PM&AL 2014;8(3)91-96.html

Responsabilità civile del medico: responsabilità da inadempimento o probatio diabolica? Il punto di vista della III Sezione Civile della Corte di Cassazione nella sentenza n. 12264 del 30.05.2014

Alessandro Feola 1, Elisabetta Bernardel 2, Bruno Della Pietra 1

1 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Seconda Università degli studi di Napoli

2 Studio Legale “Cannata e Associati”, Roma

Abstract

The Authors analyze, under a judicial and medico-legal profile, the judgment n. 12264 of the 30.05.2014 of the 3rd Civil Section of the Supreme Court. In this judgment, they examine the omissive behavior by a physician of an ASL who, for the entire length of the pregnancy and having performed the proper diagnostic tests, failed to notice foetal malformations which resulted in birth defects such as agenesis of two fingers and femoral hypoplasia.

The verdict brought a new criterion for distributing the evidential responsibilities of the concerning parties, the expecting mother and the physician, establishing that «it’s the accusing party’s responsibility to allege and demonstrate, if in fact informed of the malformations of the conceived foetus, she would have interrupted the pregnancy, since such proof can’t be deduced only by the fact of requesting to be subjected to examinations with the purpose to verify the existence of eventual foetal anomalies».

Keywords: Medical liability; Prenatal diagnosis; Defensive medicine

Medical Liability: liability by frustration or probatio diabolica? The point of view of the 3rd Civil Section of the Supreme Court in the judgment n. 12264 of the 30.05.2014

Pratica Medica & Aspetti Legali 2014; 8(3): 91-96

http://dx.doi.org/10.7175/PMeAL.v8i3.931

Corresponding author

Alessandro Feola

alessandro.feola@unina2.it

Disclosure

Gli Autori dichiarano di non avere conflitti di interesse di natura finanziaria in merito ai temi trattati nel presente articolo

Introduzione

Da molti era auspicato un intervento chiarificatore, ma soprattutto conformativo della Corte di Cassazione sul tema del riparto dell’onere probatorio in merito alla domanda di risarcimento per il danno da nascita indesiderata. Tale auspicio sembra essersi finalmente concretizzato con la sentenza della III Sezione Civile n. 12264 del 30 maggio 2014. La sentenza in commento, si è schierata in aperto contrasto con l’ormai consolidato orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 13533 del 30 ottobre 2001, che attribuiva alla parte attrice il dovere di far valere l’inadempimento di una obbligazione nascente da contratto (o contatto sociale) il mero onere di allegare il titolo a fondamento dell’obbligazione, e dell’inadempimento, residuando in tutto e per tutto a carico del medico-debitore la prova liberatoria, concernente l’aver adempiuto correttamente, od il non aver potuto adempiere per causa a lui non imputabile.

La vicenda clinica

Una donna si recava per un controllo clinico presso una struttura sanitaria (ASL) dove scopriva di essere in stato di gravidanza. Pertanto veniva invitata dai Sanitari del medesimo presidio a sottoporsi per l’intera durata della gestazione a controlli ginecologici ed ecografici. Nei mesi seguenti la gestante si recava puntualmente ai predetti controlli durante i quali veniva sempre rassicurata sul buon andamento della gravidanza e sul buono stato di salute del nascituro. Nel novembre 1997 veniva alla luce il neonato che tuttavia presentava la mancanza di due dita e l’ipoaplasia del femore.

La vicenda giuridica

A causa della scoperta della malformazione congenita del neonato, la gestante e il proprio coniuge convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Tolmezzo, la ASL presso la quale la donna aveva effettuato tutti i controlli prenatali, chiedendo che questa venisse condannata al risarcimento dei danni causati dal comportamento negligente dei sanitari della struttura. Gli attori lamentavano una duplice forma di responsabilità a carico dei sanitari: 1) omessa informazione in merito alle reali condizioni del feto; 2) non corretta esecuzione o interpretazione degli esami prenatali che avrebbero svelato la malformazione. Il giudice di primo grado rigettava la domanda, ritenendo che fosse oggettivamente impossibile individuare la patologia da cui era risultato affetto il figlio attraverso una ecografia morfologica, eseguita dal ginecologo alla ventunesima settimana. Il Tribunale non riteneva addebitabili ulteriori profili di negligenza neppure in merito alla mancata rilevazione della anomala lunghezza del femore, atteso che la corretta scienza medica prevedeva la misurazione di uno soltanto dei quattro arti, operazione, nella specie, compiuta senza che fosse stata rilevata qualsivoglia anomalia. I coniugi impugnavano il provvedimento di primo grado innanzi alla Corte di Appello di Trieste, che, corretta in parte la motivazione della prima sentenza, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, ritenendo del tutto carente la prova del nesso eziologico tra la condotta colpevolmente omissiva del sanitario e il danno lamentato, ovvero l’omessa informazione circa la malformazione del feto. Nella specie il giudice d’appello sottolineava come la prova fornita dagli attori fosse inidonea a dimostrare che una corretta visualizzazione di tutti gli arti (nella specie, colpevolmente omessa), e una precisa misurazione con riferimento visivo all’arto controlaterale (poi rivelatosi ipoplasico) avrebbero portato a serie e apprezzabili probabilità di individuare la specifica patologia di cui il feto si sarebbe poi rivelato portatore. Pertanto i coniugi hanno impugnato la sentenza della Corte territoriale con ricorso per cassazione censurando la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto in punto di sussistenza del nesso di causalità ... nel caso concreto (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.); erronea determinazione delle conseguenze giuridiche relative al caso concreto; omessa lettura ed errata interpretazione e considerazione degli atti di causa e dei principi di diritto negli stessi enunciati (art. 360, n. 3 e/o 4 c.p.c.); omessa pronuncia (art. 360 n. 4 c.p.c.); ultrapetizione (art. 360 n. 4 c.p.c. )», nonché la motivazione «illogica, insufficiente ovvero contraddittoria ovvero omessa circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in punto di ritenuta insussistenza del nesso di causalità in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.); se non addirittura motivazione apodittica, inesistente e quindi meramente apparente in punto di ritenuta insussistenza del nesso di causalità (art. 360 n. 4 c.p.c.)». La Corte di Cassazione ha ritenuto che i motivi potessero essere congiuntamente esaminati, data la intrinseca connessione. Entrambi sono stati rigettati. Nella sostanza i ricorrenti hanno ritenuto che la Corte territoriale non abbia fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalle pronunce della stessa Suprema Corte nelle sentenze n. 13 del 2010 e n.14488 del 2005, i quali avrebbero certamente portato all’accertamento della responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera. Le parti hanno sostenuto che l’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni del feto in correlazione con la mancata comunicazione di tale dato clinico alla gestante, dovessero ritenersi circostanze idonee a porsi in rapporto eziologico con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza. Seguendo la generale regolarità causale, la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferirebbe non portare a termine la gravidanza.

La statuizione della Corte

La Corte, con la sentenza in commento ha operato un radicale revirement rispetto al passato. Ricostruendo l’iter logico seguito nella decisione, «la mera richiesta di accertamento diagnostico integra un semplice elemento indiziario dell’esistenza di una volontà che si può solo presumere essere orientata verso l’esercizio della facoltà prevista dall’art. 6, primo comma, lett. b), della legge 22 maggio 1978, n. 194». In quanto presunzione semplice, spetta alla ricorrente integrarla con elementi probatori ulteriori sufficientemente significativi, che debbono essere sottoposti all’esame del giudice per una valutazione finale. La Corte oppone un netto rifiuto all’impostazione tradizionale secondo cui incomberebbe sul medico l’onere di provare che, in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe potuto o voluto interrompere la gravidanza, sottolineando che «una diversa distribuzione degli oneri probatori equivarrebbe a trasformare il giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa, indebitamente collegata, nella sostanza, al solo verificarsi dell’evento di danno conseguente all’inadempimento del sanitario». Pertanto il giudice è chiamato a comporre il contrasto tra le parti in causa operando un accertamento vertente su tre profili di fondamentale importanza: in primo luogo deve valutare il rapporto di causalità tra comportamento (omissivo) del medico e il così detto danno evento, ossia la lesione del diritto all’autodeterminazione consapevole della gestante. In secondo luogo deve accertare se, ove il medico avesse tenuto il comportamento doveroso, fossero riscontrabili le condizioni previste dalla legge per la praticabilità dell’aborto. In terzo luogo, solo dopo aver accertato i suddetti elementi, può valutare se, pur sussistendone i presupposti di legge, la gestante una volta informata delle malformazioni del feto avrebbe verosimilmente compiuto la scelta di interrompere la gravidanza. Da quanto descritto si comprende come l’interprete debba condurre ben due giudizi ipotetici: il primo vertente sul comportamento che il sanitario avrebbe dovuto tenere, poi, quale sarebbe stata verosimilmente la scelta della gestante una volta resa edotta delle condizioni del feto. Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte prende le mosse dal dettato della L. 194/78, ai sensi della quale prima del novantesimo giorno dall’inizio della gravidanza l’interruzione è consentita, tra l’altro, in presenza di un serio pericolo per la salute fisica o psichica della gestante, mentre superato tale termine l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo se il pericolo per la vita della madre sia grave, oppure «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». In tale seconda ipotesi però la malattia deve essere già in atto e non ancora in una fase prodromica. Dalla normativa in esame si evince come il legislatore abbia operato un bilanciamento degli interessi in gioco, quali appunto i beni salute e vita della gestante e del concepito, facendo prevalere la salute della madre. La pronuncia in commento osta con l’impostazione sino ad oggi maggioritaria, secondo la quale l’accertamento circa la fondatezza della pretesa risarcitoria dovrebbe basarsi su presunzioni semplici: in passato si riteneva infatti «rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisse non portare a termine la gravidanza» [1-3]. La pronuncia in commento ritiene che siffatte presunzioni di colpevolezza, quasi impossibili da vincere per il medico, portino solo ad automatismi sanzionatori che si pongono in aperto contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento. Secondo il revirement della Cassazione l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per l’interruzione della gravidanza graverebbe sulla gestante, o comunque sulla parte attrice. Precisando altresì che la prova non possa basarsi sul mero fatto (storico) che la donna si sia sottoposta a controlli prenatali, poiché ciò non può assurgere a prova chiara che la gestante avrebbe interrotto la gravidanza ove fossero state diagnosticate malformazioni del feto, potendo costituire solo l’indizio di una scelta in tal senso, idoneo ad assumere rilevanza probatoria solo in presenza dei requisiti richiesti dall’art. 2729 c.c., ai sensi del quale il giudice deve ammettere unicamente presunzioni gravi, precise e concordanti. Tale limite potrebbe essere superato solo in presenza di una comprovata dichiarazione della donna circa la funzione strumentale dell’esame diagnostico prenatale alla conoscenza di eventuali malformazioni del feto, in presenza delle quali avrebbe abortito. La Suprema Corte chiarisce che la valutazione del giudice di merito debba avvenire senza generalizzanti apriorismi o semplificazioni, bensì tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto: tra le quali non potranno non venire in rilievo elementi rivelatori, quali la condotta della madre prima, durante e dopo il parto, le sue credenze religiose, le sue convinzioni etiche e il suo livello culturale. Il Collegio ha quindi deciso di «dare continuità al più recente orientamento, poiché appare più rispettoso delle regole probatorie stabilite dalla legge per il processo civile, nonché più sensibile alla complessità della questione alla base dell’intera vicenda risarcitoria, che non può prescindere da una precisa assunzione di responsabilità delle proprie dichiarazioni da parte della donna, unico soggetto cui la legge riconosce il diritto di decidere, sia pur a rigorose condizioni, della prosecuzione o meno della gravidanza».

Ricostruzione storica della responsabilità civile del medico e riparto dell’onere probatorio

L’annoso problema circa la natura della responsabilità medica prende le mosse dall’obbligo di cura del sanitario che trova il proprio fondamento in un contesto ben diverso dal mero contratto di opera professionale, alla luce del fatto che tale obbligo di cura, nella maggior parte delle ipotesi, si incentra su un rapporto di lavoro dipendente tra il medico e la struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata. Si possono individuare tre fasi evolutive in merito alla natura da attribuire alla responsabilità medica. In una prima fase sembra prevalere la tesi della natura extracontrattuale, in quanto il rapporto contrattuale veniva riconosciuto solo tra il paziente e la struttura sanitaria in ragione del contratto stipulato tra dette parti nel momento di accettazione del paziente dalla struttura [4]. Il medico rimaneva estraneo a siffatto rapporto contrattuale, instaurando con il paziente solo un rapporto indiretto1.

Ma ravvisare nel medico un quisque de populo mostrò ben presto i suoi limiti, tanto che a partire dagli anni ’80 venne inaugurato un nuovo orientamento favorevole alla natura contrattuale sia della responsabilità della struttura sanitaria sia del medico dipendente [5-7]. Il fondamento della responsabilità contrattuale venne inizialmente riconosciuto nell’art. 28 Cost., in virtù dell’immedesimazione organica del medico nella struttura dell’ente ospedaliero. Ritenuto il fondamento troppo labile si fece largo la tesi del contratto in favore di terzo, secondo la quale la prestazione oggetto del contratto di lavoro stipulato tra medico e struttura sanitaria sarebbe andato a beneficio del paziente, ai sensi dell’art. 1411 c.c. (sebbene limitatamente alla figura del contratto di assistenza al parto). Emerse poi la tesi del contatto sociale qualificato, che s’instaura tra medico e paziente al momento dell’accettazione dello stesso in ospedale, con la presa in carico da parte del sanitario. Il contatto sociale qualificato genera nel paziente un legittimo affidamento nelle capacità del medico, configurando in tal modo una «obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in quanto poiché sicuramente sul medico gravano degli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale» [8]. Trattasi di obblighi scaturenti dalla clausola generale di buona fede e correttezza, coincidenti con le prestazioni assistenziali che formano oggetto dell’atipico contratto di spedalità, il cui addentellato normativo si individua nell’art. 1173 c.c., che si pone come clausola aperta dell’ordinamento, nella parte in cui indica come fonte di obbligazioni «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».

L’ultima fase, la terza, si caratterizza per un passaggio fondamentale, in cui l’oggetto da obbligo di protezione che caratterizzava la tradizionale tesi del contatto sociale, diviene anche obbligo di prestazione, «che si modella sul contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati interessi emersi o esposti a pericolo in occasione di detto contatto, e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi» [9]. In tal modo il paziente, creditore, acquista il diritto a ricevere le cure mediche con tutte le caratteristiche della prestazione media della categoria di appartenenza, eseguita secondo le leges artis specifiche. Data la particolarità e la personalità degli interessi in gioco, quali il diritto alla salute, all’autodeterminazione in ambito sanitario, sino al diritto alla vita, tutti costituzionalmente tutelati, si riteneva necessario attribuire alla parte attrice un onere probatorio non aggravato, ma almeno qualificato [10]. Tuttavia, anche se enunciato a chiare lettere, la giurisprudenza successiva non ha però applicato il medesimo criterio di riparto per la responsabilità medica a tutte le branche interessate, e soprattutto nelle ipotesi di omessa o errata diagnosi prenatale, per la quale sembrerebbe desumersi essere stata configurata una responsabilità del sanitario quasi al limite della responsabilità oggettiva, poiché dall’allegazione circa il riscontro della malformazione alla nascita si desumeva il danno, come danno in re ipsa. Riguardo al riparto dell’onere della prova, l’intervento delle Sezioni Unite nel 2001 ha stabilito un criterio di carattere generale applicabile in caso di inadempimento di un’obbligazione, nelle diverse ipotesi in cui il creditore agisca per l’esatto adempimento, per la risoluzione del contratto, e altresì per il risarcimento del danno, secondo il quale sull’attore graverebbe l’onere di allegare la fonte del suo diritto, ovvero il titolo sulla base del quale avrebbe dovuto ricevere la prestazione, nonché l’avvenuto inadempimento della controparte; residua invece a carico del debitore la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, concernente l’aver adempiuto, o il non aver potuto adempiere per una causa esterna, di per sé idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta e l’inadempimento [11]. Alla base della suddetta disciplina si poneva il principio di riferibilità o vicinanza alla prova, nel caso di specie incombente sul medico, poiché egli è il solo in possesso degli strumenti per paralizzare la pretesa creditorea, grazie alle competenze tecniche esercitate e sconosciute al creditore poiché estranee al bagaglio della comune esperienza [12-14]. Solo nel 2008 le Sezioni Unite, con le sentenze n. 577 e 589, hanno superato la dicotomia obbligazioni di mezzo/obbligazioni di risultato, sulla base della quale si attagliava la distinzione tra interventi di difficile esecuzione e interventi routinari, rispettivamente ai quali si applicava un diverso riparto dell’onus probandi. Con tale pronuncia il Supremo Consesso individua un unico criterio, quello sopra descritto, come indicato dalla pronuncia del 2001, predicando la sua estensibilità a tutte le fattispecie di responsabilità del sanitario. Tuttavia la tesi in esame non è andata esente da critiche, in quanto buona parte della dottrina ha subito sottolineato come una siffatta presunzione di colpevolezza finisse per gravare eccessivamente il sanitario di una così detta probatio diabolica, in quanto per andare esente da responsabilità quest’ultimo avrebbe dovuto provare di aver correttamente adempiuto, e che il danno fosse stato generato da una causa esterna alla sua condotta, idonea di per sé ad incidere negativamente e a causare il danno lamentato [15-17]. Ciò portava alla paradossale conseguenza secondo la quale il sanitario avrebbe subìto il così detto «rischio della causa ignota», ovvero nel caso in cui questi, pur dimostrando l’estraneità della propria condotta, nel caso in cui non fosse stato in grado di riconoscere la causa esterna che effettivamente aveva provocato il danno – individuando altresì i processi etiologicamente orientati alla realizzazione della lesione – avrebbe comunque risposto in prima persona del danno subìto dal paziente. Tali dubbi hanno portato la giurisprudenza ad operare un alleggerimento dell’onus probandi a carico del medico, richiedendo al paziente l’allegazione di un inadempimento qualificato, sufficiente a determinare che la condotta del medico fosse almeno astrattamente idonea a cagionare il danno.

Nonostante i recenti approdi giurisprudenziali ora descritti vertenti su di una più equa ripartizione dell’onere probatorio, nelle ipotesi di omessa diagnosi prenatale di malformazioni del feto sembrerebbe invece che la giurisprudenza abbia preferito aderire all’interpretazione restrittiva della pronuncia del 2001, ponendo il sanitario in una posizione di netto svantaggio.

Al fine di comprenderne a pieno le implicazioni, occorre circoscrivere la condotta rimproverata al medico.

Trattasi generalmente di un comportamento a contenuto omissivo, rappresentato dall’omessa o incompleta diagnosi prenatale di malformazioni congenite del feto. Il così detto «danno da nascita indesiderata» si configura come una violazione da parte del medico del diritto di autodeterminazione della donna, nel caso di specie, del diritto ad abortire. Analizzando la produzione giurisprudenziale sino alle recenti sentenze, si nota come nel danno da nascita indesiderata sia stata mantenuta una certa rigidità. La pronuncia in commento si pone in aperto contrasto con tale impostazione, poiché, sebbene sia vero che la generale disciplina della responsabilità da inadempimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1176 e 1218 c.c., assoggetti il creditore-paziente ad un onere probatorio certamente favorevole, basato su una presunzione di colpevolezza del sanitario-debitore, è altresì vero che ciò non possa sfociare in veri e propri automatismi sanzionatori, per evitare i quali occorre un temperamento delle suddette presunzioni. Con il revirement oggetto di discussione la Corte di Cassazione attribuisce alla gestante l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per l’interruzione della gravidanza, così prendendo atto della moderna tendenza della gestante a sottoporsi a controlli prenatali per una gravidanza sicura, non potendo da ciò automaticamente desumersi la volontà di abortire. Data la difficoltà per l’interprete di ricostruire i percorsi di scelta della donna, alla luce del fatto che si verte in un campo prettamente interiore, caratterizzato da un’accentuata soggettività, e soprattutto coinvolgente anche aspetti etici e della vita di relazione, si comprende come l’indagine sull’effettivo rapporto causale intercorrente tra il comportamento omissivo del medico, e la violazione del diritto all’autodeterminazione in scelte personali quali quella di interruzione della gravidanza, assuma un ruolo fondamentale2. La sola presunzione non può mai assurgere a valore di prova. D’altra parte, proprio per il principio della vicinanza della prova, questa non potrebbe incombere sul medico. Spetta alla gestante integrare il contenuto di quella presunzione semplice con elementi probatori ulteriori atti a confermare la sua decisione di abortire. Una diversa distribuzione degli oneri probatori avrebbe come conseguenza l’attribuzione al medico della responsabilità, con conseguente obbligo di risarcire il danno sulla base del mero riscontro della malformazione.

Conclusioni

Grazie all’intervento della pronuncia in commento, sembra potersi finalmente affermare che anche la giurisprudenza di legittimità abbia accolto questo cambiamento circa il riparto dell’onere probatorio, applicando concretamente il medesimo criterio in generale nelle varie forme di manifestazione della responsabilità medica. Questa pronuncia si pone nel solco del processo inaugurato da autorevole dottrina volto ad osteggiare il ricorso alla così detta medicina difensiva omissiva, che stava portando ad un dirottamento altrove del paziente sottoposto a cura al fine di evitare ripercussioni giudiziarie [18]. Anche il legislatore si è mostrato sensibile a tale problematica, intervenendo con il rinomato Decreto Balduzzi, D.L. 158/2012, convertito con modificazioni in L. 189/2012, il quale configura una responsabilità del sanitario che abbia seguito le linee guida attinenti al caso specifico solo nel caso di dolo o colpa grave. La pronuncia in commento sembra aver accolto il monito proveniente da più parti, arginando il rischio, secondo molti dietro l’angolo, di svilire l’esercizio della professione medica costringendo i sanitari a pensare prima alle conseguenze civili o penali che potrebbero verificarsi, piuttosto che al best interest del paziente.

Bibliografia

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1 Ricondurre la responsabilità del sanitario a quella extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., portava alla conseguenza per cui il risarcimento del danno era soggetto al termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2947 c.c., e soprattutto il paziente-creditore era gravato dall’onere di provare non solo che i pregiudizi subiti fossero stati direttamente causati dalla condotta antigiuridica del medico, ma anche l’ingiustizia del danno, ovvero la colpa o il dolo del danneggiante

2 La stessa Suprema Corte richiama nelle motivazioni due precedenti sentenze (la n. 7269 del 22 marzo 2013 e la n. 16754 del 2012), nelle quali si specificava che «nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata – ricorrente quando, a causa del mancato rilievo da parte del sanitario dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità della scelta di abortire – è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta – o presunta – dal solo fatto della richiesta di sottoporsi ad esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto».

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