PM&AL 2013;7(2)45-51.html

La fiala giusta: storia di un paradosso professionale

Francesca Parisi 1, Pio Lattarulo 2

1 Dirigente del SPS-Polo Ospedaliero “Valle d’Itria”, ASL Taranto, Professore a contratto di Discipline Infermieristiche, Università degli Studi di Bari

2 Infermiere, Dirigente del SPS-Polo Ospedaliero Orientale, Asl Taranto, Professore a contratto di Discipline Infermieristiche, Università degli Studi di Bari e di Roma Tor Vergata (Sora)

Abstract

In this paper is discussed a history of error and deception in medicine and nursing. We proceed to the discussion of the case using the method of analysis of bioethics systematic conceived by the Italian bioethicist Sandro Spinsanti.

The error in drug delivery is a matter as frequent as prickly, but this case is a paradox because the error could have been avoided easily with a better communicative approach, as evidenced in our history.

Keywords: Sedation; Error in drug delivery; Analysis; Ethics case

The right vial: the story of a professional paradox

Pratica Medica & Aspetti Legali 2013; 7(2): 45-51

Corresponding author

Pio Lattarulo

pio.lattarulo@torvergatasora.it

Disclosure

Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo.

Il caso clinico

Martino e Michela sono due giovani infermieri che prestano servizio da qualche tempo in un’importante struttura di degenza di Rianimazione.

Un mattino, nella stanza in cui sono degenti due persone, Eusebio, coinvolto in un sinistro stradale, politraumatizzato, e un’altra persona anziana colpita da emorragia cerebrale e presi in carico da Martino, è necessario, al termine dell’igiene personale e della terapia prevista, sottoporre il giovane ad un elettroencefalogramma. Eusebio, sedato per diversi giorni, è attualmente in wash-out farmacologico e si mantiene particolarmente agitato e, benché con gli occhi aperti, assolutamente non contattabile. È stato tracheotomizzato ed è portatore di un catetere venoso centrale (CVC). Al momento dei fatti, è posto in respiro spontaneo e senza necessità di ossigenoterapia.

Ignazio, il tecnico di neurofisiopatologia (TNFP), comunica a Martino l’impossibilità tecnica di eseguire l’esame in concomitanza del notevole stato di agitazione psicomotoria del giovane Eusebio. Martino sta cercando, assieme a Michela, collega che opera nella stanza accanto, di studiare ogni possibile strategia per garantire la corretta esecuzione dell’esame diagnostico ritenuto indispensabile per fotografare lo stato neurologico del paziente.

Data la impossibilità di ottenere un risultato concreto, Martino chiama l’anestesista, in reparto, che risulta impegnato nel riposizionare un tubo endotracheale. Sarà il medico in questione a dire «Rivolgiti al Primario che è nella sua stanza». Martino si reca dal Direttore della Struttura complessa e gli spiega la situazione. Quest’ultimo giunge nella stanza e dice «Preparate una fiala di X e fatela endovena, svelti». Martino e Michela si guardano perplessi, poiché X è un farmaco che può essere somministrato certamente per via endovenosa ma dietro attenta diluizione e in pompa infusionale ad una velocità controllata, stante la potenza del farmaco e i numerosi effetti collaterali. Martino prova a dire che non è possibile somministrare il farmaco X in bolo endovenoso ma il Primario, come suo solito, urla invasato «Tu sei il solito, sei soltanto un infermiere, non conti niente e non capisci niente, fai la fiala e sbrigati!».

Michela ammutolisce mentre Martino, colpito da una scarica di improperi , incautamente somministra la fiala per via endovenosa da uno dei lumi del CVC. Dopo qualche secondo il giovane Eusebio si tranquillizza mentre il monitor scampanella allegramente. Il giovane paziente è in arresto respiratorio, una delle possibili complicanze della fiala somministrata in siffatta maniera. Immediatamente, mentre il medico provvede a diventar cereo, i due infermieri ventilano a mano il giovane con un pallone va e vieni, e una volta fortuitamente recuperata la situazione il medico dà indicazione per il riposizionamento della ventilazione artificiale. Dopo qualche giorno, e ovviamente senza che vengano informati i familiari, né vi sia traccia dell’accaduto in cartella clinica, Eusebio torna allo stato di coscienza e, seppur confuso, viene trasferito nella degenza di Neurochirurgia per la prosecuzione del suo percorso clinico-assistenziale.

Introduzione

Viene proposta di seguito l’analisi etica del caso clinico narrato, storia di errore e inganno in medicina e nelle cure infermieristiche e archetipica di un evento che non occasionalmente si verifica negli ospedali e che è addebitarsi a una duplice congiuntura negativa: la scarsa capacità di opporsi di fronte alla gerarchia prevaricante e l’autoreferenzialità estrema, in luogo dell’adozione di protocolli operativi di best practice, e di formazione e aggiornamento continuo.

Nell’analisi etica di un caso occorre procedere seguendo uno schema metodologico che consenta al professionista di prendere in esame i vari aspetti della vicenda secondo un approccio globale finalizzato a evitare il più importante bias che può emergere dalla riflessione e analisi etica: il giudizio soggettivo sui fatti.

Tra le svariate possibilità rinvenibili in letteratura si è scelto di utilizzare il modello della bioetica mediterranea formulato dal bioeticista italiano Sandro Spinsanti (Tabella I). Egli propone un modello articolato in diversi step di analisi, tra cui, in primo luogo, il comportamento obbligato, ovvero l’analisi di ciò che è stato fatto, e con una visuale prospettica su quanto “si sarebbe dovuto fare” rispetto all’osservanza di norme, codici e deontologia, di comportamento e regolamenti aziendali.

1. Il comportamento obbligato

A che cosa siamo tenuti:

  • per legge?
  • per deontologia professionale?
  • per regolamenti e normative aziendali?

Quali conseguenze medico-legali (penali/civilistiche) o deontologiche possono derivare dal comportamento in questione?

2. Il comportamento eticamente giustificabile

A. La difesa del minimo morale

Evitare ciò che nuoce o danneggia il paziente (Principio di non maleficità)

Il paziente potrebbe ricevere un danno per la salute o per la sua integrità dal trattamento previsto?

Si sta omettendo un intervento che potrebbe impedire un abbreviamento della vita del paziente o un danno permanente?

Opporsi a discriminazioni e ingiustizie (Principio di giustizia)

In una società giusta tutte le persone meritano uguale considerazione e rispetto. In questo caso il paziente è discriminato per motivi di ordine ideologico, sociale, razziale o economico?

Esistono considerazioni di ordine sociale (aziendale) che inclinano a offrire al paziente un livello di assistenza medica inferiore a quanto clinicamente appropriato?

B. La promozione del massimo morale

L’orientamento al bene del paziente (principio di beneficità)

Sulla base della diagnosi e della prognosi, quale trattamento medico- scientificamente corretto si può proporre?

Tale trattamento influenza positivamente la prognosi nel caso specifico?

Come vengono valutati rispettivamente i benefici e i danni?

Esistono alternative terapeutiche? Ognuna di queste alternative, quali aspetti potrebbe comportare (abbreviazione della vita, sofferenze fisiche e morali, peggioramento dello stato di benessere)?

Il coinvolgimento del paziente nelle decisioni che lo riguardano (principio di autonomia)

Chi prende la decisione diagnostico/terapeutica (il medico, la famiglia del malato, il malato stesso)?

Se decide il malato, attraverso quale processo informativo è stato messo in grado di decidere?

3. Il comportamento eccellente

Riferendoci al “quadrilatero della soddisfazione”, possiamo ottenere che le persone coinvolte nel trattamento del caso (professionisti, pazienti, familiari, autorità sanitarie) raggiungano la posizione della “giusta soddisfazione” (o almeno della “giusta insoddisfazione”)?

Quale svolgimento dovrebbe avere il caso clinico per poter essere raccontato come una storia di “buona sanità”?

Tabella I. Griglia per l’analisi del caso clinico (modello di Spinsanti) [1]

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Figura 1. Quadrilatero della soddisfazione (modello di Spinsanti) [1]

Successivamente, il modello, nell’ottica della medicina pre-moderna, si dipana nella valutazione del minimo morale in cui sono contenuti i principi della non maleficenza e della giustizia. Ma tutto questo, ovviamente non basta! Nell’epoca della bioetica e dati gli elevati standard professionali che si presume vengano messi in campo, sarà necessario promuovere anche il massimo morale. E qui entra in gioco la valutazione del principio di beneficenza e un altro concetto, sempre nuovo alle sorde orecchie di molti professionisti sanitari, vale a dire il rispetto dell’autonomia della persona assistita.

Da ultimo, viene proposto il quadrilatero della soddisfazione, allo scopo di «proporre una visione dinamica dell’etica» [1] (Figura 1). A seconda di quella che sarà l’analisi del caso clinico, con la relativa valutazione posta in essere, si potranno collocare i vari attori della vicenda in uno dei quattro quadrati preposti alla bisogna. Infine, nell’ottica del miglioramento continuo, attagliato alla bioetica, si chiede di descrivere - in maniera sintetica – quale piega avrebbe dovuto prendere, la faccenda, per poter essere raccontata come una storia di buona sanità.

Il comportamento obbligato

Rileggendo il caso clinico, in fase di analisi e commento, dal punto di vista etico e deontologico, non si può che inquadrare, in un primo tempo, e con il criterio della “colpa lieve” il comportamento di Martino che, consultando la collega Michela tenta quanto meno di condividere un eventuale addebito di responsabilità. Evidentemente, assume i connotati della grave responsabilità civile e penale il suo mancato opporsi all’intesa come “disposizione”, quella data dal Primario. Volendo compiere una lettura retrospettiva degli ancora vetusti registri di consegna infermieristici, purtroppo tuttora utilizzati nelle degenze e terapie intensive di buona parte degli ospedali italici, si possono ammirare in corrispondenza dell’annotazione della somministrazione di terapia farmacologica o altro, le diciture : «ordine» o «disposizione» del medico di guardia, in stretto ossequio ad un linguaggio da fanteria probabilmente già desueto ai tempi di Florence Nightingale.

È opportuno parlare di grave responsabilità perché ci sono tutti gli estremi per i quali Martino possa far valere la sua professionalità e quindi non ottemperare a quella che puntualmente si rivelerà come un’indicazione errata, per quanto emessa da persona posta gerarchicamente al vertice della struttura in questione. Vengono disattesi sia il Profilo Professionale dell’Infermiere (DM 739/94), che al punto d del comma 3 dell’art. 1 recita: «L’infermiere … garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico – terapeutiche», sia il Codice di Deontologia Infermieristica in vigore (2009), che all’art. 9 afferma: «L’infermiere nell’agire professionale, si impegna ad operare con prudenza al fine di non nuocere » e all’art. 29 prevede: «L’infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari e lo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore», nonché gli Ordinamenti Didattici della Laurea in Infermieristica, in forza dei quali egli avrebbe dovuto evitare l’errore descritto. In buona sostanza, il profilo professionale delinea con ancor più forza la questione, con il comma 3 dell’art. 1: «L’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica», ovvero totale ed esclusiva competenza nelle funzioni che ne sostanziano l’attività. Le funzioni medesime hanno valore cogente e non possibilistico, nel senso che, se non ottemperate, possono dar luogo ad attribuzioni di responsabilità giuridicamente rilevanti in quanto costituiscono le modalità con cui si esprime la nozione di assistenza generale infermieristica; ne deriva che in caso di omissione, il professionista, può essere chiamato a rispondere della sua azione in sede penale, civile e ordinistica, quando dalla sua azione ne derivi pregiudizio per la persona assistita.

Si coglie l’occasione per rammentare che i tre dispositivi citati, per gli effetti della L. 42/99, rappresentano l’ambito di riferimento giuridico per la valutazione dell’operato di ciascun professionista Infermiere. È anche utile precisare che la responsabilità penale è sempre personale, anche quando si lavora in équipe, e nel caso di specie, ricade su chi ha praticato la somministrazione del farmaco, salvo poi eventualmente dimostrare l’erronea prescrizione. Il vacuo tentativo posto in essere da Martino nel tentare un’inutile argomentazione non lo esime certamente dall’onere della responsabilità. Parimenti, anche Michela è passibile di colpa, in quanto non trattandosi di una situazione di emergenza, non avrebbe dovuto abbandonare la sorveglianza diretta dei pazienti a lei affidati. Giuridicamente, peraltro, il non aver impedito il compiersi di un dato fatto equivale ad averlo commesso. Va precisato che quella Struttura di Rianimazione non aveva una conformazione logistica a tipo open space, ragion per cui, a quella descritta, si sarebbero potute sommare altre situazioni di nocumento.

Altro riscontro viene dal dettato dell’art. 1176, secondo Comma del Codice Civile secondo cui la responsabilità professionale degli infermieri si configura per colpa perché non hanno preso in carico la persona verso la quale era doveroso e adeguato esercitare il livello di competenza del professionista.

Per quanto attiene il comportamento di Ignazio, il TNFP, non gli sono ascrivibili inadempienze per ragioni di carattere tecnico, giacché nello svolgersi dei fatti descritti, egli non ha competenza diretta, mentre l’anestesista di reparto assume un comportamento per il quale, pur non individuandosi profili di responsabilità, appare poco collaborativo e diremmo “pilatesco”.

Senza dubbio alcuno, il primario è il protagonista negativo dei fatti narrati. La sua performance professionale assume in sé responsabilità imponenti, ben oltre l’arroganza e cattiva educazione mostrata. Gli ingiuriosi epiteti rivolti a Martino in nessun caso possono essere dedicati ad un collaboratore per motivi etici, deontologici, sociali e inerenti a regolamenti aziendali e contrattuali. Egli peraltro dimostra grave imperizia professionale nel voler condurre ostinatamente a termine una prescrizione farmacologica dichiaratamente erronea e che avrebbe potuto cagionare la morte o un grave danno per la salute del giovane Eusebio, incosciente e affidato alle mani dei sanitari. La sua colpa, in sede di giudizio, verrebbe aggravata da una serie di fattori ulteriori: il tentativo posto in essere dagli infermieri di dissuaderlo, lo stato d’incoscienza della persona assistita e quindi il relativo mancato consenso all’esame. Non ultimo, l’assenza di professionalità, di umanità e “cultura del soccorso” che dovrebbero animare l’operato quotidiano di un “professionista” il quale investito da un compito di alta responsabilità dovrebbe ben altro dimostrare. Testimonianza di quanto detto è anche da riscontrarsi nella sua reazione alla iatrogenia provocata dal farmaco somministrato.

Tutta una serie di vulnus sono anche riscontrabili dalla lettura del Codice di Deontologia Medica (2006): art. 4: attenersi alle conoscenze scientifiche; art. 13: prescrizioni e trattamenti ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche, adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci; art. 14: sicurezza del paziente; art. 26: registrazione in cartella clinica delle attività diagnostico-terapeutiche praticate; art. 66: rispetto delle altre professioni sanitarie.

La difesa del minimo morale

Il principio di non maleficenza

Il principio della non maleficenza trova le sue radici nell’ippocratico «primum non nocere». Sarebbe quasi scontato affermare che in ospedale, in senso ampio, ma più in generale in tutti i luoghi in cui vengono esercitate la cura e la care, dovrebbe essere affermata la certezza che chiunque si rivolga alle mani dei sanitari e degli operatori di supporto, debba farlo per trarne beneficio e non già ulteriore nocumento.

In realtà, i dati degli studi di ricerca esteri dimostrano che non sempre è così, benché nel nostro Stato, nonostante qualche recente sottolineatura [2] ancora non sono noti dati definitivi rivenienti dalla ricerca. Per tale ragione anche nella moderna deontologia (Codice di Deontologia Medica del 2006 e Codice di Deontologia Infermieristica del 2009) si afferma la necessità di garanzia della sicurezza nelle cure e di adozione di programmi di gestione del rischio clinico.

Nel caso descritto, il principio della non maleficenza viene completamente ignorato poiché, a causa della presunzione del medico, in correità con la titubanza degli infermieri nel rifiutare la prescrizione, ne scaturisce un danno che avrebbe potuto avere quale esito infausto la morte del giovane Eusebio. L’interiorizzazione del concetto di «non nuocere» dovrebbe presumere un livello di maturazione morale che vada ben al di là della responsabilità penale, civile od ordinistica su cui si è già ampiamente discusso. A posteriore è sempre possibile tirar fuori un pronto tavolino per il gioco delle tre carte, ma al di là del fatto che ci si possa far difendere da un Principe del Foro piuttosto che da Azzeccagarbugli, resta la coscienza, in alcuni animi nascosta in un andito recesso.

Peraltro, nel caso di cui si narra, si accoppiano in maniera formidabile errore e inganno, in quanto non vengono informati i familiari dell’accaduto, né si fa alcuna menzione nella documentazione clinica. Non vi furono danni, ma questo lo si è potuto stabilire esclusivamente in tempi successivi.

La dominanza medica è un concetto sociologico tutt’altro che desueto ed è sinonimo del modo di conduzione di tutta una serie di vicende che hanno influenzato gli assetti organizzativi e l’evoluzione delle professione sanitarie non mediche. Prova testimoniale ne sono la polemica odierna sulla nuova bozza di Accordo Stato-Regioni sull’avanzamento delle competenze infermieristiche su cui si sono scatenate le ire dei sindacati medici, o la sperimentazione favorevole del modello toscano del «See and Treat» oggetto di altre polemiche sterili, che fanno sorridere medici e infermieri delle nazioni più avanzate.

È fuori discussione che l’organizzazione in équipe e il rispetto che ciascun professionista dovrebbe avere nei confronti dell’altro, riflettendo se per caso si sta commettendo un errore, avrebbe evitato un accanimento del genere, non proprio infrequentissimo, contestualizzato nell’organizzazione a compartimenti stagni che anima ancora moltissimi setting di cura nostrani.

Il principio di giustizia

Per quanto attiene il principio di giustizia è possibile affermare che il giovane Eusebio, pur non essendo stato discriminato per alcun motivo di ordine razziale, ideologico o sessuale, non ebbe giustizia. «Per quanto medico e malato siano soli nell’ambulatorio o nello studio privato del medico, l’atto che compiono non è mai solitario, perché fra essi esiste sempre un terzo soggetto, la società» [3]: le parole di Diego Gracia, padre della bioetica mediterranea, ci fanno comprendere come la non adesione ai principi della Good Clinical Practice sia un qualcosa di più ampio, che non può rimanere al chiuso delle mura di un reparto di degenza, non aperto ai familiari. Da non poco tempo si discute sulle rianimazioni aperte, e su come gli operatori che vi lavorano spesso accampano la scusa, indimostrata, che la presenza dei familiari comporterebbe un pericolo di aumentate infezioni nosocomiali. La realtà è ben diversa, e narra una storia di approssimazione e superficialità che non risiede nella classica inversione involontaria di fiala o di scambio di persona, motivo di centinaia e centinaia di near miss o di errori veri e propri. In questo caso non è possibile invocare la negligenza, ma semplicemente l’imperizia e l’imprudenza a carico degli operatori coinvolti per non aver adottato le dovute misure di controllo del caso.

Giustizia si rende alla società nel momento in cui i cittadini, potenziali persone assistite o familiari di degenti in quel reparto, sono consci del fatto che il quadro clinico già grave del loro caro non verrà reso irreversibile.

La promozione del massimo morale

Il principio di beneficità

Nel discutere di beneficità, l’orientamento dovrebbe essere necessariamente ispirato alla promozione del bene per la persona assistita. In questo caso, posta la effettiva necessità di dover procedere a un esame diagnostico non invasivo, ma da non potersi eseguire verso una persona agitata, si sarebbe dovuto procedere alla scelta adeguata del farmaco. In merito alla questione delle prescrizioni mediche, c’è tutta una letteratura che non da poco tempo appare discriminante in quanto afferma essere potestà esclusiva del medico la prescrizione farmacologica. In altri stati anche il Nurse Practitioner può prescrivere dei farmaci, naturalmente tra quelli che nel nostro ordinamento sarebbero ricompresi in fascia C, ma non è su questo aspetto che si vuol indicare maggiore attenzione. Per fare il bene della persona, ed evitare l’inganno susseguente all’errore, gli infermieri non avrebbero dovuto accettare la prescrizione fatta in quella maniera, sebbene sia prassi usuale particolarmente nei reparti d’emergenza. Il medico avrebbe dovuto segnare con la propria mano la prescrizione sul foglio di terapia, in modo tale da evitare anche successive ritrattazioni in merito ai fatti.

Non esistendo precisi riferimenti normativi e, a quanto sappiamo, giurisprudenziali, è utile in questo caso fare riferimento alle precauzioni adottate in Inghilterra dall’UKCC (United Kingdom Central Council for Nursing) che precisano: «la prescrizione di farmaci sulla base di una prescrizione orale può essere adottata solo in casi di emergenza» [4].

Appare piuttosto evidente come non sia questo descritto il caso di specie e che, non sussistendovi le condizioni di emergenza, vi era tutto il tempo per verificare l’esattezza della prescrizione e perché il primario apponesse il nome del farmaco, la via di somministrazione indicata e la sua firma sul foglio di terapia. Al bene della persona assistita non ha certamente concorso il ruolo degli infermieri, particolarmente di Martino, ma questa è anche una questione di identità professionale.

«La competenza infermieristica ha intrapreso, da qualche decennio, un cammino di ricerca delle proprie radici al fine di identificare i pilastri su cui fondare e costruire il proprio essere dell’oggi e del futuro. Per molti versi la scoperta è sconcertante: una professione che si basa su di una nuce antica, l’assistere, tuttavia, ha radici giovani e incerte. L’identità dell’infermiere è stata, almeno negli ultimi cinquant’anni, un’identità ritagliata; la conseguenza è che ha avuto spesso una competenza ritagliata, dettata da altri e non dalla propria scienza e coscienza» [5].

Il principio di autonomia

Il diritto all’autonomia e all’autodeterminazione si concretizzano nel nostro ordinamento giuridico nella pratica del consenso informato, strumento che ad horas riveste più le caratteristiche di una prassi finalizzata al tentativo di scongiurare un contenzioso medico legale piuttosto che alla necessità concreta di informare, in questo caso, i familiari sui passi necessari da compiere e sull’indispensabilità, sempre in riferimento alla storia di Eusebio, di praticare una sedazione. Se l’esito fosse stato quello della morte del giovane, la situazione sarebbe diventata realmente difficile, soprattutto se si considera il fatto che passi di miglioramento nel quadro clinico erano visibili anche agli occhi di un profano.

Il concetto di autonomia e di autodeterminazione è ancora ben lungi dall’essere messo in pratica, in particolar modo quando si è al cospetto di un convinto possessore del bastone di Esculapio nelle proprie mani, e per tale ragione spesso si osservano farraginosi e sbrigativi moduli di consenso informato fatti firmare in fretta e furia nei corridoi degli ospedali, in totale mancanza di una chiarificazione circa le alternative procedurali. Se a ciò si accompagna il quieto vivere al quale molti infermieri, come Martino e Michela, ispirano la loro attività, ne viene fuori un quadro non proprio rassicurante.

Si rende autonoma una persona quando la si considera come se si stesse al suo posto. Molti professionisti sanitari intervistati allo scopo, o in dichiarazioni estemporanee, sono soliti affermare che mai vorrebbero per sé molte delle pratiche che esercitano quotidianamente. Ciò non vuol dire che esse siano errate o non bisognevoli, ma soltanto che, se accompagnate dalla corretta informazione e dalla consapevolezza sul da farsi in caso di errore, non sfociano in una situazione in cui l’inganno appare l’unica scorciatoia percorribile per non incappare nelle maglie della giustizia.

Prima di arrivare all’extrema ratio, forse sarebbe opportuno strutturare strategie alternative come quella che propone David Hilfiker, medico e scrittore statunitense che propone una formula per affrontare l’errore, fondata su tre step fondamentali: Confession, Restitution and Absolution. È molto difficile da percorrere ma potrebbe produrre risultati e limitare le denunce.

«Il rapporto tra chi cura (intendendo ovviamente tale atto in senso allargato anche alle altre azioni disciplinari) e chi chiede la cura, dovrebbe essere sempre più una questione di fiducia, per dirla con Onora O’ Neill» [6].

Il quadrilatero della soddisfazione

Eusebio, seppur il suo ruolo sia da considerarsi in astratto dato lo stato di incoscienza, è GIUSTAMENTE INSODDISFATTO. Reduce da un grave politrauma, ha rischiato di terminare il suo ciclo vitale a causa dell’arroganza e della superficialità umana unita alla non consapevolezza del proprio ruolo professionale, tra le varie parti in causa. Se fosse stato messo in condizioni di conoscere quanto accadutogli, al di là delle conseguenze medico-legali, difficilmente avrebbe potuto avere in futuro fiducia nei confronti del sistema sanitario.

Il primario è INGIUSTAMENTE SODDISFATTO. Qualcuno ha cucito una pronta pezza a colori per coprire la malefatta. Probabilmente avrebbe fatto meglio ad ascoltare la protesta degli infermieri. Il punto sta nel fatto che del senno di poi son piene le fosse.

Martino è GIUSTAMENTE INSODDISFATTO. Ha scansato una denuncia e le sue conseguenze, ma per molto tempo dopo l’evento ha portato con sé un profondo senso di insoddisfazione per non essere stato capace di gestire la situazione nella maniera adeguata. Avrebbe dovuto rifiutare la prescrizione, ma a sua discolpa va l’atteggiamento dell’altro medico presente, che resosi conto dell’accaduto si è ben guardato dall’intervenire a sfavore del primario.

Michela è INGIUSTAMENTE SODDISFATTA. Non avendo materialmente praticato la somministrazione del farmaco, crede di non essere parte in causa. Questa è però ben poca cosa rispetto all’eventuale morte del giovane che presume la chiamata in correità da un Tribunale peggiore di quelli ordinari, quello della propria coscienza.

Ignazio è INGIUSTAMENTE SODDISFATTO. Non è diretta parte in causa nello svolgersi dei fatti, ma è testimone dell’accaduto, sebbene la sua posizione sia di difficile valutazione, in quanto inserito nell’équipe professionale soltanto in maniera estemporanea ed occasionale. Resta in ogni caso testimone dei fatti.

Il medico presente in reparto è INGIUSTAMENTE SODDISFATTO. Si è lavato con cura le mani, ben conscio della drammaticità dell’errore, limitandosi a commentare a posteriori, come solito, circa la ben nota incompetenza del primario.

I familiari di Eusebio sono anche loro INGIUSTAMENTE SODDISFATTI. All’uscita del giovane si sono sperticati in lodi, perché ignari dell’accaduto, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente.

Conclusioni

Per poter raccontare questa come una storia di buona sanità, a parte l’ovvia considerazione circa il fatto che sarebbe stato meglio l’evitare l’errore, bisogna dare il giusto risalto all’etica come agorà virtuale e fattuale dalla quale far partire la discussione per l’esercizio del pensiero critico sulla bontà degli atti professionali.

Sin quando si penserà al fatto che la cura sia un insieme di gesti tecnici legati alle evidenze scientifiche piuttosto che alla capacità del singolo, o alla tecnica chirurgica, si presterà sempre il fianco alla logica dell’incomprensione. Le ragioni e la competenza dei professionisti anche di differente estrazione devono convergere verso un fine ultimo che se non può sempre, e per scontate ragioni, essere quello della risoluzione, quanto meno dovrà essere quello della chiarezza d’intenti.

Come afferma Spinsanti: «Il senso del processo di empowerment del paziente non è quello di mettere quest’ultimo in posizione one up e il medico in posizione one down invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina. Non sarebbe un progresso se il medico diventasse l’esecutore delle decisioni del paziente» [1]. Non è questo lo pseudo- sviluppo al quale bisogna auspicare, ma la capacità da parte del medico e degli altri professionisti di far crescere la persona in modo tale da renderlo titolare delle decisioni che bisogna prendere.

Tutto questo presume la maturazione professionale e lo sviluppo di abilità che allo stato delle cose rappresentano soltanto parzialmente l’insegnamento nei corsi di laurea nelle professioni sanitarie non mediche e sono assenti dal curricula formativo dei medici, ovvero le tecniche di comunicazione.

«La formazione di un professionista, una formazione che sia sfida alla capacità di essere professionista di ogni operatore e massimamente una formazione in comunicazione in Sanità − è dunque fondamentalmente un appello alla motivazione, ed alle scelte consapevoli» [7].

A prescindere dall’errore di somministrazione, certamente da non sottovalutare per le mortali conseguenze, questa è una storia nella quale la comunicazione è praticamente inesistente, buco attraverso il quale si è concepito lo start up per l’evento.

Bibliografia

  1. Spinsanti S. Bioetica e nursing. Milano: Mc-Graw-Hill, 2001
  2. Lattarulo P. Nursing malpractice: qualche riflessione sul fenomeno . Pratica Medica & Aspetti Legali 2011; 5: 113-118
  3. Gracia D. Fondamenti di bioetica. Milano: Edizioni San Paolo, 1993
  4. Benci L. Aspetti giuridici della professione infermieristica. Milano: McGraw-Hill, 2011
  5. Lattarulo P,Olivetti F. Identità personale e professionale : quale interrelazione con la deontologia? In: Lattarulo P. Bioetica e deontologia professionale. Milano: McGaw-Hill, 2011
  6. Lattarulo P, Martorana M. Verità ed errore in medicina. Rischio Sanità 2008; 28:31-5
  7. Calamo Specchia F. Comunicazione profonda in sanità. Santarcangelo di Romagna: Maggioli, 2011

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