PM&AL 2013;7(3)59-61.html

La morte tra etica e diritto

Paolo Girolami 1

1 Professore a contratto, Facoltà di Medicina, Università di Torino

Corresponding author

Paolo Girolami

paolo.girolami@unito.it

Disclosure

L'autore dichiara di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Introduzione

Se la morte è quella condizione che può essere facilmente definita come la cessazione della vita, non è mancato chi ha posto l’accento sul fatto che la morte più che uno stato rappresenta un passaggio. È vero infatti, che fatto salvo l’obbligo del medico di stabilire il momento esatto della morte per motivi legati all’inumazione del cadavere o alla facoltà di prelevare da esso delle parti a scopo di trapianto o di studio, si muore “progressivamente per gradi e a pezzi” (alcune parti del nostro corpo cessano infatti di svolgere le loro funzioni in tempi e modi differenti da altre). E se è vero, come diceva Bichat , che, consistendo la vita nell’insieme di funzioni che si oppongono alla morte, essa (la vita) non è altro che il tempo che noi impieghiamo per morire.

Definizione, criteri e segni della morte

Fatte salve queste premesse, che implicano importanti riflessioni sull’idea della vita, sull’aspirazione dell’uomo a tramandare le tracce della propria esistenza oltre il confine temporale della sua esistenza su questa terra e, infine, sul credo religioso dell’immortalità dell’anima o della reincarnazione, esistono delle urgenze “di ordine pratico” che implicano che l’evento morte sia suscettibile di una definizione chiara e condivisa.

Per lungo tempo si è definita la morte come la cessazione irreversibile delle funzioni vitali dell’organismo, facendo riferimento alla famosa triade vitale di Bichat, che riconosceva nella funzione neurologica, respiratoria e cardiologia gli indici dell’esistenza in vita dell’organismo.

Così in Italia, il Regolamento di Polizia Mortuaria, stabilisce, all’art. 8, che nessun cadavere può essere chiuso in cassa, sottoposto ad autopsia, a trattamenti conservativi, ecc., prima che siano trascorse 24 ore dalla morte o salvo i casi in cui il medico necroscopo (cioè deputato alla osservazione e alla diagnosi dello stato di morte) abbia accertato la morte con l’ausilio di elettrocardiografo, la cui registrazione deve avere durata non inferiore a 20 minuti primi.

Da questa disposizione si può trarre un primo elemento di giudizio: lo stato di morte deve essere sottoposto ad osservazione per un tempo prolungato (addirittura 48 ore nel caso di morte improvvisa) e a tale osservazione può sostituirsi la rilevazione ECG della cessazione della funzione cardiaca, che in Italia deve protrarsi per un tempo pari a 20 minuti.

I progressi nel campo dei trapianti hanno reso necessario la valorizzazione di altri indici di morte, concentrandosi in particolare la diagnosi sulla cessazione di un’altra funzione della triade vitale sopra descritta: quella cerebrale. La morte è così stata definita dal legislatore come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, valutabile grazie a una serie di accertamenti di ordine clinico e strumentale per un periodo di tempo assai ridotto (in genere 6 ore) da parte di un apposito collegio medico (di cui fa parte un anestesista-rianimatore, un neurologo esperto in EEG e un medico legale). I parametri da valutare per accertare lo stato di cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali sono rappresentati dallo stato di incoscienza dovuto a una lesione cerebrale primitiva, dalla assenza di attività elettrica cerebrale rilevata a mezzo di EEG a più riprese, da assenza di respiro spontaneo dimostrata con prove di apnea (in presenza di alcuni specifici indici ematici: PH e PCO2), dalla dimostrazione dell’assenza dei riflessi del tronco cerebrale.

Seppure sia invalsa l’abitudine di parlare di morte cardiaca e morte cerebrale come di due fatti distinti, corre l’obbligo di ribadire che la morte è un evento unico e che vi sono diverse modalità di accertamento.

La morte, il Codice penale e la Costituzione

Sebbene la morte sia una condizione naturale, nel senso che nessuno vi si può sottrarre, essa non è sfuggita all’attenzione del legislatore penalista in quanto essendo il bene della vita protetto dalla legge penale, ogni azione o omissione che metta in pericolo o sopprima detto bene è soggetto a sanzione.

Così il Codice penale contempla i delitti di omicidio (nelle forme del volontario, del preterintezionale, del colposo), di tentato omicidio, di omicidio del consenziente e dell’aiuto o di istigazione al suicidio.

Queste norme, enunciate dal Codice penale del 1930, devono essere lette alla luce del dettato costituzionale, per il quale la libertà personale è un bene inviolabile (art.13) e la salute un diritto fondamentale (art. 32). In particolare, ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, ogni trattamento sanitario sfugge ai criteri della legittimità se non soggetto al consenso dell’interessato. È evidente pertanto che il trattamento sanitario può essere rifiutato preliminarmente o sospeso dopo il suo inizio da parte dell’interessato anche quando questo diniego metta in pericolo la sua vita.

Il problema allora non si pone tanto per colui che in stato di piena coscienza rifiuta un trattamento (o ne chiede la sospensione), anche nel caso in cui tale trattamento sia idoneo a conservarlo in vita, quanto piuttosto nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimere il suo consenso/dissenso perché in stato di incoscienza, ovvero nel caso in cui la progressione di malattia venga considerata dal medesimo come insopportabile o comunque contraria al suo progetto di vita. In questi due ultimi casi il professionista della salute è chiamato a fare delle scelte: o esercita il suo volere sul corpo del paziente appellandosi al diritto-dovere alla vita con il rischio di vedersi accusare del delitto di violenza privata, o, agendo su delega di una direttiva anticipata del paziente o di un suo presunto volere, oppure di un’espressione di volontà suicidiaria, può essere accusato di esercitare un atto di omicidio o di aiuto al suicidio

La morte, le direttive anticipate e l’eutanasia in Europa

La situazione legislativa in materia di scelte di fine vita in Europa è assai variegata. Ci limiteremo ad alcuni esempi.

In Francia la legge Leonetti (dal nome del legislatore di origine italiana) prevede una serie di accorgimenti volti a rendere la volontà del paziente compatibile con il mandato etico-deontologico dei professionisti della sanità. Essa si articola nei seguenti punti: divieto, penalmente sanzionato, di ogni trattamento che non abbia di mira un miglioramento delle condizioni cliniche, salvo i trattamenti palliativi (trattamento detto non ragionevole – in Italia potremmo parlare di accanimento terapeutico), vincolo per il curante di rispettare le direttive anticipate, obbligo del paziente di nominare una persona di fiducia che accompagni il paziente stesso durante tutto l’iter trattamentale e intervenga a sanare dubbi in merito alle direttive anticipate in caso di incoscienza di quest’ultimo, necessità che l’interruzione delle cure sia il frutto di una decisione condivisa con l’equipe curante, la persona di fiducia, ed eventualmente anche i familiari. L’ultima decisione spetta comunque al curante che deve decidere in scienza e coscienza.

Tale normativa, su richiesta del Presidente Hollande, è attualmente al centro di un dibattito volto a verificare se non sia eccessivamente limitativa dei diritti del paziente, conservando essa di fatto le fondamentali prerogative di scelta in capo ai professionisti della salute e negando la possibilità di accedere all’eutanasia o al suicidio assistito.

In paesi come i Paesi Bassi e il Belgio si assiste invece alla possibilità che il paziente, di fronte a una situazione di malattia che provoca in lui sofferenze insopportabili o che comunque crea in lui il timore (fondato) di dovere fronteggiare sofferenze insopportabili in futuro, può chiedere al medico l’eutanasia (la provocazione di una morte indolore). In questo caso, il medico che riceve la richiesta dovrà valersi del giudizio di un collega indipendente e, nel caso in cui il collega confermi lo stato di sofferenza insopportabile per quel paziente (sofferenza presente o futura) legata ad una condizione di grave malattia, procederà al trattamento eutanasico. Tale procedura inizialmente prevista per i soli maggiorenni è stata estesa nei Pesi Bassi anche ai minori, che vengono assistiti o sostituiti nelle loro decisioni dai genitori/tutori (il Belgio sta per adottare una legge dello stesso tenore).

Malgrado tale procedura sia soggetta ad un rigido protocollo e alla più assoluta confidenzialità, le regole non sono spesso rispettate e, secondo alcuni, in Olanda i casi di eutanasia sarebbero in numero superiore a quelli registrati dal governo nazionale, che vigila sui protocolli operativi tramite una commissione ad hoc.

Ultimamente la storia di due gemelli adulti belgi gravemente disabili che, nel timore di un futuro gravemente doloroso, hanno chiesto l’eutanasia e l’hanno ottenuta, ha riaperto il dibattito sulla reale estensione del diritto all’eutanasia.

Conclusioni

Nella nostra società, caratterizzata da un alto sviluppo tecnologico, il potere di controllo del singolo sugli efficientissimi dispositivi salva vita di cui può usufruire è spesso limitato. I frutti di tale sviluppo tecnologico sono oggetto di sentimenti contrastanti: essi sono spesso vissuti dal paziente come l’oggetto di un diritto fondamentale di cui assolutamente valersi o, al contrario, come un pericolo per la propria persona da cui difendersi.

Tra questi opposti poli della volontà del paziente, si muove il professionista della salute, che ha come mandato etico non certo quello di mantenere in vita ad ogni costo il paziente, ma quello di lenire la di lui sofferenza. È evidente che, se per lenire la sofferenza si elimina il paziente, anziché la fonte di quella sofferenza, si pone un problema etico, prima ancora che per la società, per il singolo professionista, che dovrà rivedere il senso e i limiti del proprio mandato professionale.

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