norma precisa che «in tali casi» resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile: è evidente dunque che, anche a voler dare rilievo all’art. 2043 c.c., esso resta strettamente connesso a condotte a rilevanza penale. Rimandando ad altra sede l’indagine sui neanche così latenti profili di incostituzionalità di una legge “ad professionem”, preme rilevare che il dettato legislativo è chiaro nel sancire il principio per cui, la condotta medica, esente da responsabilità penale in caso di colpa lieve, rileva in ogni caso, sotto il profilo civilistico, obbligando il medico al risarcimento del danno.

Il richiamo all’art. 2043 c.c. deve essere interpretato in rapporto all’art. 185 del codice penale (c.p.), a mente del quale ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole. Prescindendo dalla qualificazione della disposizione penale come norma primaria o secondaria, deve concludersi che il richiamo alla responsabilità aquiliana (o extracontrattuale) deve essere confinato anzitutto alle ipotesi di esercizio dell’azione civile in sede penale; in secondo luogo, l’obbligo al risarcimento sorge in conseguenza di un illecito penale, dunque è evidente l’applicazione della norma madre in materia di illecito extracontrattuale. Ciò dunque non può certo significare che il Decreto Balduzzi abbia voluto sovvertire il sistema delle responsabilità e cancellare la teoria del contatto sociale, come sostenuto dal Tribunale di Milano! Anche perché si addiverrebbe all’assurdo di considerare che, se anche la responsabilità contrattuale fosse stata sostituita dalla disciplina dell’illecito aquiliano, ovviamente il suo raggio d’azione sarebbe limitato ai soli casi, come anticipato, di esercizio dell’azione civile in sede penale, o in caso di esercizio dell’azione civile in sede civile, ma solo quando in sede penale sia intervenuto l’accertamento, passato in giudicato, dell’esimente prevista dal primo periodo dell’art. 3 L.189/2012!

In altri termini, il riferimento all’art. 2043 c.c. è semplicemente un atecnico riferimento ad un obbligo di risarcimento conseguente alla commissione di un illecito che avrebbe in astratto rilevanza penale, ma che in concreto ne è esente in quanto con colpa lieve il sanitario si è attenuto, nello svolgimento della propria attività, a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Peraltro, essendo una norma penale, quella in cui si profila il richiamo all’art. 2043 c.c., sussiste il divieto di estensione in via analogica della disciplina, ai sensi dell’art. 14 delle Preleggi!

Ritengo dunque che, in ossequio al consolidato orientamento della Suprema Corte sul punto, la responsabilità da “contatto sociale” non sia stata in alcun modo “gettata alle ortiche”, ma anzi continui imperante a regnare sovrana nel panorama del diritto sanitario. Peraltro, è stato lo stesso Ministro Balduzzi, in sede di entrata in vigore della disposizione de qua, a precisare: «la norma (art. 3) non stravolge il regime della responsabilità, non deresponsabilizza l’esercente le professioni sanitarie».

Poi, per carità: ai posteri l’ardua sentenza!

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