PM&AL 2015;9(3)61-69.html

La Risonanza Magnetica Nucleare nei pazienti portatori di Dispositivi Impiantabili attivi: implicazioni legali

Massimo Marini 1

1 Ordine Avvocati Busto Arsizio

Abstract

The Italian Ministerial Decree 02.08.1991 forbids Nuclear Magnetic Resonance (NMR) in patients with Active Implantable Medical Devices. This Decree is still in force despite the commercialization of new devices that, according to manufacturers, are compatible with NMR. The lacking of Decree updating generates a variety of behaviors, since physicians themselves are not in agreement, especially in those cases in which there is uncertainty about the compatibility of the device. In these cases, the decision is left to the physician.

This article provides a broad overview on the evolution of jurisprudence concerning the role and the responsibilities of physicians. Starting from the right to selfdetermination and the right to health guaranteed by Italian laws to the patients, informed consent was rendered compulsory, hypothesizing a different relationship between patients and doctors, more patient- than doctor-centered. However, rather than creating a more mature relationship among the two players, jurisprudence has evolved in the sense of growing responsibilities given to physicians, who are now harassed by several lawsuits. We hope that the still evolving healthcare jurisprudence will create a more serene atmosphere for healthcare professionals.

Keywords: Nuclear Magnetic Resonance; Medical Devices; Informed Consent; Selfdetermination

Nuclear Magnetic Resonance in patients with Active Implantable Medical Devices: legal implications

Pratica Medica & Aspetti Legali 2015; 9(3): 61-69

http://dx.doi.org/10.7175/pmeal.v9i3.1194

Corresponding author

Massimo Marini

massimo.marini@tin.it

Disclosure

L’autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Il nodo della questione

Il tema della responsabilità dell’operatore sanitario nell’uso della Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) in pazienti portatori di medical device attivi è tutto costruito attorno al diritto fondamentale alla salute, di rango costituzionale (art. 32 Cost. [1]), riconosciuto all’individuo.

Nell’ordinamento italiano, per effetto di una disposizione contenuta nel D.M. 02.08.1991 [2] dettante “Autorizzazione alla installazione ed uso di apparecchiature diagnostiche a risonanza magnetica”, continua a vigere il divieto generale di sottoporre a tale metodologia diagnostica le «persone portatrici di pace-maker cardiaco; altre protesi dotate di circuiti elettronici; preparati metallici intracranici o comunque posizionati in prossimità di strutture anatomiche vitali; clips vascolari o schegge in materiale ferromagnetico».

Come noto, i costruttori di dispositivi impiantabili attivi, grazie al continuo sviluppo tecnologico e alla ricerca, hanno immesso in commercio unità che, rispettando determinate condizioni tecnico-operative, consentono l’uso delle apparecchiature di Risonanza Magnetica sui pazienti che ne sono portatori, così aprendo a un grande numero di soggetti i numerosi vantaggi di tale più moderno strumento diagnostico.

Il mancato aggiornamento del D.M. 02.08.1991 da parte del Legislatore determina purtroppo una consistente situazione di diversità e discontinuità di azioni nell’ambito delle strutture del Sistema Sanitario Nazionale poiché non vi è unanimità di vedute, anche in seno agli operatori sanitari e tra le loro diverse specializzazioni, nel ritenere che lo stato attuale della tecnica e della tecnologia consenta di opportunamente bilanciare e limitare, in modo proprio, il rischio osservato a favore del beneficio atteso.A titolo di esempio (non esaustivo), un paziente oncologico portatore di pace-maker di vecchia generazione (unsafe) o “RM conditional” rischia oggi di sentirsi negare l’accesso a un esame di RMN e di rimanere così escluso dai più evoluti protocolli diagnostici.

È certo che il divieto in questione è vissuto dai costruttori di medical device, dagli operatori sanitari e dagli interpreti del diritto vivente come una situazione anacronistica, frutto di un persistente, mancato aggiornamento della regola da parte del Legislatore, in contrasto persino con la Direttiva 2007/47/CE [3] dettata in materia di ravvicinamento della legislazione degli Stati membri della Unione Europea in materia di costruzione e immissione in commercio di dispositivi medici.

Il caso del divieto ministeriale italiano ben rappresenta il paradigma della situazione nella quale l’operatore sanitario si trova nel quotidiano a prendere decisioni, quasi obbligate, nell’interesse prevalente del paziente per consentirgli di tutelare la salute, consapevole che, sullo sfondo della sua decisione, aleggia il profilo complesso e controverso della colpa nella responsabilità medica.

Come comportarsi, dunque, innanzi a una richiesta di esame in RMN proveniente da un paziente portatore di un dispositivo medico attivo, quando non si ha la certezza, diremo cartesiana, della compatibilità di tale dispositivo con l’ambiente diagnostico-operativo della Risonanza Magnetica?

Si tratta invero di una decisione non semplice, da collocare nel perimetro di una questione aperta che attraversa trasversalmente il lungo processo di elaborazione giurisprudenziale della colpa sanitaria, non immune da travaglio anche in dottrina; percorso che trae origine nel principio innovativo che la carta costituzionale repubblicana introdusse con la previsione dell’art. 32 (la quale non trovava riscontro in altri ordinamenti contemporanei).

Il diritto alla salute

Il diritto alla salute dell’individuo è un diritto fondamentale della persona che gode di tutela immediata nei rapporti con i poteri pubblici e nei confronti dei privati.

Nel mondo giuridico si afferma, per questa ragione, che tale diritto non ha necessità dell’intervento del legislatore per la sua attuazione.

Diremo subito che la decisione del caso in esame, in definitiva, è lasciata alla discrezionalità dell’operatore sanitario che rimane l’agente professionale per la adozione della migliore soluzione nel dubbio, ancorché vi siano certamente linee di azione ben marcate.

Ricordiamo, per tracciare un percorso di orientamento, che l’opera interpretativa e progressiva dei Giudici, a cominciare dalla Corte Costituzionale, ha definito via via il significato e la portata del diritto alla salute, pervenendo alla affermazione anche di princìpi di diritto privato che formano oggi i criteri per individuare e giudicare la responsabilità sanitaria.

In questo contesto, nel quale il diritto alla salute non è comprimibile (ma ricordiamo che non lo è neppure l’autonomia professionale del medico), giocano senza dubbio un ruolo primario le modalità di organizzazione ed esercizio della professione sanitaria.

Il nostro ordinamento giuridico presidia infatti l’aspettativa dell’individuo di vedere tutelata la propria salute prescrivendo ai sanitari da un parte l’osservanza di regole generali di condotta, dall’altra disponendo la vigilanza degli organi della professione sulle loro azioni nell’ambito del sistema delle regole di deontologia professionale.

I giudici di legittimità hanno ricordato come, salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non è di norma il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti o condizioni. Poiché infatti «la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione». Dunque, «autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano un altro punto di incrocio dei principi di questa materia». Si è esclusa così qualsiasi ingerenza del Legislatore sul “merito delle scelte terapeutiche” [4,5].

Il principio rimane valido anche quando l’ingerenza sia datata nel vietare dei trattamenti terapeutici (il caso del D.M. 02.08.1991 ricade in tale alveo) sul presupposto della loro particolare rischiosità e/o dubbia efficacia terapeutica.

Ne discende sempre la valorizzazione primaria del ruolo del medico al quale fanno capo la libertà e la responsabilità, e non solo il diritto professionale, di esprimere la valutazione del caso concreto, attingendo alla propria esperienza e ai contenuti delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche.

Il consenso informato

In questo quadro di riferimento si deve aggiungere un ulteriore tassello fondamentale, rappresentato dal consenso informato del paziente.

È indubbio infatti che nell’ampia dizione di “diritto ad essere curati” rientri il diritto di ricevere le prestazioni sanitarie più adeguate e aggiornate con il sapere scientifico. È altresì indubbio che quel diritto alla cura, onde rimanere ancorato al rango di tutela costituzionale, presupponga la possibilità in capo al malato di scegliere consapevolmente il medico e la terapia, cioè di essere protagonista informato del percorso clinico e terapeutico che l’operatore sanitario, esprimendo il momento della sua autonomia e capacità professionale, è in grado di offrirgli per cercare di superare l’afflizione della malattia, per recuperare l’integrità psico-fisica.

Si tratta di una visione alta, quasi ideale (ma non per questo scevra da implicazioni di responsabilità civile e penale) che ha segnato negli ultimi trent’anni della storia della giurisprudenza il superamento della concezione della “potestà” del medico di curare, in favore della moderna rappresentazione del “rapporto” fra medico e paziente in termini di collaborazione [6].

Autodeterminazione del paziente e diritto alla salute, dunque, trovano la sintesi nella necessità di acquisire il “consenso informato”. Se è vero che il paziente ha diritto di essere curato, è altrettanto non dubitabile che egli deve poter comprendere, ricevendo dall’operatore sanitario le necessarie informazioni in concreto, la natura e gli sviluppi del percorso terapeutico propostogli dal medico con l’enunciazione dei rischi e delle eventuali terapie alternative.

L’emersione della figura del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, ha rappresentato invero lo snodo più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria in tema di responsabilità del medico.

La giurisprudenza più datata della Corte di Cassazione affermava che «il medico ha seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea» [7]. Questa visione presuntiva della capacità professionale fece nascere alcuni corollari interpretativi, tra i quali quello secondo cu il paziente non dovesse “impicciarsi” delle scelte del medico essendo quest’ultimo l’unico e solo dominus della strategia terapeutica.

Il riconoscimento, come si è detto, della natura fondamentale del diritto alla salute come diritto dell’individuo ha determinato la necessità del consenso del paziente quale causa di giustificazione di una azione – quella del medico – che, essendo certamente invasiva e potenzialmente lesiva dell’integrità psicofisica dell’individuo, sarebbe stata da considerare giuridicamente non lecita in assenza del consenso dell’interessato.

Sull’asse della tutela della autonomia delle scelte, il medico, portatore di un sapere non contestabile, è stato spostato dalla posizione centrale a quella laterale. Al suo posto è stato collocato il paziente, il quale è stato visto come individuo proprietario della propria salute e, quindi, come unico soggetto al quale compete la decisione di merito di ricevere o meno le cure.

Il medico è divenuto in qualche modo il gestore della salute del paziente. Attorno a questo concetto è stato costruito il Sistema Sanitario Nazionale anche a seguito della istituzione delle Regioni e delle U.S.S.L.

Il paziente potrà esercitare consapevolmente il suo diritto solo se debitamente informato su tutto quanto possa concernere la cura.

La responsabilità dei sanitari

Da questa lettura orientata in chiave costituzionale, ne è discesa la ulteriore conseguenza secondo la quale l’obbligo di informazione, nato come causa di giustificazione del trattamento sanitario, è divenuto esercizio di un diritto del paziente da valutare, se non correttamente adempiuto o omesso, come elemento di esplosione della responsabilità sanitaria.

Questo sforzo interpretativo volto a rendere così forte la tutela del diritto alla salute nel contesto di una costruzione complessa, come si è accennato, del diritto stesso, ha condotto tuttavia la professione sanitaria al cospetto dei giudici più di quanto lo stesso Legislatore costituzionale potesse aspettarsi quando scrisse l’articolo 32 nella Carta repubblicana.

L’attualità è contrassegnata dalla diffusività del problema della responsabilità dell’operatore sanitario, fenomeno cresciuto nel tempo con quadratica progressione, che ha finito per diventare una vera e propria “malattia sociale”.

La responsabilità dei sanitari (medici e strutture ospedaliere) ha conosciuto negli ultimi vent’anni trasformazioni radicali.

Il quadro normativo in materia di responsabilità professionale, colpa e nesso causale è rimasto pressoché immutato dal 1942 ad oggi. La giurisprudenza ha tuttavia reinterpretato e scritto tutti gli aspetti della materia dedicando regole specifiche alla valutazione della responsabilità medica.

Vi è stata una revisione profonda della natura dell’obbligazione del medico, della colpa, dal nesso di causalità alle esimenti, dei danni risarcibili, del riparto dell’onere della prova tra medico e paziente.

Si è detto autorevolmente che l’indice del titolo “Responsabilità del medico” è stato segnato dalla tendenza a un costante e forte rialzo [8].

I numeri rappresentano il fenomeno meglio di qualsiasi commento: dall’anno 1942 (anno di entrata in vigore del codice civile) all’anno 1990, nell’archivio Italgiure della Corte di Cassazione [9] sono state inserite 60 massime in materia di responsabilità del medico (in media poco più di una all’anno); negli anni dal 1991 al 2000 il numero delle massime inserite in tema di responsabilità medica è salito a 83 (in media otto all’anno), per ascendere a 201 negli anni dal 2001 al 2011 (in media 20 all’anno). I numeri sono ancora in crescita alla data odierna [10].

Conseguenze dell’introduzione del consenso informato

La costruzione sistematica di metodiche di “medicina difensiva”, le modalità economico-gestionali di uso dei mezzi di diagnosi e la crescita dei premi assicurativi rappresentano soltanto una piccola porzione delle distorsioni che il fenomeno ha innescato.

Si può dire, senza timore di smentita, che quella collaborazione medico/paziente che ha ispirato la costruzione della figura del “consenso informato” non si è tradotta, nella sensibilità e nella percezione sociale del rapporto dell’individuo con l’operatore sanitario, nella espressione di un maturo affidamento reciproco tra le due figure.

A questo fenomeno si è assommato il percorso della giurisprudenza che non è stato affatto lineare, anzi è stato contrassegnato da battute di arresto e tortuosità spesso disarmanti anche per l’operatore giuridico e non solo per il professionista sanitario.

La peculiarità della responsabilità medica non è stata limitata al fenomeno della crescita del contenzioso giudiziale. L’evoluzione della materia è stata alquanto caratterizzata dalla elaborazione da parte della giurisprudenza di regole dettate per la sola responsabilità del medico e, in generale, dell’operatore sanitario.

Queste regole hanno riguardato la natura stessa della responsabilità; il riparto dell’onere della prova, l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 2236 c.c. [11], l’accertamento del nesso causale tra condotta colposa ed evento di danno.

In base a questa individuazione di un complesso di regole “dedicate” di giudizio, si può affermare che la responsabilità del medico ben potrebbe essere tenuta distinta dalla analoga responsabilità degli altri professionisti. In altre parole, nel contesto generale delle regole che disciplinano la responsabilità civile, è andato delineandosi una sorta di sottoinsieme di princìpi e regole, concepito per la valutazione degli elementi fondanti la responsabilità sanitaria.

Principi per la valutazione della responsabilità sanitaria

La enunciazione di questo concetto attraversa una serie di istituti civilistici. In sintesi si può osservare quanto segue.

  1. Secondo il combinato disposto degli artt. 2043 [12] e 2697 c.c. [13], che costituisce la regola generale, l’onere di provare la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; nel caso della responsabilità medica, la giurisprudenza ha interpretato il principio e ha affermato che il paziente può invocare la presunzione di colpa sancita dall’art. 1218 c.c [14]. E ciò anche nel caso in cui non vi sia alcun contratto tra il paziente e il medico.
  2. In base alla prevalente interpretazione degli artt. 40 [15] e 41 c.p. [16], i quali dettano la disciplina del nesso eziologico tra la condotta illecita e l’evento di danno, quest’ultimo si può ritenere “causato” dal danneggiante quando sia stata raggiunta la prova positiva che, in difetto della condotta del responsabile, il danno non si sarebbe prodotto; nel caso della responsabilità medica, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto esistente il nesso causale anche quando vi sia incertezza circa l’effettiva causa del danno, a condizione che il medico abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a causarlo [17,18].
  3. In tema di responsabilità civile è principio generale che il danneggiante non possa rispondere dei danni quando nella sua condotta non siano ravvisabili profili di colpa; in tema di responsabilità medica, tuttavia, la giurisprudenza ha alzato l’asticella della valutazione della condotta colposa del medico, esigendo non soltanto che l’esecuzione dell’intervento sia diligente ma anche che il paziente sia stato adeguatamente e preventivamente informato della natura e dei rischi della prestazione. Ne consegue che, in difetto di consenso informato, adeguato e concreto nel caso singolo, il medico potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze sfavorevoli dell’intervento [19,20].
  4. Un quarto decisivo scostamento del “sistema” della responsabilità medica rispetto ai princìpi della responsabilità civile è rappresentato dal trattamento estensivo riservato alla colpa per omissione. Tenuto conto infatti che, per principio di legge (art. 2043 c.c. [12]) in ambito extracontrattuale (dunque al di fuori dalle regole negoziali dettate da un contratto tra le parti) ogni soggetto ha l’obbligo di astenersi dal violare l’altrui sfera giuridica (neminem laedere) ma nessuno può essere costretto ad attivarsi per preservare gli altrui beni, nel campo medico il principio è stato letto sfavorevolmente all’operatore sanitario. Si è così affermato che il medico, anche quando opera al di fuori di un rapporto contrattuale [21], è sempre tenuto a conformare la propria condotta agli stessi princìpi di correttezza e buona fede che presiedono all’adempimento delle “obbligazioni contrattuali”. Egli ha l’obbligo di attivarsi, anche ben oltre il limite dell’apprezzabile sacrificio, per accertare e curare, non solo le patologie per le quali il paziente sia stato ricoverato, ma anche qualsiasi altra patologia dalla quale il paziente sia affetto, ove obiettivamente riscontrabile [17].

Vi sono poi le copiose pronunce inerenti i profili delle specializzazioni sanitarie che contengono ulteriori inasprimenti dei princìpi sopra riportati, in virtù delle diligenza specifica che viene pretesa dall’operatore alla stregua del suo presunto bagaglio di conoscenze professionali.

La responsabilità da contatto sociale

A questo insieme di regole interpretative, si è aggiunta la figura della cosiddetta “responsabilità da contatto sociale” che ha collocato l’operatore sanitario nel contesto di un contratto figurativo costruito tra il medico e il paziente, attraverso il quale, sfavorevolmente per il primo, alla responsabilità colposa sono stati resi applicabili i canoni dell’inadempimento dell’obbligazione contrattuale.

Nell’alveo di questo ultimo orientamento, il rapporto tra il medico pubblico dipendente e il paziente, pur non scaturendo formalmente da alcun contratto (che, se mai, viene stipulato tra l’ente ospedaliero o la A.S.L., e il paziente stesso), diviene un rapporto giuridico decisivo nel quale ciascuna delle parti è titolare nei confronti dell’altra di quei diritti e obblighi che scaturirebbero da un contratto di prestazione d’opera (il paziente ha diritto di essere curato, il medico ha l’obbligo di eseguire con diligenza la propria prestazione).

I giudici affermano, per sintetizzare il concetto, che se è vero che, prima del fatto illecito, tra medico e paziente non esiste oggettivamente alcun rapporto – e quindi il medico non ha l’obbligo di eseguire la prestazione sanitaria nei confronti del paziente – nondimeno, se il medico interviene, perché è obbligato a rendere la prestazione essendo egli inserito nell’azienda o nell’ospedale datore di lavoro, nel caso di negligente esecuzione della prestazione egli risponderà a titolo contrattuale [21].

Nella sentenza della responsabilità “da contatto” (Cass. 589/99, [21]), si è affermato, più in particolare, che «la prestazione [...] del medico nei confronti del paziente non può che essere sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d’opera professionale tra i due», e ciò in ragione del fatto che trattandosi di professione «che non può svolgersi senza una speciale abilitazione dello Stato, da parte di soggetti di cui il pubblico è obbligato per legge a valersi, e quindi trattandosi di una professione protetta, l’esercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda se esista o meno un contratto».

Il giudizio sulla condotta diligente

Costruita la figura della responsabilità nel profilo della condotta esigibile dal medico “medio”, quando si tratti di stabilire se essa sia stata colposa o meno, la giurisprudenza ha applicato la regola di maggior rigore dettata dal comma 2° dell’art. 1176 c.c. [22], secondo cui il professionista nell’adempimento delle proprie obbligazioni è tenuto non già alla diligenza generica del bonus paterfamilias, ma alla exacta diligentia dell’homo eiusdem generis et condicionis.

Il principio sottende la conclusione secondo la quale tiene sempre una condotta negligente il medico che non si comporti come qualunque bravo medico “ideale” avrebbe fatto nelle medesime circostanze.

La condotta diligente non è il contenuto della prestazione professionale (cioè quello che il medico deve fare) ma costituisce il parametro alla stregua del quale il giudice valuta se l’inadempimento sia colposo o meno (il come l’obbligazione doveva essere adempiuta).

La Corte di Cassazione ha precisato a più riprese che il medico “medio” di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. [22], non è un medico mediocre ma è piuttosto un medico molto bravo. Anzi si tratta di un professionista preparato e capace, che è sensibile agli aggiornamenti continui degli studi, che si preoccupa della sorte del cliente/paziente anche quando non è tenuto a essere presente presso la struttura sanitaria, che segue il paziente anche nelle alternative terapeutiche possibili e ragionevoli.

Anche con riferimento a tale principio il caso paradigmatico è datato. Nella sentenza Cass. 8.3.1979, n. 1441 si legge: «La prestazione professionale del chirurgo non si esaurisce nel compimento del puro e semplice atto operatorio, ma comprende tutto il complesso di cure e di rimedi cui il paziente deve essere assoggettato allo scopo di praticare l’intervento con il minore rischio e di assicurare in seguito un rapido e favorevole decorso dell’infermità, prevedendo o eliminando le possibili complicazioni attraverso le misure ritenute più opportune. Ne discende che, ove per il mancato compimento di tale attività, il paziente subisca un evento lesivo collegato all’insorgere di dette complicanze, non può negarsi la responsabilità del chirurgo, qualunque sia la natura, contrattuale o meno, dell’opera professionale da lui prestata nei confronti del paziente, trattandosi di compiti strettamente inerenti all’attività professionale del chirurgo, il quale è comunque tenuto al loro assolvimento quando procede ad un intervento chirurgico, indipendentemente dal rapporto giuridico in base al quale egli l’esegue e, quindi, anche se il paziente abbia concluso il contratto di prestazione d’opera professionale con il responsabile sanitario della clinica, in cui l’intervento chirurgico è stato poi effettuato. Né tale responsabilità viene meno ove il chirurgo non abbia l’Obbligo di trattenersi nella clinica ove ha effettuato l’intervento operatorio, dal momento che dal compimento dell’intervento stesso discende il suo Obbligo di praticare tutti i necessari trattamenti post-operatori e quindi di fare in modo di essere prontamente avvertibile per apprestare i necessari rimedi contro possibili complicanze» [23].

Vero è peraltro che la professione sanitaria non accetta di appiattire la propria autonomia attorno al sapere di un gruppo di esperti che dettano le regole tecniche (chiuse) della prestazione terapeutica ma, al contempo, la giurisprudenza non ammette che un medico non aggiornato prenda decisioni contrarie a una ragionevole certezza ormai acquisita nella comunità scientifica internazionale.

Principi alla base dell’ulteriore allargamento della responsabilità medica

Non fosse bastato l’impianto concettuale della teoria del contatto sociale, nelle sentenze si è assistito a un ulteriore allargamento della responsabilità medica nel contesto dell’art. 2236 c.c [11].

Quattro sono stati i principali metodi interpretativi seguiti a tale proposito.

  1. L’art. 2236 c.c. è stato ritenuto inapplicabile nel caso di interventi di facile esecuzione. A tale conclusione la giurisprudenza è pervenuta sulla base della lettera dell’art. 2236 c.c., il quale è riferito all’esistenza di “problemi tecnici di speciale difficoltà”, di norma insussistenti nel caso di interventi “routinari”. Si è affermato che l’art. 2236 c.c. si applica soltanto se il caso affidato al medico sia di particolare complessità o perché non ancora sperimentato e studiato a sufficienza o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire [24-27].
  2. Applicando l’art. 2236 c.c. alle sole ipotesi di colpa per imperizia, non a quelle di colpa per imprudenza o negligenza. In tal senso fu dapprima la Cassazione penale ad affermare questo principio, secondo cui «in materia di colpa professionale del medico, quando l’evento venga addebitato a titolo di imperizia, la valutazione del giudice deve essere particolarmente larga nel ristretto ambito della colpa grave; mentre se l’addebito si concreta in una condotta imprudente o negligente la valutazione del giudice deve essere effettuata nell’ambito della colpa lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di comune applicazione, valevoli per qualsiasi condotta colposa» [28,29].
  3. Interpretando in modo restrittivo il concetto di “intervento di speciale difficoltà”.
  4. Restringendo, sin quasi a ridurlo a zero, il concetto di “colpa lieve”, la giurisprudenza finisce per sostenere che o la colpa del medico non sussiste ovvero, se può essere riconosciuta, è sempre e comunque “grave” per i fini di cui all’art. 2236 c.c. Così, ad esempio, è stato ritenuto in colpa grave il medico che aveva diagnosticato un’ernia discale, e sottoposto il paziente a un intervento chirurgico volto alla soluzione di quella patologia, non avvedendosi che i disturbi lamentati dal paziente erano dovuti a un tumore osseo infiltrante, sebbene radiologicamente poco visibile [30].

Si noti che i fatti che diedero origine a tale giudizio erano avvenuti nell’anno 1981, epoca nella quale la diagnosi differenziale del tumore in via radiologica non aveva le capacità odierne.

Anche la struttura sanitaria viene chiamata a rispondere nei confronti del paziente sia per il fatto colposo commesso dal medico suo dipendente o incaricato, sia per il fatto colposo proprio, che può consistere nella difettosa organizzazione degli ambienti ospedalieri nella carente od omessa predisposizione di macchinari, nella mancata o insufficiente adozione di misure di organizzazione e gestione delle strutture e dei presidi terapeutici, nella omessa predisposizione di turni adeguati ed efficienti del personale medico e paramedico, nella culpa in vigilando o in eligendo (Cass. 11.5.2009, n. 10743 [31]) e via dicendo.

Conclusioni sul caso in esame

Conosciuti i princìpi del giudizio di responsabilità e tornando al nostro caso del paziente portatore di device impiantato che ha bisogno di essere sottoposto a un esame in Risonanza Magnetica, si sconta la grande difficoltà di cercare un equilibrio nel contesto di regolamentazioni esistenti, non definitive e datate, che il diritto vivente (nazionale e transnazionale) non pare in grado di garantire.

Si può cercare allora di individuare un filo conduttore della responsabilità che l’operatore si assume decidendo di fare accedere il paziente all’esame, valorizzando il carattere strumentale della prestazione sanitaria, o di negarlo.

Il filo è annodato al caposaldo del giuramento di Ippocrate.

Siamo consapevoli che l’azione del buon medico di certo mira eticamente e giuridicamente a un risultato – il migliore possibile da riservare al paziente – ma spesso non può garantirlo (ancorché i Giudici sembrino accollare l’obbligo del risultato) perché la biologia dell’individuo, esprimendo la straordinaria unicità di un essere umano, non sempre risponde alla regola tecnico-scientifica della professione, codificata dalla scienza in base al campione statistico o sperimentale di riferimento e al sapere più accreditato.

Nella ricerca di criteri di orientamento, rimane sempre il punto fermo di partenza della libertà professionale del medico da raccordare alla libertà del paziente di scegliere la terapia; a quest’ultimo si chiede però di comprendere il significato del diritto/dovere (e non solo il diritto) di conoscere la via prescelta e i rischi profilati dall’operatore sanitario, in un disegno che dovrebbe auspicabilmente costituire una “Nuova Alleanza Terapeutica” (e sociale) per la tutela della salute.

L’equilibrio non è facile da raggiungere e neppure da riconoscere. L’equilibrio viene da sé quando cessano le divergenze ma, nel contesto che ci occupa, sono le incongruenze, le diversità di vedute e di approccio, la misura del coraggio individuale del medico e le difficoltà burocratiche e gestionali delle organizzazioni delle strutture ospedaliere a segnare gli aspetti quotidiani della responsabilità dell’operatore sanitario, complice un Legislatore a tratti disattento e, nello specifico del tema, tardivo nella abrogazione esplicita di un divieto che è contrario alla innovazione tecnologica e alle mutate capacità operative degli ambienti di Risonanza Magnetica.

Lo abbiamo detto e ne siamo consapevoli: l’uniformità di soluzioni manca.

Dobbiamo tuttavia ricordare che la tendenza dell’ordinamento comunitario europeo è di affermare e garantire le libertà fondamentali dell’individuo e di rimettere al Legislatore nazionale la regolamentazione degli aspetti della responsabilità dell’operatore sanitario.

Nel nostro caso non si discute la libertà del medico di poter correre un rischio calcolato nella dinamica costo/beneficio, anzi più che di una libertà si tratta di un comportamento atteso, degno di congrua valorizzazione.

I segnali di una mutata sensibilità che rispetta la difficoltà del ruolo professionale dei sanitari hanno iniziato a riaffacciarsi nel panorama legale del tema.

Il processo di revisione è stato iniziato proprio dal Legislatore nazionale che con la Legge n. 189 del 08.11.2012 [32], meglio nota come Decreto Balduzzi, ha introdotto nell’ordinamento la abrogazione parziale delle fattispecie colpose penali commesse dagli esercenti le professioni sanitarie, escludendo la rilevanza della colpa lieve per le condotte che si collochino all’interno dell’area di azione di Linee Guida o da pratiche virtuose purché accreditate dalla comunità scientifica.

Un cambio di rotta nel rigore interpretativo della colpa sanitaria civile sembra scaturire dalla sentenza resa dalla Sezione prima del Tribunale di Milano in data 17.07.2014 [33] con la quale il rapporto tra medico o altri esercenti le professioni sanitarie e il paziente, per condotte che non costituiscono inadempimento di uno specifico contratto d’opera (diverso da quello da contatto sociale instaurato tramite la struttura la quale continua a rispondere dell’operato a titolo contrattuale), è stato ricondotto all’art. 2043 c.c. [12] e non all’art. 1218 c.c. [14].

La pronuncia ricolloca il medico in posizione più favorevole sul piano difensivo perché, tra l’altro, sposta parzialmente sul paziente l’onere della prova della contestata responsabilità.

È opportuno menzionare altresì l’importante documento pubblicato dall’Istituto Superiore della Sanità denominato “Dispositivi cardiaci impiantabili attivi e risonanza magnetica: aspetti tecnologici, inquadramento normativo e modelli organizzativi”, nel quale sono indicate e raccolte in via sistematica metodiche di approccio e organizzazione, ai fini dell’accesso sicuro alla diagnostica per Risonanza Magnetica del paziente portatore di medical device attivo [34].

In conclusione, possiamo affermare che avvertiamo il bisogno impellente di decisioni coraggiose che riportino gli operatori sanitari in una situazione più serena nei confronti del paziente. Il revisement che da ultimo la giurisprudenza sembra tratteggiare è certamente destinato a generare ulteriori scenari e dibattiti nella costruzione ed evoluzione della figura della responsabilità in ambito sanitario nella quale, a parere di chi scrive, sarà sempre più centrale il tema del consenso informato, da unire alla attuazione sostanziale di schemi, protocolli e procedure codificati di organizzazione, a carattere multidisciplinare (inclusi i profili di esame e gestione del rischio caratteristico), in seno alle strutture ospedaliere e sanitarie in generale.

Bibliografia

  1. Costituzione della Repubblica Italiana, art. 32
  2. Decreto Ministeriale 2 agosto 1991. Autorizzazione alla installazione ed uso di apparecchiature diagnostiche a risonanza magnetica. Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.194 del 20 agosto 1991 – Supplemento Ordinario n. 51
  3. Direttiva 2007/47/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 settembre 2007
  4. Corte Costituzionale, 19 giugno 2002, sentenza n. 282
  5. Corte Costituzionale, 10-14 novembre 2003, sentenza n. 338
  6. Corte Costituzionale, 1 aprile 2009, sentenza n. 151
  7. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 22 dicembre 1925, sentenza n. 3475. Giur. it. 1926, I, 1, 537
  8. Palmieri A. Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista. Il Foro italiano 1997, I, 772
  9. Corte di Cassazione, Archivio Italgiure. Disponibile all’indirizzo http://www.italgiure.giustizia.it (ultimo accesso Luglio 2015)
  10. Suprema Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario. Disponibile all’indirizzo http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/p_relazioni_e_documenti.page (ultimo accesso Luglio 2015)
  11. Codice Civile, art. 2236
  12. Codice Civile, art. 2043
  13. Codice Civile, art. 2697
  14. Codice Civile, art. 1218
  15. Codice Penale, art. 40
  16. Codice Penale, art. 41
  17. Corte di Cassazione, sez. III, 13 settembre 2000, sentenza n. 12103
  18. Corte di Cassazione, sez. III, 16 novembre 1988, sentenza n. 6220. Il Foro italiano-Repertorio 1988, voce Professioni intellettuali, n. 94;
  19. Corte Suprema di Cassazione, sez. III Civ., 24 settembre 1997, sentenza n. 9374. Responsabilità civile e previdenza 1998, 78, con nota di Martorana, Brevi osservazioni su responsabilità professionale ed obbligo di informazione, e in Rivista italiana di medicina legale 1998, IV, 821, con nota di Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione deve essere dettagliata o sommaria?
  20. Tribunale di Napoli, 30 gennaio 1998, in Tagete, 1998, fasc. 4, 62
  21. Corte di Cassazione, sez. III, 22 gennaio 1999, sentenza n. 589. Danno e responsabilità, 1999, 294, con nota di Carbone; Corriere giuridico 1999, 441, con nota di Di Majo
  22. Codice Civile, art 1176, comma 2
  23. Cassazione Civile, sez. III, 8 marzo 1979, sentenza n. 1441. Giurisprudenza italiana 1979, I, 1, 1494
  24. Cassazione Civile, sez. III, 18 aprile 2005, sentenza n. 7997. Corriere giuridico 2006, 257, con nota di Rolfi, Il nesso di causalità nell’illecito civile: la Cassazione alla ricerca di un modello unitario
  25. Cassazione Civile, sez. III, 23 febbraio 2000, sentenza n. 2044. Giurisprudenza italiana 2000, 15, con nota di Zuccaro, Responsabilità del medico e regime probatorio
  26. Cassazione Civile, sez. III, 11 aprile 1995, sentenza n. 4152. Il Foro italiano – Repertorio 1995, voce Professioni intellettuali, n. 168
  27. Corte di Cassazione, sez. III civile, 26 marzo 1990, sentenza n. 2428. Il Foro italiano – Repertorio 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113
  28. Corte di Cassazione, sez. feriale, 23 agosto 1994, sentenza n. 3635. Massimario Cassazione Penale 1995, fasc. 2, 118
  29. Cassazione Civile, sez. III, 18 novembre 1997, sentenza n. 11440
  30. Cassazione Civile, sez. III, 19 aprile 2006, sentenza n. 9085. Corriere giuridico 2006, 914, con nota di Carbone, Responsabilità medica
  31. Cassazione Civile, sez. III, 11 maggio 2009, sentenza n. 10743
  32. Legge 8 novembre 2012, n. 189; Gazzetta Ufficiale n. 263, 10 novembre 2012, Suppl. Ordinario n. 201
  33. Tribunale di Milano, sez. I, sentenza pubblicata in data 17.07.2014, in www.altalex.com
  34. Calcagnini G, Censi F, Cannatà V, et al. Serie Rapporti ISTISAN, numero di maggio 2015, 4° Suppl.

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