PM&AL 2013;7(2)33-36.html

Il disagio della felicità

Roberto Infrasca 1

1 Psicoterapeuta, La Spezia

Corresponding author

Dott. Roberto Infrasca

roberto.infrasca@libero.it

Disclosure

Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.

 

È sempre più frequente nella vita quotidiana (ma anche nell’attività psicoterapeutica) sentire frasi quali «Voglio una vita felice», «Desidero essere felice come gli altri», «Siamo nati per essere felici», «Non sono felice», «Devo trovare la felicità» «Mio figlio/a deve essere felice». In questa prospettiva psicologica e culturale il concetto di felicità sembra aver acquisito un suo spazio esistenziale, una forte valenza, un profondo senso di possibilità di soddisfacimento, e soprattutto sembra avere trasformato la felicità da emozione (vissuto estemporaneo) a sentimento (vissuto stabile).

Digitando su Google il termine “felicità” appaiono 16.500.000 siti, mentre per “infelicità” ne troviamo 747.000 (4,52%): 406.000 siti riguardano libri sulla felicità o su come ottenerla, 1.760.000 le modalità per rendere felici i figli, 1.900.000 la felicità genitoriale o come raggiungere tale condizione. Infine, 4.390.000 la felicità di coppia.

Il panorama delineato ha favorito nell’individuo l’introiezione di questo “convincimento” [1,2], consegnando così a questo concetto una dignità filosofico-esistenziale. Tale fenomeno psico-cognitivo ha così acquisito uno spessore individuale e collettivo e una configurazione transgenerazionale non indifferente, divenendo un vissuto condiviso e ricercato, una condizione che l’individuo – più o meno agevolmente – è convinto di poter raggiungere.

Dalla Volta [3] sostiene che la felicità è «un termine filosofico che, nelle sue diverse accezioni, indica generalmente una condizione complessiva piacevole, di soddisfacimento duraturo delle esigenze della vita, intese come un tutto. Tale concettualità, tuttavia, non si accorda con le condizioni reali dell’esperienza umana e, di fatto, è soltanto una delle comuni prospettive del pensiero orientato dal desiderio». Galimberti [4] definisce la stessa come una «condizione di benessere di rilevante intensità caratterizzata dall’assenza di insoddisfazione e dal piacere connesso alla realizzazione di un desiderio. Nel suo nesso con il desiderio la felicità rivela il suo carattere circostanziale, cioè il suo legame a condizioni di fatto complessive e transitorie, da cui dipende anche la sua caducità». Sabatini e Coletti [5] definiscono la felicità come una «condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione, di beatitudine, di gaudio».

Non pare difficoltoso affermare che le condizione descritte non possono quindi assumere una stabile configurazione nell’individuo, essendo al contrario una percezione estemporanea che non può assolutamente essere parte integrante di un durevole vissuto umano. Schopenhauer [6] ritiene che la condizione umana (a livello individuale e sociale) è caratterizzata dall’infelicità, dalla lacerazione e dal conflitto, dalla mancanza di senso. Secondo l’autore, l’errore innato è quello di credere che noi esistiamo per essere felici.

Freud [7] afferma che la felicità cui l’uomo può aspirare non è qualcosa di completo e assoluto: l’individuo può solo tentare di evitare la sofferenza per raggiungere la parte di piacere possibile, vale a dire la storica divisione tra principio di piacere (Es), e principio di realtà, prodotto da un Io in contatto con il mondo circostante. In tale ottica l’Io assume il profilo di un’istanza complessa che – attraverso l’osservazione del mondo esterno e la memorizzazione – diventa capace di distinguere il carattere illusorio delle rappresentazioni create dal principio del piacere, la natura intrapsichica oppure esterna di una percezione.

Per rendere maggiormente comprensibili le argomentazioni successive, viene presentato uno schema della struttura intrapsichica della personalità (Figura 1): si nota come la sola dimensione in diretto contatto con la realtà sia l’Io, mentre le altre istanze (Es e Super-Io) intrattengono una relazione “interna” con tale dimensione. Il preminente compito dell’Io è quindi quello di decodificare la realtà organizzando nell’individuo il comportamento più opportuno e ragionevole. Per trovare un permanente “stato di felicità”, l’Io dovrebbe così interrompere il contatto con la realtà, nel tentativo (per niente scontato) di riuscire ad organizzare un insonorizzato mondo interno, vale a dire una situazione che preveda l’assenza di conflitto, di sentimenti di mancanza, di perdita, di malinconia, di rabbia, ecc. In questa prospettiva l’Io dovrebbe però tacitare definitivamente anche i “rumori” istintuali prodotti dall’Es, e quelli normativi del Super-Io.

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Figura 1. Schema della struttura intrapsichica della personalità

Quanto argomentato trova una similarità nella relazione tra felicità e orgasmo. Il raggiungimento della fase orgasmica prevede due essenziali operatività dell’Io: allentare sensibilmente il suo sistema difensivo, tollerare un temporaneo distacco dalla realtà (interna ed esterna). Tale istanza accetta quindi di “perdersi” valutando che la “frammentazione” personologica conseguente all’orgasmo è decisamente breve (nell’uomo varia dai 3 ai 10 secondi, nella donna generalmente circa 20 secondi), e che il ritorno alla realtà sarà altrettanto veloce.

Anche la felicità prevede necessariamente il distacco dalla realtà e il ritiro in un mondo interiore costantemente gioioso, dinamiche che confliggono con il bisogno relazionale dell’uomo. Non casualmente, in psicopatologia il contatto con la realtà è uno dei più importanti indicatori diagnostici, tanto che una profonda e sistematica alterazione dell’aderenza a questa dimensione segnala la presenza di un grave quadro clinico (autismo, psicosi, maniacalità).

Di fatto, è nel confronto con la realtà che l’individuo sperimenta gradualmente la sua vera dimensione, acquisendo conoscenze e comportamenti per relazionarsi ragionevolmente al “reale”. Da questo discende che, qualora la realtà venga molto ristretta, l’individuo non riuscirà a elaborare una visione del mondo e di sé multidimensionale e poliedrica. Al contrario, una realtà ampia permetterà al soggetto di cogliere la “complessità del reale”.

Raggiungere uno stato di felicità significa così diminuire o neutralizzare le funzioni dell’Io (particolarmente il rapporto con la realtà), dinamica che infantilizza l’individuo, stimola un regressivo “pensiero magico”, modalità di ragionamento predominante nell’infanzia e scarsamente operativa dopo i 6 anni [8]. Nello scenario delineato il principio del piacere, e una sua intima manifestazione – il pensiero magico – trovano il fertile terreno per una loro progressiva affermazione.

In questo scenario, l’immaturità e il pensiero magico abbandonano i periodi della loro naturale manifestazione (infanzia), si inseriscono in tutti gli stadi evolutivi, producendo adulti caratterizzati da concetti, pensieri e comportamenti permeati da bisogni immaturi (fantasiosi e magici), quindi mancanti di codici interpretativi e operativi del comportamento maturo.

Quanto affermato non significa che nella realtà non possono essere trovate “oasi felici”, ma che le oasi sono piccoli ritagli all’interno dell’immenso deserto. Serenità e tranquillità sono sentimenti che possono essere raggiunti dall’individuo, pur faticosamente e non in modo assoluto e permanente. Tali stati d’animo sono trasmissibili in quanto sentimenti relazionali (uomo-ambiente), mentre la felicità (nel significato adottato nel lavoro) non può essere né trasmessa né condivisa, in quanto vissuto sostanzialmente individuale. Pur se nella nostra cultura felicità è sinonimo di serenità e tranquillità, tale prassi tende a confondere concetti molto diversi, dando luogo ad una considerevole perdita della semantica esistenziale.

Per esempio, l’educazione dei giovani (e degli adulti ) all’etica della responsabilità (necessità di modelli mentali che prevedono rinuncia, sofferenza, impegno, rispetto e consapevolezza), si situa su un terreno chiaramente antitetico alla felicità. La “pedagogia della felicità” risulta così una prassi che prevede il distacco dalla realtà, stimolando il mero desiderio verso una stabile residenza in un isolato stato interiore. Il problema della socialità, al contrario, richiede l’incontro e la coniugazione tra la dimensione interiore e la realtà esterna.

Educare alla ragione, secondo le ancora attuali indicazioni formulate da Bertin [9], significa promuovere e perseguire il «maturare di un’intelligenza che ... rifiuti di formarsi opinioni e convinzioni sotto la pressione di emozioni, suggestioni, slogan».

Non educare alla “ricerca della felicità”, quindi, non assume il profilo di indirizzare alla sofferenza, bensì quello di indirizzare alla comprensione della “sofferenza altra”, quindi all’impossibilità di impossessarsi di questo accattivante stato d’animo se non in modo momentaneo e fuggevole. Di fatto, pur se attualmente definito come sentimento («stato affettivo stabile e duratu­ro che determina la coloritura emotiva dell’individuo»), la felicità non appartiene a tale dimensione, dovendo essere collocata tra le emozioni («stato affettivo intenso a brusca insorgenza e veloce declino»).

Sollecitare nell’individuo la credenza di poter raggiungere e mantenere definitivamente uno stato emozionale di “felicità”, significa ostacolarlo nel trovare la propria dimensione “terrestre”. Uno psicoterapeuta “felice” (o che pensa di esserlo), per esempio, come potrebbe comprendere la profonda sofferenza provata da un paziente depresso! Come può essere felice uno psicoterapeuta vivendo per decenni a contatto con i conflitti, l’insicurezza e, non raramente, la disperazione dei propri pazienti! Inoltre, tra felicità ed empatia (importante condizione nel lavoro psicoterapeutico) non esiste alcun legame!

I missionari esistono perché il mondo è pieno di sofferenza: se il pianeta avesse raggiunto in migliaia di anni una condizione di felicità, non esisterebbero. Probabilmente, l’essere umano esprime al meglio la sua dimensione partecipativa e di fratellanza nel momento in cui mette a fuoco che, sulla terra, la sua “felicità” si trasformerebbe (come avviene) nell’infelicità (senza virgolette) degli altri!

Come possono essere felici i membri di una famiglia quando uno di questi si trova in una situazione di sofferenza. Come è possibile che i membri della “famiglia planetaria” siano felici quando ogni cinque secondi un bambino al di sotto dei cinque anni muore (19.000 piccoli ogni giorno!).

Marx [10] afferma che: «L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni». In un ambito del tutto opposto, quello religioso, la situazione non pare diversa. Nel libro della Genesi, Dio dice alla donna: «... con dolore partorirai figli», e all’uomo «... con dolore trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita».

Di fatto, l’essere umano manifesta multiformi sentimenti, passioni, fantasie, elementi razionali e irrazionali, condizione originaria che non gli permette di accarezzare la felicità se non per brevi momenti, oppure attraverso l’ideazione fantastica e il pensiero magico.

Prima di fare escursioni in “altri mondi”, l’essere umano deve avere principalmente sperimentato il suo esistere nel mondo terrestre (interno ed esterno), diversamente intraprende un viaggio esistenziale nomadico ed errante.

Anche l’alpinista deve partire dalla sofferenza, dalla tenacia, dalla sopportazione, per raggiungere la vetta. Raggiunta la cima proverebbe felicità, emozione che non sarebbe in grado di mantenere durevolmente (anche se decidesse di rimanere sulla vetta), poiché la realtà (o i soccorsi) lo richiamerebbe inevitabilmente alla discesa, al ritorno. Questo significa che lo scalatore deve partire dalla scalata e non dalla vetta. Anche in questo caso, il principio di realtà è quello che tutela meglio lo scalatore, mentre il principio del piacere potrebbe essergli fatale: il primo principio valuta le difficoltà della scalata, quello del piacere vede solo la felicità della conquista della vetta, narcisismo contro sofferto realismo.

In questa prospettiva, la felicità prevede necessariamente una “presenza” (tale vissuto) e tantissime “assenze” (emozioni e sentimenti conflittuali), condizione per cui la stessa può attuarsi infrequentemente e per un tempo molto limitato.

Non pare casuale che nei suoi memorabili lavori, la Mahler [11] sostiene la necessità di sciogliere il rapporto simbiotico che si crea tra madre e bambino, felice diade che, se mantenuta, comprometterebbe un armonioso sviluppo del bambino. Phillips [12] pone continuamente in risalto la positività del “no” genitoriale nella maturazione personologica del figlio, e i “no” non inducono felicità.

Infine, qualora l’individuo sia portatore del convincimento di poter raggiungere un durevole stato di felicità, tenderebbe a deprimersi verificando la difficoltà di rendere stabile tale vissuto (sentimenti di incapacità, autosvalutazione, delusione, disistima, ecc), mentre il mantenimento .

Concludiamo affermando che la «felicità è dei sassi». Di fatto, un sasso non soffre se deve lasciare definitivamente un luogo. Non soffre se viene preso a calci. Non soffre se viene portato in un posto inaccessibile. Non soffre se viene abbandonato. Può stare indifferentemente in mare o in un’altra collocazione. Non soffre se un bambino muore. Non soffre se perde un altro sasso. Non soffre se viene frantumato. I sassi non hanno sentimenti. L’essere umano, al contrario, soffrirebbe profondamente per tali condizioni.

Bibliografia

  1. Legrenzi P. La felicità. Bologna: Il Mulino, 1998
  2. Giacobini G. La misura della felicità. Psicologia Contemporanea 2012; 230: 20-23
  3. Dalla Volta A. Dizionario di Psicologia. Firenze: Giunti, 1974
  4. Galimberti U. Dizionario di Psicologia. Torino: UTET, 1994
  5. Sabatini F, Coletti V. Dizionario Italiano. Firenze: Giunti, 1999
  6. Schopenhauer A. Il mondo come volontà e rappresentazione. Roma-Bari: Laterza, 1979
  7. Freud S. Il disagio della civiltà. In: Freud S. Opere (vol. 10). Torino: Boringhieri, 1989
  8. Piaget J. La nascita dell’intelligenza. Firenze: Giunti, 1969
  9. Bertin GM. Educazione alla ragione. Roma: Armando, 1975
  10. Marx. K. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione. In: Opere di Marx ed Engels, vol. 3. Roma: Editori Riuniti, 1976
  11. Mahler M, Pine F, Bergman A. La nascita psicologica del bambino. Torino: Boringhieri, 1978
  12. Phillips A. I no che aiutano a crescere. Milano: Feltrinelli, 1999

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